Riassunto delle puntate precedenti:
Vado allo stadio con Beonio e scoppia una rissa: la morale è sempre quella, le scelte sbagliate provocano disastri. O almeno è così che me la racconto, la verità è che sono uno stronzo.

6.
30/09/20.., 14:09 – Beonio: Quindi vi siete lasciati
30/09/20.., 14:10 – Pablo: No, ci siamo presi del tempo per capire cosa vogliamo.
30/09/20.., 14:10 – Beonio: Quindi vi siete lasciati
30/09/20.., 14:10 – Beonio: La pausa di riflessione è sempre il modo più gentile che trovano per piantarci. Ti ha piantato, stattene
30/09/20.., 14:12 – Pablo: Ma no, ci siamo sentiti ancora stamattina, mi ha chiamato lei.
30/09/20.., 14:13 – Beonio: [odiosa faccina con gli occhi sbarrati]
30/09/20.., 14:13 – Beonio: E cosa voleva?
30/09/20.., 14:14 – Pablo: Saranno un po’ cazzi nostri, no?
30/09/20.., 14:15 – Beonio: [faccina altrettanto odiosa coi lacrimoni dal ridere] Stronzo
30/09/20.., 14:16 – Pablo: Ma niente, voleva sapere come sto, si è scusata per la scenata di ieri, dice che è colpa sua, che non sa bene quello che vuole, che anche lei ha delle cose che le pesano addosso, che magari è meglio se ci parliamo di persona.
30/09/20.., 14:19 – Beonio: Ahia
30/09/20.., 14:19 – Beonio: Ti vuole piantare
30/09/20.., 14:20 – Beonio: Preferisce dirtelo di persona
30/09/20.., 14:21 – Pablo: Qui se c’è uno che la deve piantare quello sei tu, gufo di merda.
30/09/20.., 14:22 – Beonio: [stessa faccina di prima che abbiamo già appurato quanto sia odiosa]
30/09/20.., 14:22 – Pablo: Adesso ci parliamo e vedrai che va tutto a posto.
30/09/20.., 14:23 – Beonio: E tu ci vorresti tornare insieme?
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Nel caso decidesse di non lasciarti
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Tutti i tuoi dubbi che avevi?
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Li hai risolti?
30/09/20.., 14:23 – Pablo: Credo che valga la pena provarci.
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Perché è inutile se poi anche tu non sai quello che vuoi
30/09/20.., 14:24 – Beonio: Non durerebbe
30/09/20.., 14:24 – Beonio: Fra due settimane sarete da capo
30/09/20.., 14:25 – Pablo: Anch’io sono stato affrettato. Abbiamo guardato tutti e due altrove invece di dedicarci a quello che stavamo vivendo insieme.
30/09/20.., 14:25 – Pablo: Due cretini, insomma.
30/09/20.., 14:26 – Beonio: [sempre quella cazzo di faccina, ma che problemi avete con la comunicazione verbale?]

Il giorno in cui ci vediamo è una sera, e una sera di pioggia, e vado a prenderla in macchina, e lei scende i tre gradini del portone senza sorridere, e mi chiedo cosa stia pensando, se è stata una cazzata accettare di vedermi, se sarò arrabbiato, ma non lo so, neanche riesco a capire cosa sto pensando io, mi guardo dentro in cerca di una risposta chiara, un sentimento che emerga su tutti gli altri e mi dia una direzione da seguire, e invece lei apre la portiera, si siede e mi guarda, e io la guardo, e non provo niente.

Non andiamo lontano, piove e nessuno dei due ha voglia di camminare. Siamo lì perché abbiamo da dirci delle cose, non c’è neanche bisogno di scendere dalla macchina. Cerco un posto in centro dove posteggiare, e restiamo lì, senza musica, il ticchettio della pioggia sul tetto. Ci sono state sere indimenticabili iniziate nello stesso modo, ma temo che questa lo diventerà per ragioni diverse.
Stiamo in silenzio, cominciare a parlare è un po’ un’ammissione di colpa, e a nessuno va di assumersi delle responsabilità. Perlomeno a me no, in fondo cos’ho fatto a parte ascoltare i consigli di quello scemo del mio amico? Insomma, non mi va di puntare il dito contro qualcuno, ma in questa macchina se c’è una persona che ha sbagliato atteggiamento non è certo quella che sta al volante.
Anna sembra leggermi nel pensiero, rompe il silenzio e dice “Scusami”.

“Ma no, dai, di cosa”, rispondo, mentre in testa si sgrana un rosario di accuse.
“Ti ho fatto una scenata per niente”.
“Vabbé, sarai stata..”
“.. è che mi sono sentita incastrata in qualcosa che non ero sicura di volere, capisci? Mi hai chiesto di prendere una posizione quando neanche sapevo dov’ero. Ho reagito male.”
“Ma non è che ti ho chiesto..”
“.. ma devi anche considerare la mia situazione, lo sai da dove arrivo. Ho alle spalle una storia pesante che mi ha segnato, non me la sono sentita di lasciarmi andare con questa leggerezza, mi ha preso il panico, ho pensato di non essere pronta.”
“Beh, certo, tutti abbiamo..”
“.. ma è sbagliato comportarsi così, perché se stai con una persona devi fidarti di lei, la fiducia è la base di tutto, se manca quella è inutile stare insieme, no?”
“…”
“.. e stare insieme significa quello, stare insieme, non passare del tempo insieme ma rimanere chiusi ognuno sulle proprie posizioni, significa aprirsi, e io questo non l’ho fatto, non mi sono fidata, ho avuto paura di farmi male, e così ho finito per farne a te, scusa.”
“Va bene, non..”
“.. e quando non ci sei stato più, perché io ti ho chiesto di andartene, io, non tu, colpa mia, lì ho capito che per te provavo qualcosa di più forte delle mie paure, che il passato è passato e tu rappresenti il futuro e voglio stare con te, fidarmi di te, ed è stato terribile che tu non ci fossi, e adesso che l’ho capito non ti voglio perdere di nuovo, voglio darti tutto quello che ho, che non sarà molto, ma è tuo, se lo vuoi ancora. Allora? Non rispondi?”

Dovrei dire qualcosa, e invece me ne sto fermo ad appoggiare lo sguardo sulla forma rassicurante della leva del cambio, del freno a mano, del bordo del sedile. Frugo con la mano nel buio della mia anima alla ricerca di un sentimento credibile con cui replicare. Non dico amore o passione, che sarebbero eccessivi, ma qualcosa vicino all’affetto, alla fiducia, andrebbe bene anche un po’ di stima. E invece niente. Il Molise.
Allora la bacio, col trasporto di chi cerca di sfuggire all’imbarazzo di non avere niente da dire, il classico bacio che in una coppia in crisi fa nascere un figlio. E lei ci crede, e mi infila in bocca una lingua avida. Cominciamo a toccarci, a infilare mani, a sbottonare, sganciare, strizzare dimentichi di essere posteggiati in una strada trafficata. Perlomeno dimentico io, lei si riprende quasi subito e mi sfila delicatamente la mano dalle sue mutandine.

“Se dobbiamo farlo qui almeno facciamoci pagare il biglietto”, mi sussurra all’orecchio col fiato grosso. Non mi faccio pregare, e prendo la via dei monti. Casa sua sarebbe più comoda, ma non me la sento di tornare a immergermi così in fretta nella sua vita.

