Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit

Avevo chiuso la scorsa puntata promettendovi che di qui in avanti la mia rubrica di musica giramondo si sarebbe dedicata solo al mio grande e perduto amore Bjork, tanto oramai le visite al Pablog si sono attestate sulle tre alla settimana, non rischio certo un’emorragia di lettori. Solo che per scegliere quali canzoni proporre avrei dovuto ascoltare un sacco di roba di Bjork, e a casa quando metto Bjork troppo a lungo rischio il divorzio, quindi la scelta è diventata fra la mia arte e il mio matrimonio, quindi fra scrivere roba mediamente divertente a scrivere roba nera e incazzata. È per questo che oggi parlerò di un’altra band, collegata agli Sugarcubes per avere partecipato entrambi al Roskilde Festival, in Danimarca, nel 1988.

Del Roskilde Festival devo dire qualcosa. Intanto che è considerato il più vecchio festival musicale europeo: dal 1971 ha offerto un palco a una straordinaria lista di musicisti, dai nomi che conosci solo se sei un grande appassionato di jazz scandinavo fino a quelli che spaccano le classifiche ogni volta che fanno uscire un singolo. Per dire, l’edizione del 2022 ha visto sfilare Robert Plant e Alison Krauss, ma anche Dua Lipa e i Fontaines D.C., attirando nella fangazza in cui è solito sguazzare il pubblico sia i trentenni sia i sessantenni.
E poi devo dire che ci sono i nudisti. Lungo il perimetro dell’area campeggio si corre ogni anno la Roskilde Naked Run, una maratona che, come dice il titolo, punta più sull’aerodinamicità dei concorrenti che sulla loro preparazione atletica, si corre tutti nudi, giovani, anziani, sporchi di fango e non. Io credevo che in Danimarca facesse freddino d’estate, ma evidentemente mi sbagliavo.

L’edizione del 1988 vide esibirsi, fra i nomi più popolari, i Toto, Leonard Cohen, Sting e i Pogues. Al festival però, non alla maratona dei nudisti, ed è un peccato, perché esiste uno studio che dimostra come le orecchie di Shane Macgowan quando corre producano un suono che si avvicina molto al frullare di ali del dodo, un uccellone ormai estinto. C’era anche Ali Farka Touré, a cui ero tentato di dedicare questa puntata, ma alla fine ho deciso di buttarmi su suoni più caraibici, per cui oggi vi parlerò dei Kassav’.

Shane MacGowan of The Pogues, 1980s | The pogues, Irish punk, Irish music
Non una delle foto migliori di Shane Macgowan, oppure sì

C’è un apostrofo dopo la v, ma non è un errore di battitura. La band prende il nome dalla cassava, la pianta che noi conosciamo come manioca, e più precisamente da un piatto tipico delle Antille, l’area dell’America Centrale che comprende Cuba, la Giamaica, Haiti e parecchie isole minori. Nel 1979 sull’isola di Guadalupa, azzarderei intorno a mezzogiorno, è nata la band Kassav’, formata dal bassista Pierre-Edouard Décimus e dal cantante e chitarrista Jacob Desvarieux, un personaggio cresciuto fra la Francia, il Senegal e Guadalupa, dove si è caricato di ritmi che poi ha dovuto convogliare da qualche parte sennò non riusciva a tenere i piedi fermi e la gente lo trovava oltremodo molesto. A Parigi suonava l’heavy metal, e quando i due artisti si incontrarono, e Décimus chiese a Desvarieux se voleva aiutarlo a mettere su una band, quest’ultimo pensò che si trattasse di un altro progetto di roba che picchia, e accettò con gioia.

La prima volta che si ritrovarono in sala prove, Desvarieux arrivò con la maglietta degli Scorpions, perché nel ’79 gli Iron Maiden avevano pubblicato solo un EP, e anche Eddie, lo zombi protagonista di tutte le loro copertine, sarebbe arrivato solo l’anno seguente. Décimus, che veniva da un mondo jazz, funk e sale da ballo, si presentò con un abito bianco, papillon nero e gilet dorato. I due si guardarono e si domandarono entrambi se per caso non stessero facendo una cazzata.

Non la stavano facendo: quell’incontro li portò a creare un nuovo genere musicale, lo zouk, un mischione di diversi ritmi locali, che in breve ottenne un successo pazzesco fra gli espatriati creoli in Europa, e non li fece diventare una band popolare, di più, li trasformò in un simbolo identitario. Se eri creolo e vivevi fuori dal tuo paese ascoltavi lo zouk, e se ascoltavi lo zouk ascoltavi i Kassav’.

