Riassunto della puntata precedente:
Per dimenticare un canarino vado in un posto che si chiama Palazzo Fava.
Giù in strada c’è Freud che mi suona con insistenza il campanello perché ha delle cose importanti da dirmi.

2.
Drusilla la rivedo una settimana più tardi. Sono ai Giardini Dimarzo col mio amico Beonio a bere pisciazza seduti dietro quell’uomo che grida gelati.
In effetti non lo so perché continuiamo a frequentare questo posto, la birra fa schifo e c’è pieno di ambulanti rumorosi.
Gli sto spiegando come il testo dell’omonima canzone di Battisti sia uno specchio dell’ontologia heideggeriana, in totale disaccordo, ad esempio, col superuomo di Nietsche, il quale verrà definitivamente estromesso dalla cultura musicale nel 1992, con l’avvento di Max Pezzali.

A Beonio questi discorsi non interessano. Lui vuole parlare di figa.
Mi indica tutte le ragazze carine che ci transitano davanti, di quelle brutte commenta “Eh però, due colpi..”

“Guarda quella con la maglietta a righe! Secondo te sta con quello lì che sembra un cattivo di Dragonball?”

È Drusilla, naturalmente. Il tizio che l’accompagna lo conosco di fama, canta in un gruppo di quelli coi testi complicati che non vogliono dire niente. Me ne ha parlato qualche volta, non sapevo che si frequentassero.
La birra che ho in mano fa schifo, abbandono il bicchiere e raggiungo la mia amica, subito tallonato da Beonio cui non sembra vero di poter avvicinare un esemplare privo di pisello.

“Ma tu solo magliette a righe quest’anno?”, le domando mentre mi impiglia alla barba un bacio leggero.
Mi presenta il cattivo di Dragonball, si chiama Piergigi e di persona sembra molto meno carismatico di quanto appare su youtube.

“Ciao, ho visto il video di Amore Lepidottero. Mi è piaciuta l’idea degli orsetti di peluche che invadono il pianeta, molto efficace.”

In realtà non me ne frega un cazzo, ma devo apparire gentile con gli amici di Drusilla, so che a lei fa piacere.

“È stata un’idea del regista. Noi volevamo mostrare gli occhi di un bambino che muore stritolato da un trattore guidato da centotrenta congolesi sotto il sole del Salento.”
“Eh, non credo che ve l’avrebbero passato su mtv”

Drusilla è parecchio su di giri, gli chiede se al concerto di stasera le dedicherà una canzone, lui dice Ogni Pesce Cerca Un Verme Dentro La Bottiglia, lei vorrebbe I Tuoi Capelli Distribuiscono Sigarette Automatiche, lui fa un sorriso pirata, lei si scioglie. Beonio ha capito che lì non ce n’è e dice che va a prendersi un’altra birra. Lo accompagno, troppi feromoni nell’aria mi fanno prudere il naso.

“Carina la tua amica. Perché non glielo butti?”
“Perché Clint Barton non glielo butta a Kate Bishop, tutto l’equilibrio della serie si basa su quello”
“Non ho capito”
“Non occorre che tu lo faccia”

Le bevande al bar dei giardini sono una peggio dell’altra, la birra è un’offesa al luppolo e i cocktails sono ghiaccioli privi di sapore. C’è gente che per riuscire a trangugiare qualcosa di decente è costretta a farsi servire l’amaro del carabiniere. Però la musica è ottima, tutte le sere suona qualche artista sconosciuto, ed è sempre qualcosa che ti cattura. Mentre aspettiamo che la ragazza al banco ci riempia il bicchiere di plastica con un’altra dose di urina osserviamo un trio parecchio gasato interpretare un vecchio successo di Zappa. Il chitarrista avrà sessant’anni, oppure trentacinque e una dipendenza pericolosa dagli stupefacenti, la maglietta sbiadita mostra ancora la scritta “Da vicino nessuno è normale”, che gli conferisce una certa rispettabilità fra noi amici di Basaglia. Gli altri due sono più canonici, uno mostra delle braccia toniche che gli invidio, oltre a una batteria che francamente non saprei dove mettere nella casa piccola in cui vivo, per cui mi limito ad ammirargli il fisico; l’altro è una ragazza bassa, capelli rossi e occhi azzurri, e suona la tromba, il sax, il clarinetto e il trombone slide. Ha l’aria di una che non si fa problemi a ottenere qualcosa, se lo vuole, e sembra di quelle che qualcosa lo vogliono sempre. Mi domando come si possa mantenere un equilibrio in gruppo con una bella donna inquieta, forse i due uomini sono una coppia, o lei è un androide. Forse sono io che mi faccio troppe domande inutili.