03/10/20.., 10:12 – Beonio: E avete fatto bene, il divano era occupato [faccina che strizza l’occhio]
03/10/20.., 10:12 – Beonio: Come due ragazzini, eh?
03/10/20.., 10:13 – Beonio: Quindi adesso siete di nuovo fidanzati?
03/10/20.., 10:13 – Pablo: Vabbè, fidanzati.. ci vediamo.
03/10/20.., 10:14 – Beonio: Si, certo, fai il duro. Senza Anna sei perso
03/10/20.., 10:18 – Beonio: Sabato io e Francesca andiamo a cena. Venite?
03/10/20.., 10:20 – Pablo: Una bella uscita a quattro per metterci una pietra sopra e andare avanti.
03/10/20.., 10:21 – Beonio: [faccina che guarda su e immagino voglia dire che ci vuole tanta pazienza a sopportarmi]
03/10/20.., 10:21 – Beonio: Che rompicazzo che sei
03/10/20.., 10:21 – Beonio: Se ci fai pace vai avanti, sennò la lasci e basta!
03/10/20.., 10:22 – Pablo: Hai ragione, scusa. Va bene, dai, glielo chiedo. Ma immagino di sì, non avevamo impegni.
03/10/20.., 10:22 – Beonio: Volevate approfittare della casa libera [faccina che ma chi è che ride così, dai]
03/10/20.., 10:22 – Pablo: Hahaha.
03/10/20.., 10:23 – Beonio: [doppia faccina uguale a quella di prima, con queste grosse gocce di umore blu che le escono dagli occhi, secondo me indica una grave congiuntivite]

Due ore e quindici minuti prima dell’incidente.
Sono in macchina sotto casa di Anna, aspetto che scenda. La sua coinquilina ha passato la giornata con Beonio, ci incontreremo al ristorante. Un messaggio mi invita a salire, rispondo che dovrei cercare posteggio e che l’aspetto qui. Ascolto una canzone degli Smiths che dice di incontrarci nel vicolo presso la stazione ferroviaria. Guardo nello specchietto se arriva qualcuno, e quando sono certo di non essere visto mi abbandono a una smorfia difficile da spiegare. Beonio la tradurrebbe con una faccina in cui tutti i segni dell’espressione puntano verso il basso. Il portone si apre, è Anna. Passo alla canzone successiva.

Un’ora e quarantuno minuti prima dell’incidente.
Fuori dal ristorante La Buga non si vedono né Beonio né Francesca. E non rispondono al telefono. Entriamo, la cameriera vorrebbe sapere a che nome abbiamo prenotato, e vorremmo saperlo anche noi: Corradi, il cognome di Beonio, non risulta da nessuna parte, ma non significa niente, il mio amico lascia sempre cognomi diversi; potrei chiedere se le risultano prenotazioni a nome di politici o calciatori, o se stanno aspettando qualche ospite straniero, probabilmente cinese. Faccio prima a guardare se i nostri amici sono nella saletta sul retro. Non ci sono, tranne un tizio seduto da solo la saletta è vuota. Quando torno di là arrivano Beonio e Francesca. Lui dice alla cameriera che la prenotazione è a nome Rosolini. Ma perché?

Più tardi la forchetta di Anna plana inattesa sul mio piatto e pesca due acciughe. “Ehi!”, rispondo. Lei mi mostra la lingua. Sento qualcosa muoversi laggiù, nel buio. La guardo, ha i capelli raccolti sulla nuca, gli occhiali le sono scivolati sulla punta del naso. Racconta agli amici di un episodio accaduto al lavoro, si sta divertendo. La guardo ridere, le osservo la bocca, i denti piccoli, ho voglia di baciarla. Mancano trentasette minuti all’incidente.

Otto minuti. La cameriera viene a chiederci se desideriamo il dolce. Lo desideriamo. Siamo un po’ ubriachi, lo desideriamo rumorosamente. Anna mi si appende al braccio e mi soffia qualche parola nell’orecchio. Non capisco, le do un bacio leggero e sembra soddisfatta. Chissà cos’avrà voluto dire.
Faccio dei segni a Beonio per capire se si fermerà a dormire da Francesca o se avremo la casa per noi. Avrei ottenuto di più se gliel’avessi chiesto in cinese, mi dice cazzo vuoi a voce molto alta.

Mancano due minuti all’incidente. Attiro l’attenzione del mio amico e stavolta il messaggio arriva. Mi fa un sorrisetto malizioso, si volta a dire qualcosa a Francesca e anche lei mostra lo stesso sorriso. Dice “Anna, mi sa che qualcuno ha dei piani per il dopo cena”. Anna dice “Mi sa che li abbiamo tutti e due”, mi bacia il collo. Rido, un po’ imbarazzato.

Dalla sala sul retro compare il tizio di prima, quello che credevo a cena da solo. Non è da solo, sta parlando con qualcuno alle sue spalle. Il qualcuno alle sue spalle viene fuori dalla stanza, e non è qualcuno. È Drusilla.

Smetto di ridere.

Riassunto delle puntate precedenti:
Ci sono due che parlano un sacco e non succede niente, poi uno dei due conosce un’altra e succede subito di tutto. Si vede che quando le cose non funzionano è proprio perché non possono funzionare.

Una domenica pomeriggio sono allo stadio ad assistere a un Genoa – Lazio che si annuncia difficile.
Sto al centro della Gradinata Nord, il cuore della tifoseria, proprio dietro due tizi con uno stendardo grande come un letto a due piazze su cui leggo È’C ILGEP. Mi fa piacere per loro, anche se spero che ripongano questa dichiarazione di stato prima dell’inizio della gara, o non vedrò niente.
A pochi passi dalla mia posizione i militi della Frangia Parrucchieri dirigono i cori. Poco sotto il gruppo più estremo del tifo locale, la Brigata Fiorellini, gesticola verso i sostenitori avversari, cercando di spiegare cosa stanno facendo le loro mogli mentre questi sono in trasferta.

Insieme a me c’è Beonio. Da quando frequentiamo due ragazze che vivono insieme anche i nostri incontri si sono intensificati. È stato lui a convincermi ad accompagnarlo allo stadio, fosse per me avrei ignorato per sempre ciò che succede fra quelle mura.
Voleva parlarmi. Dice che le cose fra lui e Francesca stanno andando benissimo, si vedono continuamente, anche se il più delle volte è tutto buio, e mi pianta nel fianco una gomitata allusiva. Ma che ci sta molto bene e fanno anche molte altre cose, tipo andare al cinema. Dove comunque ogni tanto, e mi molla un’altra gomitata allusiva. O arriva al dunque o faccio cambio di posto con qualcuno.
Dice che Anna e Francesca parlano di noi, e che la mia frequentatrice non è altrettanto soddisfatta, mi definisce evasivo. Gli domando spiegazioni, e Beonio scrolla le spalle.

“Non lo so, si lamenta, dice che sei distante. Ma vi vedete?”
“Boh, sì.”
“Ma spesso?”
“Eh.”
“Ma..”, e giù gomitata.
“Ma sì, che ti devo dire?”
“E allora non lo so.”

Per lui una relazione è qualcosa di semplice, stai con una, le togli i vestiti, aspetti il momento di rifarlo facendo altre cose, punto. Quelle sensazioni indefinite che stanno sotto, l’incertezza, il vuoto che non riesci a riempire, lui non le conosce. Io sono fatto di quelle, se potessi eliminare la parte di me che genera questi dubbi probabilmente sparirei, non resterebbe più niente.

Ci sto bene con Anna, perlomeno meglio che con altre ragazze, ma erano anni che non frequentavo altre ragazze al di fuori di Drusilla, con la quale esiste un’amicizia consolidata e priva di malintesi, quindi che ne so davvero se ci sto bene? Questo è stare bene?
La prendo come si prende lo sciroppo per la tosse: anche se ha un buon sapore non è qualcosa che ti cacceresti in bocca se non ci fossi costretto. E a quanto pare lei se n’è resa conto.

“Mi piace, la trovo divertente. Sì, anche eccitante, tieni a posto quel gomito o te lo strappo e lo tiro nel parterre!”
“E allora cosa c’è che non va?”
“È che forse non è abbastanza.”
“Tu sei malato. E la mia ragazza mi rompe il cazzo per colpa tua. Quando ci vediamo mi chiede se ti ho parlato e non scopiamo più, perciò vedi di risolvere questa situazione, chiaro?”
“Non sono malato, sono confuso.”
“Sei un coglione immaturo. Ci uscirei io con lei, se a Francesca andasse di fare una cosa a tre.”
“Ti sei mai chiesto se esiste un mondo fuori dalla figa?”
“Eh?”
“E poi l’immaturo sono io”

Le mie parole sono coperte da un coro potente: la squadra è entrata in campo per il riscaldamento, e la curva si è messa subito al lavoro.

“..noi saremo sempre qua
con le spranghe a caricar
romperemo il culo
a tutti gli ultrà!”

Novemila persone gridano in una sola voce. Novemila persone tranne me. Io non voglio caricare nessuno, neanche ce l’ho una spranga.
Appena la canzone termina faccio le mie rimostranze.

“Scusate, ma se uno non volesse romperlo, il culo agli ultrà?”, grido.
“Vattene nei Distinti, coglione!”, replica una voce più in basso.
“Cazzo ci vieni a fare qua?”, sento alle mie spalle.
“A guardare la partita”, rispondo. “Non sapevo che fosse obbligatorio partecipare ai tafferugli.”