Successe un po’ la stessa cosa negli Stati Uniti fra gli immigrati italiani: ai matrimoni napoletani suonavano la tarantella, e a quelli lombardi oh quant’è bella l’uva fogarina, e dopo un po’ ai matrimoni lombardi non ci andava più nessuno perché ci si rompeva il cazzo, si ritrovavano gli sposi coi loro parenti in questi saloni vuoti, e intanto nel palazzo di fronte era tutta una festa, casino, gente che gridava, petardi. Era di un triste che le coppie lombarde smisero di sposarsi fra di loro, e iniziarono a cercarsi i coniugi fra le famiglie del meridione per potersi imbucare alle loro feste. Fu proprio dall’unione delle tradizioni lombarde con quelle napoletane che, fra le altre cose, nacque la pizza col gorgonzola.

Nel 1983 i Kassav’ pubblicarono il singolo Zouk La Se Sel Medikamen Non Ni (Zouk è la sola medicina che abbiamo), fu il primo disco antillano a vendere 100.000 copie, impresa resa ancora più memorabile dal fatto che allora non esistevano i no-vax ad appropriarsi del brano per una delle loro assurde campagne.

Con gli anni produssero più di 50 album, e nel 2019 celebrarono il loro quarantesimo compleanno.
Oggi Pierre-Edouard Décimus è ancora in giro e continua a produrre musica, mentre il suo compagno Jacob Desvarieux se l’è portato via il covid l’anno scorso, celebrato da tutto il mondo musicale come uno dei grandi.

Personalmente ho un rapporto conflittuale con la musica da ballo, vorrei muovermi a tempo e somigliare a una sinuosa baiadera, emettere energia come una lampadina e ispirare le persone intorno a me ad alzarsi dalle loro sedie e abbandonarsi al ritmo, fino a generare tutti insieme un unico grande organismo gioioso che farà finire tutte le guerre e porterà il genere umano verso una nuova era fatta di amore e rispetto, ma quando comincio a muovermi qualcuno pensa che abbia le convulsioni o un attacco cardiaco e chiama aiuto, poi scoprono che stavo solo ballando e mi accusano di avere creato un falso allarme e qualcuno mi mena pure.

Anni fa andavo a ballare in un locale genovese che si chiamava Milk Club e faceva girare solo pezzi rock e pop, una roba divertentissima. Eravamo sempre io, il Dottor Hardla e Panzon, che sono altri due bloggers di cui potreste aver sentito parlare, dato che ogni tanto vengono invitati in televisione a parlare della loro prostata.
Ci andavamo perché eravamo tutti e tre singles, e in quel posto bazzicavano parecchie studentesse universitarie, e sognavamo di finire la serata avvinghiati a qualche poetessa venticinquenne fuoricorso tedesca in cerca di emozioni. In realtà ci sarebbe andata bene anche una cassiera di supermercato bresciana annoiata dalla vita, ma se devi sognare tanto vale sognare in grande.

Arrivavamo al locale sul tardi, dopo una serata di vizi come i veri bohemiens, scotch e sigaro e seghe mentali, e quando prendevamo possesso della pista la gente si scostava per lasciarci passare. Perché Panzon era alto uno e ottanta, era grosso e pesante e a quell’ora la sua postura era già pesantemente minata da tutto l’Oban che si era trangugiato, e beccheggiava come una portacontainer in mezzo alla bufera. Avevamo i nostri pezzi preferiti, che cantavamo forte credendoci di più, e per qualche strana associazione mentale ci eravamo convinti che il modo migliore per esprimere la carica sessuale di cui eravamo colmi fosse roteare sul posto come dei dervisci fuori forma. Inutile dire che né poetesse tedesche né cassiere bresciane furono mai irretite dal nostro fascino, piuttosto quando arrivavamo noi il dj capiva che la serata era finita, metteva gli ultimi pezzi e ci mandava a dormire.

(continua)

In questo biennio letargico, in cui ogni vita è diventata il riassunto di sé stessa, fatta da una sfilza di giorni identici occupati solo da obblighi a casa e obblighi al lavoro, ogni piccolo tentativo di rinnovarsi risuona come uno sparo nella notte. Anche andare dal parrucchiere rappresenta un piacevole diversivo nel panorama piatto che ci circonda. In questa tundra sociale i grandi cambiamenti sono scosse telluriche che fanno tremare i vetri di casa perfino a me, che ormai da anni mi sono allontanato dalla vita mondana, abito sui monti a debita distanza da ogni minuscola trasformazione, e la novità più consistente è una macchia di muffa sulla parete dello studio.
Dal mio eremo osservo quei pochi amici coraggiosi affrontare sfide per me impossibili, e mi rallegro nel vedere che, almeno per loro, il tempo non si è cristallizzato.

C’è Peppina, a cui anni fa dedicai pagine intrise di passione, notti insonni e l’ascolto ossessivo di canzoni indie dai testi imbarazzanti. A breve metterà al mondo una bimba. Sorrido pensando che, se fra noi le cose fossero andate diversamente, adesso forse aspetterebbe una bambina lo stesso, ma coi baffi. Oppure niente. Oppure una bicicletta. Perché poi una bicicletta, boh. Di certo non l’avrei convinta ad apprezzare i fumetti, nessuna delle ragazze che ho amato apprezzava i fumetti, chissà perché.