Ancora una volta è Drusilla che mi riporta alla realtà, entrando nel bar col suo amico e venendo diretta a ficcarmi le dita nelle costole.

“Mi hai lasciata sola!”
“Non mi sembrava che ti seccasse”

Se fossi un bravo attore le mie parole avrebbero sempre l’intonazione giusta, si farebbero capire sempre da tutti compresi quelli in ultima fila, e nessuno sgranerebbe occhi color laghetto estivo trovandole ostili. Sono gli allievi di poche speranze come me che devono giustificarsi di fronte al sopracciglio interrogativo delle ventisettenni perplesse, e fare free solo come Alain Robert sul Burj Khalifa, senza neanche i guantini appiccicosi del film.

“Secondo te la rossa sta con uno dei due?”, le chiedo per disinnescare l’imbarazzo.
“Perché dev’esserci sempre un’implicazione sentimentale? Non potrebbero essere semplicemente tre amici che amano suonare insieme?”
“Perché è più divertente”
“Mescolare il lavoro e il letto non è mai divertente”, commenta Cattivodidragonball, “E finisce sempre male.”

Drusilla gli si appende a un braccio: “Storie di vita vera! Racconta!”, ma Piergigi non vuole dire altro, gli è bastato dare un colpo di matita al tratteggio che vende di sé. Se si lasciasse avvicinare di più mostrerebbe le macchie di sugo sul colletto della camicia.
Decido in quel momento che mi sta sul cazzo, lui e tutti i personaggi bidimensionali dei cartoni animati come lui. E la birra dei Giardinidimarzo mi ha rotto i coglioni, contiene esterasi leucocitaria, che denota una possibile infezione batterica del barista, e io di prendermi i suoi malanni grazie ma mi bastano già i miei, che stasera mi pesano particolarmente, meglio se me ne vado a casa.

“Ma no, dove vai?”, dice Beonio.
“Ma no, dove vai?”, dice anche Drusilla.
“Mi piace Bologna mi piace la Spagna mi piace uno sguardo mi piace un abbaglio”, dice il poeta maledetto a una biondina, accendendo fastidi diffusi.

Vado a casa a piangere perché non c’è più Chico Buarque a proteggermi dagli stronzi che si prendono la scena e non rispettano il pubblico, né a capirmi quando ho una cosa che non riesco a far uscire se non dagli occhi e ormai ci sono più impagliatori di sedie ciabattini maniscalchi che lettori di occhi, né a regalarmi i suoi la sera in macchina quando nessuno parla per non disturbare il ticchettio della pioggia e perché non si parla mentre si legge.
Dove ritroverò quella sintonia? Di certo non qui, e allora cosa ci resto a fare.

(continua)

Drusilla ha ventisette anni e gli occhi colore del lago in cui mi tuffavo da bambino. Porta la maglietta a righe d’ordinanza Estate 2016, e la presunzione della sua giovane età la tiene in bilico sulla punta del naso, che mi agita davanti come un fioretto quando si volta a chiedermi “Ma li hai visti?”

Si riferisce alla coppia male assortita che, davanti ai nostri sguardi attoniti, si è esibita in un numero di solitudine acrobatica livello SuperPro.

“Quelli che si sono fatti la foto?”
“Sì! Hai visto che espressione schifata aveva lei quando si è messa in posa?”
“Le mancava la didascalia – Facciamo contento questo povero fesso – ”
“Ma è pazzesco! Come fanno a esistere coppie così? Ma meglio da soli, dai!”

La classica frase da Drusilla che sa sempre quello che vuole e non accetta compromessi. Vorrei possederla io la sua sicurezza, mi permetterebbe di mantenere la rotta e smettere di incagliarmi nelle secche in cui finisco con la regolarità di un temporale nel fine settimana.