Uno dei capi della curva, appollaiato sulla ringhiera da cui smanaccia ai compagni, mi individua e si porta il megafono alla bocca:
“Oh! Sia chiaro! Se vieni in gradinata canti quando c’è da cantare e alzi le mani quando c’è da alzare le mani, sennò te ne vai! Qui il calcio lo prendiamo sul serio, non stiamo mica a fare tanti discorsi!”
Si accende un dibattito. Sento una voce femminile lamentarsi che lei è venuta a vedere la partita, e se l’obbligo di picchiare qualcuno vale anche per le donne. Il capo coro ci pensa un momento, poi annuncia al megafono che donne, anziani e bambini sotto i sedici anni sono esentati dai tafferugli.
Qualcuno chiede se non sarebbe più pratico spostare le categorie protette più indietro, e lasciare il parterre e i settori immediatamente adiacenti ai facinorosi. Anche per velocizzare le operazioni, si sa che in caso di scontri farsi trovare pronti è fondamentale, lo dice anche Lao Tze.
“È Sun Tzu, coglione!”, grida qualcuno.
“A chi coglione?”

Si comincia a stare stretti, c’è gente che spinge, cresce il volume delle proteste. Quelli sotto che non vogliono botte chiedono di fare cambio con quelli più in alto, i quali rifiutano di cedere la loro posizione vantaggiosa sostenendo che se volevi stare in alto arrivavi prima.
Una donna dice che lei vuole partecipare lo stesso ai tafferugli e chiede dove si deve mettere.
Il capo della Frangia Parrucchieri è in difficoltà, quelli della Brigata Fiorellini vogliono alzare le mani su qualcuno, e si mettono a menare i vicini per non perdere tempo.
Un gruppo di tifosi si intromette, sostenendo che le botte sono cominciate prima che si decidesse dove dovevano collocarsi, e se cominciamo così poi i cugini ci passano davanti in classifica. Qualcuno a quelle parole attacca a inveire contro la società, colpevole di non aver provveduto in tempo agli acquisti necessari a garantire il primato cittadino.
Quelli della Brigata Fiorellini sentono nominare la squadra rivale e non capiscono più niente, si tolgono la cinghia e ci vanno giù pesanti su quelli che stavano menando già da prima, i quali chiedono almeno una rotazione a quelli della gradinata superiore.
Il livello superiore stacca gli striscioni appesi alla ringhiera in segno di protesta, e li fa cadere addosso a quelli di sotto, che fino a quel momento assistevano basiti agli scontri nel parterre, ma adesso si offendono perché staccare gli striscioni è una mancanza di rispetto verso la squadra. Il capo della Frangia Parrucchieri glieli aizza contro e questi abbandonano il posto per correre al piano di sopra e punire i ribelli.
Vedendo dei posti liberi i non belligeranti del parterre corrono a rifugiarvisi, ma da sopra se ne accorgono e volano prima insulti, poi direttamente tifosi, chi cacciato giù in mancanza di altri oggetti, chi di propria iniziativa per tornare in fretta al proprio posto.
Quelli sotto vedono il lancio di tifosi su di loro come un attacco personale e s’incazzano, altri cercano di schivarli, ma allora sono i caduti che vedono il mancato soccorso come un attacco personale, e si incazzano pure loro.

Quando l’arbitro fischia l’inizio dell’incontro non si muove nessuno. Entrambe le squadre stanno ferme in mezzo al campo a osservare quella bolgia bicolore che si sta facendo a pezzi nel settore nord dello stadio. Novemila persone coinvolte in quella che verrà definita dai giornali “la rissa più grande del mondo”.
Novemila persone tranne Beonio e me, che appena abbiamo sentito puzza di legnate ci siamo sbrigati a uscire.

Il mio senso di colpa mi dice “lo vedi cosa succede quando ti metti con la persona sbagliata? La guerra civile! Lasciala! Lasciala!”
Beonio mi dice “Se non ti piace cosa ci stai insieme a fare? Lasciala e basta, tanto non durerà comunque ed eviti di prenderla in giro.”

Nel suo caso sospetto che sia intrigato dalla fantasia di un incontro a tre più di quanto voglia ammettere.

Nel frattempo l’oggetto dei miei crucci mi si concede su ogni suppellettile del suo appartamento per un intero fine settimana.
Francesca e Beonio sono in montagna, mi trasferisco da lei e su ogni dubbio butto chili di carne cruda. Non sarà onesto, ma sarei cretino a rinunciarvi. E poi Anna sembra del tutto a proprio agio, non mi mostra alcun segno di insoddisfazione.
Funziona, più o meno. Non sono proprio felice, ma non c’è niente ad alimentare la mia negatività, quando attivo l’interruttore della depressione si sente un clic e non succede altro.
Sono sicuro che se avessi le mani libere ricomincerei a darmele in faccia, sono solo troppo occupato per deprimermi.

Anna non sembra farci caso, si occupa di me con entusiasmo finché siamo nudi, poi diventa distante, mi tratta con noncuranza, come un passatempo ozioso. Mi scrive ogni giorno un paio di messaggi asettici per farmi sapere che c’è. Tranne le volte in cui dobbiamo organizzarci per uscire non c’è un gran dialogo. E quando siamo insieme è un po’ la stessa cosa, parliamo molto senza dirci granché, ognuno racconta la propria giornata, io la faccio ridere, lei no, poi mangiamo, comincia il film o ci togliamo i vestiti. È un rapporto basato perlopiù sulle comunicazioni di servizio.

Non mi lamento, è comodo. Mi permette di entrare un po’ alla volta in questa storia senza sentirmi obbligato, senza dover dimostrare.
Come se ci fosse bisogno di dimostrare qualcosa, poi.
Come se il successo di una relazione fosse determinato da esami periodici.
Come se le attenzioni, poi, significassero davvero che va tutto bene: ti chiamo tutti i giorni, ti tengo ore a guardarti negli occhi e cantare di quanto sono belli, ti faccio sentire desiderata, importante, sicura. Ma sono quarant’anni che non ho altra compagna che la mia mano destra, prima di trovare te passavo le giornate sui siti di incontri, dove mi conoscono tutti come Cucciolone 79, e nella cronologia del mio browser quelle sono le uniche voci che non farebbero vergognare mia madre.
Che valore assumono le mie attenzioni per te? Sono davvero innamorato o sto sfogando le frustrazioni accumulate in anni di solitudine? Se al posto tuo ci fosse un’altra, chiunque altra, mi comporterei diversamente?

Finora in Anna mi sembrava di aver trovato rispetto per i miei tempi e spazi, ma a quanto dice Beonio anche lei sta sopportando in silenzio una situazione che le pesa.

Il mio amico suggerisce di non affrontare l’argomento direttamente per non farla sentire sotto processo. Dice di mostrarle che tengo a lei senza dichiararlo, con gesti inequivocabili che la tranquillizzino.

“Ma più di così? Cosa devo fare, saltarle addosso per strada?”
“Dille che ti infastidiscono le attenzioni che le rivolgono gli altri uomini”
“Ma io che ne so se le rivolgono attenzioni!”
“Tutti gli uomini guardano le altre donne, soprattutto quelle belle”
“Non io.”
“Tu sei un caso particolare, non guardi neanche la tua. Lei non te lo dice, ma ci sarà qualcuno che le gira intorno. Fai il geloso.”
“Ma non sono geloso!”
“Fallo e basta, chi se ne frega se non lo sei. Se ti pianta e si mette col primo stronzo che le passa davanti sono sicuro che lo sei eccome.”
“Ma no, non credo.”
“A nessuno piace farsi sostituire, specie dal primo che passa. Dammi retta, è meglio se ogni tanto le tocchi il tempo. Tu magari non sai perché, ma lei sì.”

La sera, al telefono, metto in pratica i saggi consigli dell’esperto di coppia.
Le chiedo com’è andata al lavoro e cerco di scoprire se in quel posto c’è qualcuno di cui dovrei preoccuparmi, facendo larghi giri per non insospettirla.