Poi c’è Augustina, che di eredi se ne porta in pancia due, quindi doppia fatica per le sue spalle piccole. Quando ci frequentavamo abitava in una casina piccina con sette lettini, ma immagino che adesso si sarà trasferita in una più grande, anche perché il suo compagno è alto alto, da solo ne occupava almeno tre, più il suo e quello dei due nascituri fanno sei, le sarebbe rimasto libero solo quello per il gatto, che però avrebbe dormito su tutti gli altri, ma intanto lei il gatto non l’aveva.

Ma lo scossone più forte, quello che ha mandato a gambe all’aria le mie certezze e mi ha obbligato a fare davvero i conti col tempo che passa, me l’ha dato il mio amico Hardla. Sono anni che ci conosciamo, che ci raccontiamo i nostri problemi e condividiamo le nostre gioie, al punto che se ad un certo punto ci fossimo anche scambiati le fidanzate, non ci avrei trovato niente di strano. Per me poi sarebbe stato vantaggioso, perché la sua era molto bella, mentre io non ne avevo nessuna.
È un uomo dalle certezze granitiche, il mio amico Hardla; uno da cui mai ti aspetteresti alcun cambiamento radicale. E invece.
Poco tempo fa mi scrive la sua fidanzata, dicendomi che Hardla è stato ricoverato in ospedale. Mi sono subito preoccupato, nonostante sia un mio coetaneo è anziano dentro, e per questo il tempo per lui scorre in maniera diversa: ogni tre anni dei nostri sono cinque dei suoi. Avevo paura che gli fosse capitato qualcosa di brutto, e che presto avrei dovuto portare dei fiori al suo capezzale e consolare la sua fidanzata. Con altri fiori, ma questa è una faccenda che non lo riguarda.

Per fortuna non era niente di brutto: dopo anni che coltivava in segreto il desiderio di ricorrere alla chirurgia plastica, finalmente si era convinto, e aveva finalmente deciso di farsi mettere il cazzo.
Non uno più grosso, no, proprio il cazzo, quello lì. Perché Hardla non l’ha mai avuto, da quando lo conosco al posto del cazzo aveva un cabinato di Pacman, e faceva tutto da lì. Quando gli scappava la pipì ci infilava duecento lire, schiacciava il bottone Player One, manovrava il joystick per indirizzare il getto e cercava di schivare i fantasmini. Se lo beccavano si interrompeva la pisciata, se finiva prima lui si sentiva la musichetta. Funzionava anche per il sesso, a patto di prendere prima le pastiglione gialle, ed è sempre stato così e tutti lo sapevamo e lo accettavamo. Era anche divertente il sabato sera nei vicoli, quando dopo aver bevuto tutti insieme si andava a pisciare tutti insieme, e tutti insieme si cantava la musichetta di Pacman.
L’unico fastidio Hardla lo aveva quando cercava di rimorchiare, perché la frase “ti piacerebbe venire su da me a giocare a Pacman?” veniva spesso fraintesa.
Dev’essere stato proprio questo a fargli maturare l’idea di un’operazione chirurgica, e onestamente non posso biasimarlo: a me per esempio piaceva molto di più Ghosts’n’Goblins, e se avessi dovuto dire a una ragazza che volevo mostrarle il mio cimitero mi sarei vergognato.. beh, da morire.

La decisione di Hardla è stata coraggiosa, per il rischio personale di sottoporsi a un intervento così delicato, che sarà sicuro quanto vuoi, ma non è qualcosa che si affronta a cuor leggero, ma non va dimenticato anche il peso che ha in società la sessualità di una persona, e andare a toccare quella bolla così delicata è un po’ invitare dei soggetti esterni a giudicarci. Non dovrebbe essere così, quello che succede nelle proprie mutande non dovrebbe essere oggetto di discussione pubblica, ma sappiamo come vanno queste cose, e credo che la decisione di Hardla sia stata coraggiosa anche per questo. Non è facile ammettere di essere atarisessuale.

L’operazione è andata bene, ormai quel tipo di interventi sono considerati di routine, anche se in realtà il cabinato non ce l’ha più nessuno, e la maggior parte degli uomini si fa mettere il cazzo al posto di una console di ultima generazione. Oppure ci sono quelli sfigati che passano la vita col Sega Master System, ma quelli sono personaggi borderline che non entrano neanche nelle statistiche.

Hardla mi ha raccontato che è stato molto emozionante tenere per la prima volta in mano l’arnese invece del solito joystick di plastica, e che il feedback tattile è molto migliorato. Anche la sua fidanzata si è dichiarata soddisfatta, soprattutto sul lato economico: ogni volta che voleva fare l’amore doveva andare a cercare gli spiccioli nel borsellino, e questo rovinava un po’ la spontaneità.