Siamo a giugno, due anni che è morto il mio unico grande infinito amore, il mio canarino Chico Buarque, la sola creatura che abbia mai amato.
Non sono una preda facile per i sentimenti, quasi tutte le mie ex mi hanno lasciato dopo pochi mesi lamentandosi dei miei rari slanci affettivi. Sono uno che quando la ragazza gli dice seria al telefono “Sto mettendo in discussione il nostro rapporto” le risponde “Va bene, fammi sapere domani cos’hai deciso, buonanotte”.

Con Chico Buarque era stato diverso fin dall’inizio. Intanto non mi aveva chiesto nessuna attenzione particolare, giusto un po’ di becchime e dell’acqua fresca, e poi la riconoscenza con cui rispondeva alle mie premure! Ogni mattina si metteva a cantare, e la sua gioia mi contagiava, uscivo di casa dimentico di ogni problema e andavo a lavorare alla miniera di carbone col cuore leggero.

Fra noi era stato un avvicinamento graduale, nessuna pressione, solo il piacere di stare insieme giorno dopo giorno. Lentamente il nostro rapporto si era consolidato fino a diventare qualcosa di indistruttibile, cui non avrei più saputo rinunciare. Non l’avevo mai vissuta una storia così intensa. Per festeggiare il nostro primo anniversario eravamo andati alle Canarie a conoscere i suoi genitori. Non lo avevamo detto a nessuno, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggio da fidanzati, avevamo intenzione di sposarci. Magari non in Italia, dove i matrimoni fra uomini e canarini non sono ammessi.

Due mesi dopo era morto. Una rara malattia chiamata gatto dei vicini lo aveva stroncato all’improvviso.

È stato come se mi avessero sostituito il cuore con un sacchetto di ghiaia, ho rinunciato alla speranza. Tutto ciò che è arrivato dopo mi è scivolato addosso senza lasciare traccia.
Solo una volta ho provato una specie di emozione, ma non è durata molto: era una gracula religiosa, ci eravamo trovati molto bene all’inizio e sembrava che potesse funzionare, ma presto si era rivelata una gran scassacazzi. E poi parlava sempre a vanvera.

In questi due anni non ho fatto che passare dall’allegria a una depressione improvvisa, come un ballerino di tip tap in un campo minato. I miei amici hanno preso le distanze, le relazioni si sono diradate, anche quelle impostate sulla mercificazione sentimentale, tipo “tu mi caghi io ti trombo va bene così”. Sono diventato uno di quei matti con la felpa stropicciata che portano in giro il cane la mattina presto, quando non corrono il rischio di incontrare altri esseri umani con cui dover interagire.

Per convincermi a stirarmi la maglietta e affrontare questa trasferta bolognese c’è voluta la giovane scapestrata Drusilla. È lei che mi allontana le nuvole dalla testa, e quando il canto di un uccello lontano mi riporta alla mente pensieri cupi è rapida ad intercettarli e abbatterli con un dito nodoso sulle reni. Oppure mi viene vicino e mi spinge da dietro, mi colpisce con un giornale, mi abbranca per un braccio e mi trascina davanti alle scarpe più ridicole mai esposte in una vetrina.
È bello averla vicino, certe volte mi chiedo se non dovrei abbandonare questa mia ritrosia e darle un bel morso, per vedere che succede.
Poi mi ricordo di Chico Buarque e che il mondo fa schifo e dobbiamo tutti morire soli, compresa Drusilla, e vado ad addentare un panino al prosciutto.

A Palazzo Fava è allestita la mostra di Edward Hopper, forse l’unico luogo in cui essere tristi rappresenta un beneficio, invece che un handicap.

Perché il pittore di Nyack è un artista malinconico, apre finestre sulla solitudine che hai dentro e la costringe ad affacciarsi. Il modo migliore per apprezzare le sue opere è di avere l’anima dissodata di fresco. È come annusare certi fiori prima di assaggiare un vino di qualità.
È così. Mi aggiro per le sale lasciandomi travolgere dalla desolazione dei suoi paesaggi e delle persone che li abitano.
Quando mi trovo di fronte a Soir Bleu mi tremano le gambe. La faccia del clown, il contrasto col suo abito e ciò che rappresenta. La donna in piedi è una prostituta, un corpo in vendita, eppure è altera e distante come un pianeta inaccessibile.