“Bah, la solita roba”, mi risponde. “La mia collega stronza ha fatto la stronza e il capo mi è stato addosso perché siamo in ritardo con le consegne.”
“Eh che bastardo.”
“Ma no, bisogna capirlo, siamo a fine mese. Di solito è gentile, dai.”
“Ah sì? Gentile come?”
“Boh, gentile. Che ne so come? Gentile.”
“Gentile che ti invita a cena?”
“Non mi ha mai invitato a cena, perché me lo chiedi?”
“I capi a volte lo fanno, di provarci con le dipendenti carine.”
“Non lui. Ma anche se ci provasse non mi interesserebbe, ha sessantacinque anni.”
“E se fosse più giovane ti interesserebbe? Voglio dire, ci sono dei colleghi giovani da cui accetteresti un invito a cena?”

Anna resta un momento in silenzio, poi mi chiede “Dove stai cercando di arrivare?”

Bene, dì la tua battuta da geloso e togliti da questo spinaio.

“Da nessuna parte”, dico. “Sono solo un po’ seccato delle attenzioni che ti rivolgono gli altri uomini”

No, cazzo, non seccato! Preoccupato! Dovevo dire preoccupato!

“Seccato di cosa, scusa? Che ne sai se mi rivolgono delle attenzioni?”
“Sei una bella ragazza, ci sarà di sicuro qualcuno che ti rivolge delle attenzioni, dai.”
“E adesso questa gelosia immotivata da dove salta fuori?”
“Ma da nessuna parte, ho solo espresso un pensiero.. non volevo tirare fuori un dibattito.”
“Non credo di dovermi giustificare con te di qualcosa che neanche esiste, e che comunque se esistesse sarebbe comunque qualcosa che non ti riguarda.”
“Come sarebbe che non mi riguarda? Sei la mia ragazza.”
“Cos’è che sono?”
“Beh.. credevo.. insomma..”
“Ma cosa significa? Ho firmato senza saperlo un contratto di vendita? Hai bisogno di dare un nome a questa cosa? Vuoi appiccicarmi un’etichetta sulla fronte?”
“Anna, non c’è bisogno di fare questa scena..”
“No? Mi hai appena detto che sei geloso dei miei colleghi e adesso non c’è bisogno che ti dica cosa ne penso? Eh no caro, mi hai accusato, adesso devo difendermi.”
“Ma non ti ho affatto acc..”
“Io non sono la tua ragazza, qualunque cosa significhi per te. Stiamo insieme, ci vediamo, ma questo non mi rende una tua proprietà, è chiaro? Se sto con te, e solo con te, è perché decido io che meriti tutta la mia attenzione, non perché ti devo qualcosa. Io non ti devo proprio niente.”

Segue un lungo silenzio dove lei non ritiene necessario aggiungere altro, o forse aspetta che io replichi con delle scuse, ma non mi viene da dire niente, non ho neanche capito cos’è successo.
Provo a cambiare discorso, dico vabbè, e lei esplode.
Il tono diventa arrabbiato, mi accusa di essere indifferente, di essere ripiegato su me stesso, di non tenerci abbastanza, poi mi suggerisce di prendermi del tempo per capire cosa voglio e chiude la conversazione.

Beonio è proprio uno stronzo.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:
Ci sono due che parlano parlano e non succede mai niente.

“Eravamo appena sbucati sulla strada che costeggia il lato nord di Central Park, io cercavo sulla cartina una stazione della metro che ci riportasse verso casa, e ho commentato che quella parte della città si chiamava Uptown. Dopo cinque minuti ci siamo ritrovati tutti e due a canticchiare Uptown Girl e fare passetto e calcetto in mezzo al marciapiede. È stato spontaneo, ed è tutta lì la bellezza del ricordo. In quel momento eravamo una persona sola e tutto sarebbe stato perfetto.
Cerca di capire, non si tratta di conoscere le stesse canzoni, è parlare la stessa lingua, è riconoscersi come appartenenti al medesimo branco. È tutto lì. Può funzionare anche fra persone diverse, o finire a puttane due giorni dopo, ma se non sapete neanche giocare insieme, se vi accontentate del tempo condiviso davanti alla tele, o al ristorante, o a letto, vi state solo accompagnando in giro.”

“Come sei negativo, madonna!”

“Ma guarda che è così. Non state parlando, vi dite delle cose. C’è una differenza. Non costruite niente, e prima o poi vi crollerà tutto sulla testa.”

“Vabbè, dici così solo perché sei incazzato con me.”

“Non sono incazzato con te.”

“Sì che lo sei. Perché sono stata con Piergigi invece di venire a Roma con te.”

“Casomai perché me l’hai detto la sera prima, e non sono il tuo pupazzo. Ma va bene, i miei amici non mi hanno chiesto delle penali per avere annullato la tua prenotazione. A casa loro non usa, per fortuna. Com’è andata?”

“Ma te l’ho detto com’è andata”

“Intendo com’è successo che ti sei lasciata fregare di nuovo quando sapevi chi avevi davanti e avevi già preso la tua dose di calci in faccia. Cosa ti ha fatto pensare che stavolta sarebbe stato diverso?”

“Lo so da sola di essere una cretina, non c’è bisogno di infierire”

“Invece credo che ci sia bisogno eccome. Non ci credo a queste storie che si trascinano per mesi senza ragione.”

“Ma chi te l’ha detto che sono senza ragione? Due persone possono avercene mille ragioni, per stare insieme. Perché si piacciono, perché si fidano l’uno dell’altra, non basta?”

“Perché si accontentano.”

“Ma che ne sai?”

“Nel migliore dei casi ce n’è una che ci crede davvero e l’altra che approfitta di una situazione che sa benissimo non essere quella che desidera, ma se la tiene ben stretta perché poco e male è comunque meglio di niente. Finché non gli scoppia in mano, e allora te la trovi in casa a piangere e a chiederti perché non ha funzionato. E come faceva a funzionare? Lo sapevi benissimo e hai fatto finta di niente, eravate due estranei che vanno nella stessa direzione. Se ti siedi su un treno e guardi gli altri passeggeri la capisci la differenza fra quelli che condividono un’esperienza e quelli che stanno solo andando nello stesso posto. Il vostro problema è che non volete vedere. Dite che va tutto bene finché funziona, vi raccontate delle balle per non ammettere i problemi. Siete dei pavidi.”

“Ah ecco cos’è, ti ho disturbato coi miei problemi da ragazzina. Beh, scusa, credevo che fossimo amici, di solito fra amici ci si aiuta.”

“Ti sto aiutando. Hai cercato di far funzionare qualcosa che non poteva funzionare. Te l’avevo detto anche prima, non mi hai dato retta.”

“Spero di arrivare alla tua perfetta consapevolezza un giorno, così saprò tutto e non sbaglierò mai. Anzi, sai cosa? Spero di no, perché non voglio diventare una persona cattiva, arida e sola come te!”

Lascia la porta aperta quando esce, e neanche la sento sbattere il portone Scendo a chiuderlo prima che il gatto del vicino si butti in strada. Lo lascia girare libero per le scale, quel deficiente. Tutti i giorni tiro via matasse di pelo dallo zerbino.
Drusilla ha lasciato mezza birra sul tavolo. Una radler, quelle porcherie aromatizzate al limone. Quando viene a trovarmi ne porta qualcuna, poi non le beve e mi restano in eredità. Quella ragazza ha un sacco di pregi, ma non quello di saper scegliere gli alcolici.

La butto giù senza respirare, sa di detersivo per i piatti. Apro un’altra bottiglia delle mie. Sarà una lunga notte.

…….

Il messaggio di scuse di qualche ora prima non ha sortito alcuna risposta. Ho dormito poco e male, mi gira la testa e la bocca sa di caramelle al limone, quelle più economiche.
Avevo promesso a Beonio che sarei passato da lui, magari fare due passi mi farà sentire meno stronzo.

Per le scale incontro il gatto dei vicini. Non è lui che si è mangiato Chico Buarque, quello è morto, aveva trovato il portone aperto ed era uscito, finendo sotto una macchina. La mia. Anche il portone l’avevo lasciato aperto io. Verso questo gatto non provo alcun rancore, è simpatico. Gli gratto la testa, si struscia sulla gamba lasciandoci un tappeto di peli rossi. Lui non mi trova cattivo né arido.