Immagino che noi amici ci metteremo un po’ ad abituarci alle pisciate di gruppo senza quella musichetta così familiare, ma magari per i primi tempi utilizzeremo un vecchio registratore a cassette. Certo, basterebbe un cellulare con YouTube, ma per certe cose è importante mantenere un tono vintage: il nostro amico Panzon ci tiene così tanto all’atmosfera retrò che anche se ha sempre avuto il cazzo, quando pisciava con noi la faceva a 8 bit, a quadrettoni.

L’importante è che adesso Hardla possa avere un rapporto migliore col proprio corpo e vivere felicemente quel poco di tempo che gli resta, che con tutto l’alcool che si tracanna sarà un miracolo se arriverà a Natale.

Tanti auguri di buona convalescenza, mio caro amico. Spero che queste limitazioni finiscano presto e tu possa finalmente mostrare agli amici questa bella novità.

Io questa cosa che è morto Lou Reed proprio non me l’aspettavo, ci sono rimasto di merda. Continuo a ripetermi che no, dai, non scherziamo, e vado a cercare la notizia su un altro sito, e anche lì dice che niente, è morto, bon.
Perché da uno così non ti aspetti che muoia e basta, lascia stare il grande musicista e i Velvet Underground, non è quello, cioè, è anche quello, ma non solo. Oltretutto a me neanche piacevano granché i Velvet Underground, l’album della banana ce l’ho, l’avrò ascoltato quattro volte, e quando volevo sentire Lou Reed mettevo su What’s Good, che è divertente e mi piace il testo, e appartiene a quel particolare periodo della mia vita che ricordo con nostalgia, ma non è il suo spessore musicale a farmi sentire come di fronte a una tremenda ingiustizia, è proprio la sua immagine e quello che la sua immagine rappresentava per me: un reduce di un tempo che non c’è più, una specie di vecchio capo indiano che invece di chiudersi nella riserva se n’è andato in cima alla collina e si è seduto controvento e ha tirato fuori la chitarra (suonava la chitarra Lou Reed? Nella mia fantasia si) e ha attaccato i suoi pezzi più difficili, quelli che piacevano a lui e basta, e se il resto del mondo si fosse dimenticato di lui a lui andava bene lo stesso, suca.

Ecco, nella mia testa Lou Reed era questo, e non ce lo vedo a morire così, come una persona normale. Secondo me Lou Reed doveva morire compiendo un’ultima grande impresa, buttarsi da uno shuttle o anche solo ammazzare Giovanardi regalandogli la sua autobiografia, andarsene col botto, come si addice a un personaggio del suo calibro.

Una volta l’ho visto, a Genova, era venuto per il festival della poesia a recitare delle sue composizioni ispirate agli scritti di Edgar Allan Poe; eravamo io e Andrea, ci siamo seduti in piccionaia in un teatro pieno e caldissimo, e lassù in cima mancava l’aria, e c’era Lou Reed che recitava le sue cose con un tono monocorde che ti saresti buttato di sotto per la disperazione, e ad un certo punto non ce l’abbiamo più fatta e siamo usciti, scusa Lou, ci hai frantumato i coglioni. Mi sono divertito di più quando sono stato a bere allo stesso tavolo di Lawrence Ferlinghetti.

Però Ferlinghetti quand’è morto non ci sono rimasto male come stasera, che se n’è andato uno dei grandi vecchi del mio immaginario di rockstarz che salvano il mondo.

Io ve lo dico, se e quando se ne andrà Mick Jagger sarà una cazzo di tragedia.

Riassunto delle puntate precedenti:

Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp

Eravamo rimasti a Tony Bennett, che fra una canzone pizzamandolino e l’altra trova il tempo per dipingere ed esporre i propri quadri allo Smithsonian di Washington D.C., ma non quello per comprarsi un paio di occhiali con una montatura di questo secolo, ma quelli sono affari suoi.

Il connubio fra pittura e musica è molto antico, si dice che già i nostri antenati delle caverne amassero intonare dei motivetti orecchiabili mentre lasciavano manate sulle pareti di roccia (anche se esistono altre correnti di pensiero riguardo la nascita stessa della musica), e da allora siamo stati testimoni di innumerevoli casi di musicisti/pittori, o viceversa.

Tutti sappiamo che Leonardo Da Vinci era uno straordinario pittore e anche un ottimo suonatore di lira, e l’amicizia che legava Vasilij Kandinskij ad Arnold Schönberg ci spiega un sacco di cose sul connubio fra queste due forme artistiche, ma per esempio pochi sanno che anche in tempi più remoti era usanza comune per un pittore intraprendere ad un certo punto della propria vita la carriera musicale: verso la fine del XIII secolo il pittore Cimabue, messo ormai all’angolo dal suo allievo Giotto, decise di appendere la tavolozza al chiodo e girare l’Italia cantando stornelli; duecento anni più tardi il Sassetta terminò alla svelta un’Adorazione dei Magi per poter partire in tournèe col suo gruppo hard rock, dove suonava la batteria.