Vado a trovare Beonio nel suo studio. È un ingegnere. Non so come mai ho solo amici ingegneri, forse sono una categoria affidabile. Puoi tenerli ore a raccontargli i tuoi problemi e non smettono mai di ascoltarti, tanto non hanno niente da dire. Sono persone noiose, perlopiù.
Beonio no, è divertente, soprattutto quando beve. A lui piace la figa, ne è soggiogato. È capace di scendere a qualunque bassezza, accettare compromessi morali che farebbero vergognare un eroinomane in crisi, se alla fine lo potrà buttare a qualcuna.
Non è neanche troppo esigente, gli piacciono tutte purché ancora in vita e dotate di tutti e quattro gli arti.

“Perché hai dei peli di gatto sulla gamba?”
“Mi sono preso un gatto”
“Tu? E che te ne fai?”
“Il ragù”

Mi ha chiesto di accompagnarlo a cena con la sua ultima conoscenza, una ragazza che ha conosciuto al supermercato. Lei per accettare l’invito gli ha imposto la presenza di un’amica, così adesso gli serve uno chaperon.

Non sono entusiasta di mettermi nello stomaco cose che potrebbero venire sparate fuori all’improvviso, cercherò di tenermi leggero e stare lontano dal vino.

“Dove andiamo a mangiare?”
“Dal messicano”
“Le fanno le insalate?”

Gallo Pinto – Cocina latina, dice l’insegna, abbellita da un galletto dipinto uguale sputato a quelli di Barcelos.

“Messicano o portoghese?”
“Messicano”

Sento puzza di fregatura. Beonio mi indica due ragazze vicino all’ingresso. Una è bionda, tre metri senza tacco, mascella vichinga e spalle da rugbista. L’altra è la sua borsetta, le arriva a malapena al ginocchio, scura di pelle, lunghi riccioli neri e viso tondo, incorniciato da un paio di occhiali dalla montatura pesante.

“Qual è la mia, il pioppo o il cespuglio di more?”
“La mia è Francesca, la bionda. L’altra dovrebbe essere Anna, la sua coinquilina. Non farmi fare figure!”

Francesca è di Padova, Anna di Lecce.

A Francesca piace correre la mattina prima di colazione, ad Anna la colazione al bar.
Francesca ama sperimentare in cucina e odia lavare i piatti. Anche Anna odia le pulizie, e anche gli esperimenti culinari della sua coinquilina.
A Francesca piacciono i gatti, viaggiare, ascoltare radio commerciali, la discoteca, il mare, la discoteca al mare, la palestra, i romanzi di Andrea De Carlo, quelli di Jane Austen, Frida Kahlo, Jack Savoretti, i film d’azione e quelli di supereroi, le commedie romantiche, la poesia nella vita.

Anna ama il blues, i fumetti, John Coltrane, le giornaliste incazzate, il Salento ma non d’estate, quando si riempie di punkabbestia, Douglas Adams, Cesare Pavese, i pittori boh gli impressionisti, dormire.

Di Beonio noi che lo conosciamo, i suoi amici, sappiamo che ama la figa, le commedie sboccate coi comici della televisione e le modelle in tanga, la pizza, il Movimento 5 Stelle, la birra rossa e il calcio. Tuttavia si dimostra un abile venditore di sé stesso, dichiarando di apprezzare l’onestà, l’amore e la semplicità nelle cose di tutti i giorni.
Sorrido, so che nel suo caso quest’ultima voce significa scorreggiare senza trattenersi, ma le ragazze sembrano colpite. Aggiunge di amare la buona cucina, le poesie di Apollinaire (EEH??), le lunghe passeggiate da solo, in mezzo alla natura.

L’immagine di Beonio all’alba in un bosco, a rompere il silenzio con lunghi bramiti del culo, mi perseguiterà per il resto della serata.

“Non lo conosco Apollinaire”, gli dice Francesca.

Sotto il ponte Mirabeau scorre la Senna
E i nostri amori
Me lo devo ricordare
La gioia veniva sempre dopo il dolore

Mi cade la faccia nel piatto per lo stupore.

“E tu ce l’hai un poeta preferito?”, mi chiede Francesca. È solo lei a portare avanti la conversazione, la sua amica sposta l’attenzione nel tragitto più breve da noi al piatto, dove si ferma a lungo a riflettere. Sembra persa in un suo dramma interiore, o forse si è resa conto di avere sbagliato a ordinare.

Io non ho voglia di rispondere a questionari sulla mia vita, ho voglia di margarita frozen, uscire ubriaco, chiamare Drusilla e scusarmi, dimenticare questa serata e queste due. Ho deciso che Francesca mi sta sul cazzo, è come una cantina illuminata con un faro da stadio, troppa energia sprecata in futilità. La sua amica non esiste, è depressa. Sono depresso anch’io, ma almeno sto chiuso in casa, non vado in giro a mettere in imbarazzo il prossimo.

Beonio risponde al posto mio:

“Ah ma lui le poesie le scrive! Ma non chiedetegli di recitarle, lo fa solo da ubriaco”
“Perché è lo stato in cui le scrivo”

“E che genere di poesie scrivi?”, chiede Anna, uscendo dallo stadio pupale.
“Di rabbia”, abbozzo.
“Politiche?”

Nero
Come il dolore che ostenti
L’orgoglio che ti inchioda
I capelli che ti nascondono
La coscienza sporca.

Nero
Come il futuro
Che vedi coi tuoi occhi neri
Che non cerchi di cambiare
Se non per renderlo più nero.

Di azzurro avevi il cielo
Ma si è depresso
Per il troppo frequentarti
È diventato nero.

“Più o meno”

Dopo il ristorante Beonio si offre di accompagnare a casa qualcuno, e Francesca accetta volentieri in maniera del tutto casuale. Nessuno l’aveva capito che sarebbe finita così, carrellata della telecamera sulle nostre facce sbigottite.
No, vabbè, seriamente, ma chi volete fregare? La parte fastidiosa è che così sono obbligato ad accompagnare a casa Anna, perdipiù a piedi, che la macchina se l’è portata a casa il mio amico.
In una scala di situazioni spiacevoli la colloco appena sotto la tua azienda che “La Sua figura per noi è molto importante e il Suo rendimento ineccepibile, per questo abbiamo pensato di ricollocarLa presso una nostra sede decentrata dove le Sue risorse e competenze sapranno donare nuova vitalità e generare profitto. Siamo certi che, come noi, vedrà in questa promozione una grande opportunità di crescita presso la nostra azienda, e ci auguriamo che possa trovare nel popolo siriano l’accoglienza e il calore che merita”.

Non è perché per tutta la cena è stato come avere vicino un portaombrelli, sono sicuro che a darle tempo risulterebbe simpatica, o perlomeno viva; non è neanche il suo aspetto, è molto carina sotto quella mascherona da studentessa sfigata delle medie. È che non ho voglia di conoscere un altro essere umano, attivare dei meccanismi di corteggiamento dimenticati in cima a qualche armadio chissà dove e che oramai neanche funzioneranno più. Io e la seduzione frequentiamo ambienti diversi, abbiamo sentito parlare l’uno dell’altra, ma non ci siamo mai incontrati. Se dovessi provarci con questa ragazza non saprei da dove cominciare. Eppure il motore si accende da solo, e mi accorgo di avere cambiato tono di voce, di guardarla in quel modo là.
Maledetto istinto, perché non possiamo essere puro intelletto? Hai fatto solo guai finora, lasciami in pace!

La accompagno fino a casa sua, per fortuna non è lontano. Ci domandiamo che fare se Beonio e Francesca fossero nell’appartamento, sarebbe imbarazzante trovarli nudi sul divano.

“È capitato?”

“Un paio di volte. È proprio davanti all’ingresso, non puoi evitarlo. Qualche volta la sento da fuori e non entro, ma se non fa troppo rumore..”

Restiamo un po’ appesi a vedere che succede, e non succede niente. Mi saluta, si trattiene un secondo appoggiata alla mia guancia, e in quell’attimo di esitazione passano tutti i messaggi necessari a farmi capire cosa sta per succedere.
Me ne vado, porto in tasca la promessa di qualcosa che non so se desiderare, e un bel po’ di confusione.

(va avanti ancora un po’)

Riassunto delle puntate precedenti:
Chico Buarque non è chi pensate voi, anche perché i canarini non hanno le dita per suonare la chitarra e il si bemolle gli viene malissimo; Drusilla non lo so, dipende molto da chi pensate.

Drusilla non la sentivo da un po’. Segno che stava bene. Di solito quando mi cerca è perché sta passando un periodo di crisi sentimentale, o ne è appena uscita e si annoia.
Per questo quando mi ha scritto “Ci vediamo domani sera?” non ho risposto va bene, ma “Non starci male, se la tirava e comunque cantava di merda”.

Poi la sua reazione è sempre di stupita negazione, come se fossi sceso da un albero appena ieri e non sapessi capire chi mi sta davanti. Mi infastidisce un po’ quando mi considerano un insensibile idiota. Cioè, idiota sì, ma vi leggo dentro abbastanza bene, sapete?
Nel suo caso dura poco, passa quasi subito a un’ammissione rassegnata e alla fine mi racconta tutto perché comunque aveva bisogno di buttarlo fuori, ‘sto rospone.
Si tratta di Piergigi il cantante maledetto, come non aveva capito proprio nessuno. È in tournèe, non si fa sentire, non risponde ai suoi messaggi, è uno stronzo egocentrico e bugiardo, ma meglio così.

Drusilla è molto intelligente, deve solo fare esperienza: nella vita abbiamo tutti un quantitativo di stronzi da affrontare prima di imparare a riconoscerli al volo ed evitarli. Non so bene a che età si raggiunga questa consapevolezza, ma ad un certo punto ti accorgi di non averne più intorno, e dato che sono considerati la specie più resistente dopo gli scarafaggi, significa che hai imparato a tenerli a distanza. Oppure che lo stronzo sei tu.
Non le dico che sarà un percorso lunghissimo e probabilmente non ci riuscirà mai e prenderà una facciata dopo l’altra e la sua vita sarà una merda, perché le voglio bene, e anche perché uno può sempre decidere che in fondo la felicità non è così importante come credeva, puoi ottenere lo stesso risultato con la ricchezza e le benzodiazepine.

Andiamo ai soliti giardini Dimarzo, assunti a nostro rifugio estivo nonostante la pochezza delle bevande. È la musica che li salva, di solito.
Stasera suona Dj A-Zo V-Rax, un ragazzetto sui venticinque con grosso naso e occhiali enormi, sepolto in una giaccavento diventata oggetto di alta moda dopo che per decenni mi sono sentito uno sfigato a indossarla mentre i miei amici affrontavano il temporale con giubbotti supertecnici.
Sebbene io non l’abbia mai sentito nominare e neanche mi senta troppo sicuro a pronunciarne il nome sembra conosciuto dal resto del pubblico: parecchi gli stanno intorno a guardarlo mentre armeggia sulla strumentazione, più trascinati dal personaggio che dai suoi dischi. Drusilla gli batte le mani da un po’ più lontano, appena oltre la schiera dei fedelissimi. Dalle casse viene fuori una melodia orecchiabile, coperta da un giro di bassi e batteria che renderebbero irriconoscibile anche fra martino campanaro.

“Raga! Dj A-Zo V-Rax pompa abbestia ai giardini Dimarzo!”

Il pubblico risponde ieeea.

“A-Zo V-Rax! La A è privativa perché io il fuoco di Sant’Antonio.. (pausa teatrale) ..ve lo faccio venire!”

Il pubblico ripete ieeea ancora più forte.

“Ragah!!”

Non ci credo che sto ascoltando questo demente.

Se Drusilla fosse la mia ragazza avrebbe senso, l’amore ti fa sopportare le serate più atroci. Io stesso una volta avevo accompagnato la mia compagna a vedere Viola Valentino ubriaca che cantava in playback fuori sincrono vecchi successi di Vasco Rossi a una festa gay. Mi si era starato il trashometro, ma l’avevo fatto volentieri, e poi conoscevo gente che si era sbuttanata anche peggio solo per un po’ di fonchia, in fin dei conti mi era andata ancora bene.

“Raga! Il presobenismo sarà la nuova religione! Fare solo quello che ci gusta! Basta menate, tutto si aggiusta! Sciallaaa!!”

E tutti in coro “Sciallaa!!”

Mette su un pezzo che dice dammela dammela dammela ammè me la devi dà ce la devo fa, e io che ho attraversato per intero gli anni ’80 una roba così becera non l’ho sentita mai neanche alla radio tamarra degli autoscontri.

Drusilla ne è conquistata come una ragazzina di fronte alla sua prima cotta adolescenziale per il cantante maled.. vabbè, ci siamo capiti.

“Dai, ha ragione! Siamo stati male anche troppo per degli stronzi! Adesso basta, quest’estate ci dedichiamo al presobenismo!”

Non riesco a trattenere un brivido. A parte che Chico Buarque non era affatto uno stronzo, se ti sei innamorata di un musicista di stocazzo sono problemi tuoi e basta, ma io ci sto bene nel mio stare male. È rassicurante, quando sei in quello stato devi solo preoccuparti di migliorare, il resto te lo puoi pure lasciare dietro. Per un pigro è un grosso vantaggio. Senza contare che quando stai morendo anche la morte è una notizia positiva, perché ti libera dai problemi.
È la classica situazione win-win.

“Dici così solo perché hai paura dell’ignoto. Buttati, vedrai che sarà divertente!”. Mi prende per un braccio e mi trascina a ballare sotto le casse.

Drusilla non ha mai mostrato interesse verso la danza, è la persona più statica che conosco dopo Stephen Hawkins. Non capisco cosa stia succedendo, ma sospetto il coinvolgimento di sostanze illegali.
L’effetto però è straordinario. La gonna larga le sventola come uno stendardo, la maglietta le scopre l’ombelico, distogliere lo sguardo dai suoi fianchi diventa difficile. Non mi ero mai reso conto della pienezza del suo seno. Drusilla ha smesso di essere una ragazzina parecchio tempo fa, e me ne sto accorgendo solo ora.

Ecco che fa un gran caldo ai giardini Dimarzo.
Dj A-Zo V-Rax si è perso in un trip anni 90 dove gli SNAP sono i protagonisti indiscussi. Meno male, se avesse lanciato Bryan Adams i miei ormoni non ce l’avrebbero fatta a portarmi fuori dalla zona limonella, sarei caduto sul campo come un eroe. Mi trascino al chiosco delle birre dove incontro il proprietario del locale, un tizio allampanato che ricorda la versione fricchettona di Pippo disegnata da Andrea Pazienza. Sta ballando soddisfatto, sposta a destra e a sinistra il baricentro, mentre il grosso culo rimane piantato al terreno. Sembra una pianta in vaso spinta dal vento, o un metronomo. È ipnotico, rimango a fissarlo scordandomi della sete, del caldo e del dj. Se adesso arriva uno e mi fa firmare delle cambiali ubbidisco senza fiatare, mi sento privo di volontà.

Invece arriva Drusilla e mi riporta alla coscienza col suo dito a punta. Mi chiede se mi diverto. Più che chiedermelo dichiara che no, sono inquietato, ci vuole una misura più drastica.

“Accompagnami a casa!”

La mascella mi cade così rumorosamente che si gira anche Pippo Fricchettone.

“No, intendo che la misura più drastica la tentiamo domani, adesso vado a dormire. Mi dai un passaggio, per favore? Ho la vespa dal meccanico.”

La serata anni 90 si rivela solo il primo passo di un lungo percorso edonistico applicato da Drusilla con un fervore quasi religioso. Ogni sera, di ritorno dal lavoro, trovo un suo messaggio in cui è illustrato il programma per il giorno successivo. Comprende visite guidate per la città alla scoperta di angoli dimenticati, proiezioni dell’ultimo capolavoro di un regista che neanche saprei pronunciare, teatro danza, poetry slam, jam session, altre robe con nomi difficili. Aspetto da un momento all’altro che compaia l’iridologia, e tremo all’idea di trasformarmi in un uomo dalla lunga barba bianca che indossa camicioni larghi e scrive oroscopi sorseggiando tisane al finocchio e verbena.
Rifiutare non è contemplato, Drusilla si offenderebbe e non la vedrei più per mesi, e in ogni modo l’alternativa sarebbe chiudermi di nuovo in casa a imbruttire solo.

Mi trascina per settimane in qualsiasi attività: il corso di portoghese organizzato da una nota marca di porto in tre lezioni super intensive in cui imparo solo a dire obrigado e distinguere un tawny da un ruby; la degustazione di sushi dove mi spiegano su quali piatti va aggiunta la salsa di soia e su quali prova a mettercela e sta mano poesse piuma ma poesse pure katana se semo capiti; la lettura delle poesie d’amore di Nazim Hikmet, segue un interessante dibattito con un politologo turco che ci spiega le ragioni dell’attuale burrasca che interessa il Paese, ma che però ce le spiega in turco e l’interprete non c’è perché ha avuto un improvviso mal di pancia, ma tanto il turco è simile all’italiano, di sicuro lo capite tutti. Non so gli altri, io sono fermo a obrigado.