Il Sassetta dietro la batteria del suo gruppo Spingarde’n’Roses

In tempi più recenti i musicisti che si fanno apprezzare anche come pittori sono un esercito: Franco Battiato, Ron Wood, Bob Dylan, il già citato Tony Bennett e la cantante di cui parlerò oggi, Joni Mitchell.

Canadese, un carattere difficile fin da bambina, quando litiga con la maestra di pianoforte perché di suonare i classici non gliene frega niente, lei ha imparato Nella Vecchia Fattoria e vuole fare solo quella. Comincia a dipingere, e dopo il liceo si iscrive a una scuola d’arte, ma anche lì non funziona, le danno da studiare dei quadri che non ritiene adeguati alla propria formazione, e molla tutto.

Nella seconda metà degli anni sessanta è a Toronto che cerca di sfondare come musicista, e incontra, fra gli altri, Leonard Cohen. Non faccio la prossima puntata su di lui perché il suo più fedele seguace, Hardla, non me l’ha ancora chiesto, e quindi vi racconto ancora qualcosa sulla sua biografia, che comincia a farsi interessante quando Joni si trasferisce a New York e comincia a suonare per davvero, e nel 1969 si fidanza con David Crosby, che aveva mollato i Byrds un paio d’anni prima. Altri due anni e la troviamo insieme all’amico e collega di Crosby, Graham Nash.

Questa dev’essere la foto che uno ritrova anni dopo dentro un vecchio libro e mormora fra i denti parolacce irripetibili.

Ho provato a cercare aneddoti su questa storia, ma non ne ho trovato nessuno, immagino sia stato un passaggio abbastanza indolore, visto che poi la collaborazione artistica è proseguita con entrambi, ma è più divertente immaginare che ci sia stata una sera in cui lui è tornato a casa e l’ha trovata seduta a tavola, e quando s’è tolto la giacca lei si sia alzata, l’abbia raggiunto nell’ingresso e gli abbia detto “David, dobbiamo parlare”.

Non credo ci sia bisogno di scendere nel dettaglio, ogni discorso è diverso, ma tutti si reggono sulle stesse fondamenta; di sicuro ad un certo punto c’è stato qualcuno che ha detto “non sei tu, sono io”, e siccome una Joni Mitchell l’abbiamo incontrata tutti nella vita sono sicuro che lei deve avergli fatto un discorso del tipo “siamo troppo diversi, tu sei un pesce e io uno stambecco”, e a nulla sarà valso a quel punto ricordarle che tecnicamente l’animale con le corna era lui, alla fine della conversazione David avrà osservato sgomento la schiena della sua a quel punto ex fidanzata scomparire dietro la porta della camera da letto e si sarà posto la domanda che tutti si sono posti arrivati a quel punto della discussione: “ma se ti chiudi in camera da letto io dove cazzo dormo?”.

Nonostante tutta la caparbietà che ha contraddistinto la sua carriera artistica, o forse proprio per quello, che la caparbietà è solo una delle caratteristiche che le contraddistinguono, io credo che Joni Mitchell appartenga alla categoria di Quelle Che Si Cercano. È una specie molto vasta di donne che comprende le tizie coi problemi mentali e quelle che all’apparenza sono normali, ma che poi si iscrivono ai corsi di buddismo tantrico e massaggio tibetano e quando le rivedi dopo dieci anni ti raccontano che la loro vita è cambiata e pace e amicizia ed è meglio che a quel punto corri via veloce, che se commetti l’errore di invitarle a cena ti accorgi che sono esattamente le stesse stronze di dieci anni fa, solo che ora portano i sandali. Non hanno una casa, non hanno un lavoro, si circondano di amici misteriosi che le ospitano in giro per il mondo e le coprono di regali, e si rapportano a voi nello stesso modo in cui voi vi rapportate al vostro medico: vi considerano indispensabile, ma cercano di frequentarvi il meno possibile. Cercare di tirar fuori qualcosa di costruttivo dalle Tizie Che Si Cercano è inutile e alla lunga dannoso, un po’ come mettersi con una persona tossicodipendente convinti di poterla aiutare. Le Tizie Che Si Cercano non sono dei teneri orsetti pacioccosi a rischio estinzione, sono degli squali perennemente in cerca di preda, sempre in movimento coi loro occhietti inespressivi e i denti affilati, quando se ne avvista una è meglio correre a chiamare il bagnino e far mangiare lui.

L’ho già scritto che Joni Mitchell è anche un’ottima pittrice?

Mi sarebbe tanto piaciuto proseguire la mia catena musicale con Graham Nash, visto che anni dopo ha suonato con David Gilmour nel suo meraviglioso tour acustico, ma abbiamo detto che dev’essere un viaggio di scoperta, no? Joni Mitchell la scopro oggi, e devo continuare in questa direzione; i Pink Floyd che scoperta sono, che li ascoltavo in terza media?