Genova non è New York, prima o poi le mostre, i corsi e le poesie finiscono, i locali da aperitivi che ti fanno pagare un euro e cinquanta un piattino con due crackers sporchi di feta della lidl ti vengono a noia, le facce sono sempre le stesse e non hai più voglia di trovartele davanti. Per non parlare della birra schifosa propinata ai Dimarzo.
Insomma, viene il giorno in cui Drusilla ammette un po’ imbarazzata di non avere niente da proporti per il fine settimana. Come se prendersi due giorni di pausa annullasse tutti i progressi verso il nirvana presobenistico.

“Ti va di accompagnarmi a Roma? C’è una roba di street art che vorrei vedere.”

Che effetto buffo fanno i cellulari, mi è sembrato di sentire la mia voce che chiede a Drusilla di passare tre giorni con me a Roma!

“Che bello!”, risponde lei, il cui telefono deve avere lo stesso problema di distorsione sonora.

Mi ci vogliono dieci minuti per realizzare quanto sono cretino e sconsiderato e prendermi a schiaffi e chiedermi cosa mi sia girato di proporle una cosa simile e riprendermi a schiaffi perché tanto con me è inutile discutere.
E togliti quel sorriso deficiente dalla faccia, stupido!

(si ostina a continuare)

Riassunto della puntata precedente:
Per dimenticare un canarino vado in un posto che si chiama Palazzo Fava.
Giù in strada c’è Freud che mi suona con insistenza il campanello perché ha delle cose importanti da dirmi.

2.
Drusilla la rivedo una settimana più tardi. Sono ai Giardini Dimarzo col mio amico Beonio a bere pisciazza seduti dietro quell’uomo che grida gelati.
In effetti non lo so perché continuiamo a frequentare questo posto, la birra fa schifo e c’è pieno di ambulanti rumorosi.
Gli sto spiegando come il testo dell’omonima canzone di Battisti sia uno specchio dell’ontologia heideggeriana, in totale disaccordo, ad esempio, col superuomo di Nietsche, il quale verrà definitivamente estromesso dalla cultura musicale nel 1992, con l’avvento di Max Pezzali.

A Beonio questi discorsi non interessano. Lui vuole parlare di figa.
Mi indica tutte le ragazze carine che ci transitano davanti, di quelle brutte commenta “Eh però, due colpi..”

“Guarda quella con la maglietta a righe! Secondo te sta con quello lì che sembra un cattivo di Dragonball?”

È Drusilla, naturalmente. Il tizio che l’accompagna lo conosco di fama, canta in un gruppo di quelli coi testi complicati che non vogliono dire niente. Me ne ha parlato qualche volta, non sapevo che si frequentassero.
La birra che ho in mano fa schifo, abbandono il bicchiere e raggiungo la mia amica, subito tallonato da Beonio cui non sembra vero di poter avvicinare un esemplare privo di pisello.

“Ma tu solo magliette a righe quest’anno?”, le domando mentre mi impiglia alla barba un bacio leggero.
Mi presenta il cattivo di Dragonball, si chiama Piergigi e di persona sembra molto meno carismatico di quanto appare su youtube.

“Ciao, ho visto il video di Amore Lepidottero. Mi è piaciuta l’idea degli orsetti di peluche che invadono il pianeta, molto efficace.”

In realtà non me ne frega un cazzo, ma devo apparire gentile con gli amici di Drusilla, so che a lei fa piacere.

“È stata un’idea del regista. Noi volevamo mostrare gli occhi di un bambino che muore stritolato da un trattore guidato da centotrenta congolesi sotto il sole del Salento.”
“Eh, non credo che ve l’avrebbero passato su mtv”

Drusilla è parecchio su di giri, gli chiede se al concerto di stasera le dedicherà una canzone, lui dice Ogni Pesce Cerca Un Verme Dentro La Bottiglia, lei vorrebbe I Tuoi Capelli Distribuiscono Sigarette Automatiche, lui fa un sorriso pirata, lei si scioglie. Beonio ha capito che lì non ce n’è e dice che va a prendersi un’altra birra. Lo accompagno, troppi feromoni nell’aria mi fanno prudere il naso.

“Carina la tua amica. Perché non glielo butti?”
“Perché Clint Barton non glielo butta a Kate Bishop, tutto l’equilibrio della serie si basa su quello”
“Non ho capito”
“Non occorre che tu lo faccia”

Le bevande al bar dei giardini sono una peggio dell’altra, la birra è un’offesa al luppolo e i cocktails sono ghiaccioli privi di sapore. C’è gente che per riuscire a trangugiare qualcosa di decente è costretta a farsi servire l’amaro del carabiniere. Però la musica è ottima, tutte le sere suona qualche artista sconosciuto, ed è sempre qualcosa che ti cattura. Mentre aspettiamo che la ragazza al banco ci riempia il bicchiere di plastica con un’altra dose di urina osserviamo un trio parecchio gasato interpretare un vecchio successo di Zappa. Il chitarrista avrà sessant’anni, oppure trentacinque e una dipendenza pericolosa dagli stupefacenti, la maglietta sbiadita mostra ancora la scritta “Da vicino nessuno è normale”, che gli conferisce una certa rispettabilità fra noi amici di Basaglia. Gli altri due sono più canonici, uno mostra delle braccia toniche che gli invidio, oltre a una batteria che francamente non saprei dove mettere nella casa piccola in cui vivo, per cui mi limito ad ammirargli il fisico; l’altro è una ragazza bassa, capelli rossi e occhi azzurri, e suona la tromba, il sax, il clarinetto e il trombone slide. Ha l’aria di una che non si fa problemi a ottenere qualcosa, se lo vuole, e sembra di quelle che qualcosa lo vogliono sempre. Mi domando come si possa mantenere un equilibrio in gruppo con una bella donna inquieta, forse i due uomini sono una coppia, o lei è un androide. Forse sono io che mi faccio troppe domande inutili.

Ancora una volta è Drusilla che mi riporta alla realtà, entrando nel bar col suo amico e venendo diretta a ficcarmi le dita nelle costole.

“Mi hai lasciata sola!”
“Non mi sembrava che ti seccasse”

Se fossi un bravo attore le mie parole avrebbero sempre l’intonazione giusta, si farebbero capire sempre da tutti compresi quelli in ultima fila, e nessuno sgranerebbe occhi color laghetto estivo trovandole ostili. Sono gli allievi di poche speranze come me che devono giustificarsi di fronte al sopracciglio interrogativo delle ventisettenni perplesse, e fare free solo come Alain Robert sul Burj Khalifa, senza neanche i guantini appiccicosi del film.

“Secondo te la rossa sta con uno dei due?”, le chiedo per disinnescare l’imbarazzo.
“Perché dev’esserci sempre un’implicazione sentimentale? Non potrebbero essere semplicemente tre amici che amano suonare insieme?”
“Perché è più divertente”
“Mescolare il lavoro e il letto non è mai divertente”, commenta Cattivodidragonball, “E finisce sempre male.”

Drusilla gli si appende a un braccio: “Storie di vita vera! Racconta!”, ma Piergigi non vuole dire altro, gli è bastato dare un colpo di matita al tratteggio che vende di sé. Se si lasciasse avvicinare di più mostrerebbe le macchie di sugo sul colletto della camicia.
Decido in quel momento che mi sta sul cazzo, lui e tutti i personaggi bidimensionali dei cartoni animati come lui. E la birra dei Giardinidimarzo mi ha rotto i coglioni, contiene esterasi leucocitaria, che denota una possibile infezione batterica del barista, e io di prendermi i suoi malanni grazie ma mi bastano già i miei, che stasera mi pesano particolarmente, meglio se me ne vado a casa.

“Ma no, dove vai?”, dice Beonio.
“Ma no, dove vai?”, dice anche Drusilla.
“Mi piace Bologna mi piace la Spagna mi piace uno sguardo mi piace un abbaglio”, dice il poeta maledetto a una biondina, accendendo fastidi diffusi.

Vado a casa a piangere perché non c’è più Chico Buarque a proteggermi dagli stronzi che si prendono la scena e non rispettano il pubblico, né a capirmi quando ho una cosa che non riesco a far uscire se non dagli occhi e ormai ci sono più impagliatori di sedie ciabattini maniscalchi che lettori di occhi, né a regalarmi i suoi la sera in macchina quando nessuno parla per non disturbare il ticchettio della pioggia e perché non si parla mentre si legge.
Dove ritroverò quella sintonia? Di certo non qui, e allora cosa ci resto a fare.

(continua)

Drusilla ha ventisette anni e gli occhi colore del lago in cui mi tuffavo da bambino. Porta la maglietta a righe d’ordinanza Estate 2016, e la presunzione della sua giovane età la tiene in bilico sulla punta del naso, che mi agita davanti come un fioretto quando si volta a chiedermi “Ma li hai visti?”

Si riferisce alla coppia male assortita che, davanti ai nostri sguardi attoniti, si è esibita in un numero di solitudine acrobatica livello SuperPro.

“Quelli che si sono fatti la foto?”
“Sì! Hai visto che espressione schifata aveva lei quando si è messa in posa?”
“Le mancava la didascalia – Facciamo contento questo povero fesso – ”
“Ma è pazzesco! Come fanno a esistere coppie così? Ma meglio da soli, dai!”

La classica frase da Drusilla che sa sempre quello che vuole e non accetta compromessi. Vorrei possederla io la sua sicurezza, mi permetterebbe di mantenere la rotta e smettere di incagliarmi nelle secche in cui finisco con la regolarità di un temporale nel fine settimana.

Siamo a giugno, due anni che è morto il mio unico grande infinito amore, il mio canarino Chico Buarque, la sola creatura che abbia mai amato.
Non sono una preda facile per i sentimenti, quasi tutte le mie ex mi hanno lasciato dopo pochi mesi lamentandosi dei miei rari slanci affettivi. Sono uno che quando la ragazza gli dice seria al telefono “Sto mettendo in discussione il nostro rapporto” le risponde “Va bene, fammi sapere domani cos’hai deciso, buonanotte”.

Con Chico Buarque era stato diverso fin dall’inizio. Intanto non mi aveva chiesto nessuna attenzione particolare, giusto un po’ di becchime e dell’acqua fresca, e poi la riconoscenza con cui rispondeva alle mie premure! Ogni mattina si metteva a cantare, e la sua gioia mi contagiava, uscivo di casa dimentico di ogni problema e andavo a lavorare alla miniera di carbone col cuore leggero.

Fra noi era stato un avvicinamento graduale, nessuna pressione, solo il piacere di stare insieme giorno dopo giorno. Lentamente il nostro rapporto si era consolidato fino a diventare qualcosa di indistruttibile, cui non avrei più saputo rinunciare. Non l’avevo mai vissuta una storia così intensa. Per festeggiare il nostro primo anniversario eravamo andati alle Canarie a conoscere i suoi genitori. Non lo avevamo detto a nessuno, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggio da fidanzati, avevamo intenzione di sposarci. Magari non in Italia, dove i matrimoni fra uomini e canarini non sono ammessi.

Due mesi dopo era morto. Una rara malattia chiamata gatto dei vicini lo aveva stroncato all’improvviso.

È stato come se mi avessero sostituito il cuore con un sacchetto di ghiaia, ho rinunciato alla speranza. Tutto ciò che è arrivato dopo mi è scivolato addosso senza lasciare traccia.
Solo una volta ho provato una specie di emozione, ma non è durata molto: era una gracula religiosa, ci eravamo trovati molto bene all’inizio e sembrava che potesse funzionare, ma presto si era rivelata una gran scassacazzi. E poi parlava sempre a vanvera.

In questi due anni non ho fatto che passare dall’allegria a una depressione improvvisa, come un ballerino di tip tap in un campo minato. I miei amici hanno preso le distanze, le relazioni si sono diradate, anche quelle impostate sulla mercificazione sentimentale, tipo “tu mi caghi io ti trombo va bene così”. Sono diventato uno di quei matti con la felpa stropicciata che portano in giro il cane la mattina presto, quando non corrono il rischio di incontrare altri esseri umani con cui dover interagire.

Per convincermi a stirarmi la maglietta e affrontare questa trasferta bolognese c’è voluta la giovane scapestrata Drusilla. È lei che mi allontana le nuvole dalla testa, e quando il canto di un uccello lontano mi riporta alla mente pensieri cupi è rapida ad intercettarli e abbatterli con un dito nodoso sulle reni. Oppure mi viene vicino e mi spinge da dietro, mi colpisce con un giornale, mi abbranca per un braccio e mi trascina davanti alle scarpe più ridicole mai esposte in una vetrina.
È bello averla vicino, certe volte mi chiedo se non dovrei abbandonare questa mia ritrosia e darle un bel morso, per vedere che succede.
Poi mi ricordo di Chico Buarque e che il mondo fa schifo e dobbiamo tutti morire soli, compresa Drusilla, e vado ad addentare un panino al prosciutto.

A Palazzo Fava è allestita la mostra di Edward Hopper, forse l’unico luogo in cui essere tristi rappresenta un beneficio, invece che un handicap.

Perché il pittore di Nyack è un artista malinconico, apre finestre sulla solitudine che hai dentro e la costringe ad affacciarsi. Il modo migliore per apprezzare le sue opere è di avere l’anima dissodata di fresco. È come annusare certi fiori prima di assaggiare un vino di qualità.
È così. Mi aggiro per le sale lasciandomi travolgere dalla desolazione dei suoi paesaggi e delle persone che li abitano.
Quando mi trovo di fronte a Soir Bleu mi tremano le gambe. La faccia del clown, il contrasto col suo abito e ciò che rappresenta. La donna in piedi è una prostituta, un corpo in vendita, eppure è altera e distante come un pianeta inaccessibile.

“Questo si intitola Carnevale Sull’Enterprise. Il capitano Picard, al centro del  quadro, si è vestito da clown convinto di vincere il premio per la maschera migliore, ma verrà battuto dall’androide Data, che truccato da donna risulta davvero irriconoscibile”.
“Scema, non ti ci porto più alle mostre! Che figure mi fai fare?”
“Usciamo? Qui vicino c’è una mostra fotografica su Jeff Buckley con cui puoi torturarti ancora un po’”
“Ma tu come fai ad essere sempre così imperturbabile? Non c’è niente che ti pesa addosso, un ricordo, una speranza? Io sono eccessivo nel mio malessere, certo, ma tu così impermeabile alle emozioni sei sicura di essere normale?”
“Chi ti dice che sia imperturbabile? Magari non mi va di mostrarlo come fai tu”
“Cosa ti ha lasciato questa mostra?”
“Ansia. La stessa che mi mettono i racconti di Carver. Credo che il mondo che descrivono sia lo stesso, uno racconta cosa succede nelle case dipinte dall’altro. L’anziano seduto al sole, con la moglie che gli grida dalla finestra, quando si alzerà saprai che sta per succedere qualcosa di brutto. La donna in piedi sulla porta ha visto qualcosa che non vuoi sentirti raccontare. La vita che trapela dall’opera di Carver è difficile, di quella che ti ci vuole una bottiglia vicino per reggerla, ma Hopper va oltre, dove la bottiglia non basta più. Uno è dolore, l’altro rassegnazione. E a me la rassegnazione mette ansia più del pericolo.”

Guarda qua. Neanche trent’anni di roba. Una che non ha mai conosciuto la Cortina di Ferro, il Patto di Varsavia, Berlino Est. Una che girava in pannolone mentre i Nirvana scardinavano la musica e il gusto per le camicie.
Una fottuta hipster.
E mi lascia muto, inadeguato e ammirato.

Io a 27 anni stavo a Londra, dormivo per terra e spendevo tutto lo stipendio da Reckless Records. A 27 anni scoprivo Jimi Hendrix, manco sapevo chi erano Hopper e Carver. Ed è questo che separa inesorabilmente il mio mondo dal suo e ci porta ad imboccare strade che finiranno per allontanarci sempre di più, fino a perderci di vista. Perché un giorno lei sarà un avvocato inserito nel sistema e leggerà Marcuse per credersi anticonformista, sposerà un ricco ingegnere appassionato di mobili antichi e farà la borghese radical chic, mentre io sarò fuori da casa sua a fregarle le gomme della mercedes, che rivenderò per una dose della mia ultima scoperta, l’eroina.

(continua)