Del gruppo, all’epoca del tumultuoso ingresso di Joni Mitchell, ha fatto parte anche Stephen Stills, che immagino nella scomoda veste dell’amico confidente che poi alla fine non scopa mai, svergliato nel cuore della notte da David che non sa dove andare a dormire, da Joni che vorrebbe un consiglio disinteressato e infine da Graham, divorato dai sensi di colpa. Non parlerò neanche di lui nella prossima puntata, ma del quarto elemento, arrivato dopo e scampato al tumultuoso giro di telefonate notturne.

Per il momento ascoltatevi uno dei successi di Joni Mitchell, tenendo presente che prima o poi la figlia di Bill Clinton deciderà di buttarsi in politica, e se un giorno il primo presidente donna degli Stati Uniti si chiamerà come una squadra di calcio londinese sarà tutta colpa di questa canzone.

(continua)

Tanto tempo fa scrivevo su queste pagine (che ancora erano le pagine di splinder, ma se risalite ai mesi precedenti le trovate su queste pagine, perciò è inutile fare tante questioni) una rubrica intitolata Campionato Mondiale di Referrers, dove cercavo di dare soddisfazione ai visitatori accidentali del mio blog, quelli capitati chissà come, cercando foto di Sbirulino in reggicalze. Mi mettevo lì e pubblicavo una foto del pagliaccio mezzo nudo, contando che alla visita successiva i miei anonimi frequentatori avrebbero appagato i loro pruriti. Ovviamente non capitavano solo gli appassionati di nudi da avanspettacolo, le chiavi di ricerca del mio blog erano stracolme di assurdità, tanto che ci sarebbe stato da scriverne per mesi.

Non lo facevo solo io, il mio amico Hardla curava sulle sue pagine una rubrica simile, chiamata “La posta dei lettori“, che faceva molto ridere, ed è ben strano, perché chi lo conosce lo trova di solito una persona noiosa e pedante e che non sa perdere alle cacce al tesoro. Purtroppo ad un certo punto della sua vita ha scoperto l’opera lirica, e adesso trascorre tutto il suo tempo libero a fotografare cantanti e scorci di teatro, ad impararsi a memoria le arie più difficili del Parsifal, tipo quel pezzo che dice “Stunztumpatafûlmen ho finito le rape rosse” e il suo blog è finito alle ortiche, e io mi sono trovato senza niente da leggere e mi è toccato abbonarmi a Internazionale, dove c’è anche la posta dei lettori, ma non è divertente come quella di Hardla.

Adesso ero qua senza niente da leggere, che Internazionale nuovo non è ancora arrivato, e mi arriva un’email da un sito che si chiama Timehop Abe, che ogni giorno mi dice cosa scrivevo su facebook un anno fa (lo so, voi persone normali lo troverete un servizio assurdo, ma per noi malati di alzheimer è piuttosto utile): io un anno fa finivo di leggere l’ultimo volume del Trono di spade, quello che in Italia ne sono usciti solo due terzi e ancora stanno a chiedersi. Io un anno fa finivo tutto il libro e ci restavo così, con un grande interrogativo che si pone sempre chi legge un libro di Martin, e non vi sto a dire quale perché magari voi non l’avete ancora letto, e poi perché stavo parlando d’altro, non so come ci sia finito a parlare di tronidispade.

Comunque è un anno che resto senza niente da leggere, e di solito risolvo rileggendo il mio vecchio blog, o sbirciando le statistiche, che sono una cosa piatta e desolante che poi ci credo che mi scrive la tizia spammer esperta di siti web che mi chiede di collaborare e mi presenta un curriculum che sticazzi, ma allora mi chiedo perché col tuo curriculum che sticazzi ti sei ridotta a chiedere l’elemosinaa uno che fa il blogger a tempo perso e lo leggono al massimo in venticinque di cui venti sono sempre lui quando non ha altro da leggere?

Insomma che stavo dando un’occhiata alle chiavi di ricerca, e ce ne sono certe che ueila! Sarebbe il caso di rispondere a queste certe, mi sono detto, e allora sai cosa? Rimetto in piedi il Campionato nazionale di referrers, ma con un titolo meno pretenzioso, che non mi faccia pensare che tutti i mesi dovrò mettermi lì a proseguirlo per non sentirmi in colpa. Stavolta lo chiamerò Gino, che mi sembra un nome parecchio non pretenzioso.

La prima ricerca cui voglio dare una risposta riguarda iban postepay, che è la voce più cercata in assoluto fra i lettori che capitano su queste pagine.

Iban Postepay è un quarantenne di Kaluga, una città a 150 chilometri da Mosca famosa per aver dato i natali alla prima moglie di Pietro Il Grande e alla seconda di Michail Fedorovich Romanov. Oltre a sfornare zarine, Kaluga non offre granché, c’è un museo dedicato agli astronauti, una ferrovia e un’università. E fa freddo. Tanto freddo. Così freddo che la sorella di Iban è stata costretta a comprarsi una stufa per sè e per sua figlia piccola. Elena, così si chiama la donna, è una spammer di professione: spedisce a tutti richieste di denaro cercando di impietosire gli utenti internet più gonzi raccontando la triste storia di lei che deve comprarsi una stufa, ma non ha un reddito. Suo fratello Iban ha cercato di convincerla a trovarsi un lavoro più serio, le ha promesso di mettere una buona parola alla fabbrica della Peugeot dove raddrizza antenne, ma lei niente. Dice che lo spam le rende molto di più e che un giorno lo vedranno tutti che aveva ragione.

Per il momento quel giorno non è ancora arrivato, e intanto Elena si è ridotta ad aver bisogno davvero della stufa perché dai e dai si è venduta tutti i caloriferi, e adesso le lettere che spedisce sono vere, ma ha rotto tanto il cazzo prima che oramai non ci crede più nessuno.

………….

La seconda voce più cercata riguarda le onnipresenti donne nude, ma non mi sembra il caso di indirizzarvi, cari amici ornitoconcussori: le donne nude e i gattini sono le due categorie di immagini più frequenti sulla rete, se ancora riuscite a sbagliarvi e capitate qui siete oltre ogni possibile aiuto, beccatevi un virus e tanti saluti.

………….

Tolte le due categorie che la fanno da padrone tutti i mesi vorrei passare alle ricerche settimanali, dove viene fuori tutta la creatività dei miei lettori.

Questa settimana quattro visite sono arrivate da uno che cercava strisce fumetti signor bonaventura.
Buongustaio, ma ignorante: il signor Bonaventura non si è mai fatto di coca, lo sanno tutti che la sua droga preferita è l’LSD.

Poi qualcuno mi chiede Holly Michaels chi è. Ignorante e basta, Holly Michaels è una pornostar dalle grosse poppe che va per la maggiore sui siti specializzati. Puoi vedere il suo video migliore qui.

E vorrei concludere prima di tediarvi, sebbene ce ne siano ancora di pazzesche, con zucche e pirati. La prima cosa cui ho pensato è stata una cosa di questo genere, ma in realtà google la pensava diversa, e mi ha suggerito un sito. Ci ho dato un’occhiata, ma mi è venuto in mente il budino e ho piantato lì.

Alla prossima.

Stasera sono particolarmente felice, e non è perché la mia fidanzata si è levata dalle balle andando su a vedere chilavisto, nè perché non mi ha mozzato le mani quando ha scoperto che avevo passato il pomeriggio a preparare una cena miserrima dove non ci mangiava neanche lei che mangia come un fringuello morto.

No, stasera sono particolarmente soddisfatto perché una sera di qualche tempo fa, ravattando nel pici, avevo trovato una vecchia cartella documenti risalente a qualche antica ripartizione, e mi ero deciso a fare un po’ di pulizia e l’avevo eliminata senza neanche farla passare dal cestino; il problema si era posto mentre la cartella, che era di notevoli dimensioni, si disfaceva sotto i miei occhi, mostrando una barretta azzurra in crescita e una serie di nomi sopra che mi dicevano ciaociao: parecchi di quei nomi erano uguali precisi ai miei racconti terminati, incompleti o solo abbozzati. Insomma, in poche parole mi ero accorto troppo tardi di avere buttato via il lavoro (via, lavoro..) di una vita.
La mia prima reazione è stata "ops", seguita immediatamente dopo da un bizzarro ripasso dei miei studi di catechismo, in cui ogni nome proprio che riuscivo a ricordare veniva associato alla parola maiale.
Dopo avere aggiornato l’elenco telefonico del paradiso facendo finire ogni inquilino alla lettera p ho cercato di convincermi che in fondo si trattava solo di dati inutili, che tanto i racconti più belli li avevo già pubblicati, che da qualche parte avevo ancora un cidi dove conservavo i più vecchi, che sarebbe stata una bella occasione per rinnovare il mio stile, magari smettendo di scrivere una volta per tutte, non come ora che mi racconto di fare chissà che e invece alla fine non concludo una cippa. Ho fatto spallucce, mi sono voltato di là, ma era solo per non far vedere che stavo piangendo.
Perché io a quei racconti incompleti ci tenevo, cacchio! Era il mio periodo felice e spensierato in cui mangiavo bile a colazione e mi restava l’alito cattivo per il resto della giornata, in cui mi distruggevo di seghe (anche) mentali e scrivere rappresentava l’unico momento in cui riuscivo a far tacere il rumore che avevo nella testa, o perlomeno gli facevo dire quello che volevo io e non quello che piaceva a lui.
Mica come adesso che quando cerco di buttare giù due parole devo starci a pensare, a rileggere, e correggo, limo, riscrivo e alla fine mi scogliono e butto via tutto. Non mi sento spontaneo, probabilmente perché la spontaneità non è più necessaria, e tutto quello che scrivo mi sembra somigliare a un trattato: parole difficili, lunghe, periodi complessi, frasi corte, perfino un uso frequente del puntoevirgola, io che la punteggiatura l’ho sempre considerata un condimento da usare con parsimonia. E poi non so come sia, ma tutto quello che scrivo mi viene fuori allitterato! "Considerata un condimento", "risalente a ripartizione", sembra che lo faccia apposta, e la cosa che mi fa incazzare è che se lo faccio apposta non ci riesco, decido di scrivere allitterato e mi fermo alla terza parola e pianto lì.

Ma non è che volessi mettermi qui a raccontare del perché non so raccontare, tanto ho perso l’uso delle metafore, risulterei noioso, puntoevirgola! Quello che volevo dire stasera è che ho aperto un’altra cartella posteggiata lì senza arte nè parte e ci ho trovato dentro tutto il mio archivio intatto e aggiornato, compreso il vecchio blog che avevo cancellato, cioè questo che (non) state leggendo. Sono di un contento che potrei mettermi a cantare a.. Ecco, un’altra cosa che non mi riesce più di fare è usare i soliti luoghi comuni, mi pesa, mi schifa anche un po’. A squarciagola è un modo di dire che non voglio più usare, piuttosto dico che mi metterei a cantare a un volume che potrebbe risultare sconveniente a quest’ora, ma così si perde il ritmo e la freschezza del racconto, e senza ritmo non c’è più niente, infatti quando la fiat l’ha ritirata dalla produzione ha cominciato a fare la duna, che è una macchina che va bene giusto per i rapimenti.

Mi metterei, dicevo, a cantare come un castrato, elevando il mio tono a frequenze sopportabili solo da un sordo con la testa infilata in un secchio di sabbia..

..a proposito di sabbia, oggi ho visto Tropic Thunder, e una delle battute migliori è di Tom Cruise che al telefono coi terroristi grida "Ti inculo con la sabbia!"..

..chiuso dentro una cassaforte sepolta nella stiva di una nave affondata in mezzo all’oceano, ma il Subcomandante mi griderebbe di smetterla che non riesce a sentire la Sciarelli che intervista la mamma di Denise per sapere cosa ne pensa della scomparsa di Emanuela Orlandi rapita dalla banda della Magliana secondo la ricostruzione di Gianloreto Carbone. Li so tutti!

Perciò taccio e mi rileggo un vecchio pezzo di quando sapevo ancora scrivere come si deve.
Che poi lo so che fra un paio d’anni riaprirò questa pagina e mi divertirò a leggerla e penserò che oggi sapevo ancora scrivere, mentre nel futuro che sarà il mio presente avrò perso ogni velleità artistica e passerò le mie giornate al bar a bere la ceres con quell’ubriacone di Hardla, che da quando si sarà sposato avrà perso ogni voglia di vivere e anche di tornare a casa perché quella strega di sua moglie lo maltratterà costringendolo ad andare all’ikea a vedere se sono arrivate le tende nuove che quelle della camera da letto la faranno sentire costipata nell’animo o qualche altra definizione assurda che saprà inventare lapperlà, e Hardla mi racconterà che si era innamorato di lei proprio per quel suo modo sofisticato di parlare, e che ora (ora di fra due anni, naturalmente) la ammazzerebberà (futuro condizionale continuato) ogni volta che apre bocca, quindi ordinerebbe un’altra camomilla al mirtillo e prugna, perché dal matrimonio sarebbe diventato astemio (parrà che la moglie lo avrà minacciato di scegliere fra astemio e astinente, e lui non vorrà rinunciare a quell’ultimo raro piacere, visto che neanche più allo stadio lo lascerà andare, la vipera), e io per consolarlo gli rivelerò che ho sentito Secchin, e che lui fa una vita ancora peggiore, che a confronto le nostre mogli/conviventi sono Madre Teresa Di Calcutta, e Hardla girerà il coltello nella piaga dicendomi "Beh, la tua ci somiglia un casino a Madre Teresa, è invecchiata veramente malissimo!", e allora sarò io a ordinare un’altra ceres, che a me la ceres mi fa pure cagare oggi come fra due anni, ma a quel bar lì dove ci vedremo io e Hardla non serviranno altro che ceres e camomilla al mirtillo e prugna, infatti saremo gli unici due clienti, tanto che il gestore sarà costretto a chiudere dopo poco e ad ammettere di avere sperperato tutti i miliardi accumulati in una vita di lavoro prestigioso, ma d’altronde si era capito che non ci sapeva fare con gli affari quando aveva comprato cinquemila sottobicchieri dipinti a mano da Picasso e si era fatto ricavare il cesso del locale da uno scarto di lavorazione di Michelangelo. Povero Panchin, si divertiva di più quando stava dalla parte giusta del banco.