“Questo si intitola Carnevale Sull’Enterprise. Il capitano Picard, al centro del  quadro, si è vestito da clown convinto di vincere il premio per la maschera migliore, ma verrà battuto dall’androide Data, che truccato da donna risulta davvero irriconoscibile”.
“Scema, non ti ci porto più alle mostre! Che figure mi fai fare?”
“Usciamo? Qui vicino c’è una mostra fotografica su Jeff Buckley con cui puoi torturarti ancora un po’”
“Ma tu come fai ad essere sempre così imperturbabile? Non c’è niente che ti pesa addosso, un ricordo, una speranza? Io sono eccessivo nel mio malessere, certo, ma tu così impermeabile alle emozioni sei sicura di essere normale?”
“Chi ti dice che sia imperturbabile? Magari non mi va di mostrarlo come fai tu”
“Cosa ti ha lasciato questa mostra?”
“Ansia. La stessa che mi mettono i racconti di Carver. Credo che il mondo che descrivono sia lo stesso, uno racconta cosa succede nelle case dipinte dall’altro. L’anziano seduto al sole, con la moglie che gli grida dalla finestra, quando si alzerà saprai che sta per succedere qualcosa di brutto. La donna in piedi sulla porta ha visto qualcosa che non vuoi sentirti raccontare. La vita che trapela dall’opera di Carver è difficile, di quella che ti ci vuole una bottiglia vicino per reggerla, ma Hopper va oltre, dove la bottiglia non basta più. Uno è dolore, l’altro rassegnazione. E a me la rassegnazione mette ansia più del pericolo.”

Guarda qua. Neanche trent’anni di roba. Una che non ha mai conosciuto la Cortina di Ferro, il Patto di Varsavia, Berlino Est. Una che girava in pannolone mentre i Nirvana scardinavano la musica e il gusto per le camicie.
Una fottuta hipster.
E mi lascia muto, inadeguato e ammirato.

Io a 27 anni stavo a Londra, dormivo per terra e spendevo tutto lo stipendio da Reckless Records. A 27 anni scoprivo Jimi Hendrix, manco sapevo chi erano Hopper e Carver. Ed è questo che separa inesorabilmente il mio mondo dal suo e ci porta ad imboccare strade che finiranno per allontanarci sempre di più, fino a perderci di vista. Perché un giorno lei sarà un avvocato inserito nel sistema e leggerà Marcuse per credersi anticonformista, sposerà un ricco ingegnere appassionato di mobili antichi e farà la borghese radical chic, mentre io sarò fuori da casa sua a fregarle le gomme della mercedes, che rivenderò per una dose della mia ultima scoperta, l’eroina.

(continua)

Non so come facevano i nostri genitori a superare queste crisi ai loro tempi, quando non disponevano della tecnologia odierna. Come la pipetta di ventolin per un asmatico io non esco mai di casa senza il mio blister di ansie tascabili, la mia pastiglia di veleno per le emergenze. Mi sono infilato in un vicolo e, al riparo da occhi indiscreti, ho preso il cellulare e mi sono fatto una pera di facebook. Ognuno ha i suoi metodi preferiti, c’è chi prima scalda il cucchiaino con qualche commento salace e chi si infila diretto nel calderone dell’odio politico. Io cercavo dolore, è quella la mia droga. Più efficace, pulita e nobile dell’odio. Quello casomai viene dopo, per rifare la punta al paletto che mi pianto nel cuore.
Ho aperto la bacheca e li ho letti tutti, i vostri messaggi. Quelli dove siete in vacanza e non vorreste tornare più. Quelli dove scrivete RIP per commentare la morte di un personaggio famoso. Quelli dove avete ragione voi, che sono la maggior parte, avete sempre ragione voi su qualunque cosa, la ragazzina violentata e il cane abbandonato e la dieta salutista e i migranti e il referendum.
Avete. Sempre. Ragione. E questa cosa mi fa sentire solo, perché io ragione non ce l’ho mai, neanche quando vi vengo davanti e urlo, quando vi pugnalo al buio, quando vi ignoro, dentro di me lo so che sto sbagliando, e vorrei sedermi e chiedere scusa per tutte le volte che non sono stato all’altezza delle vostre aspettative, ma ho un orgoglio così duro e radicato che non lo sposto più, e l’unica cosa che posso fare è fingere. E intanto dentro si spande un’altra mano di catrame sul giardino dei miei buoni sentimenti.

Sono uscito dal vicolo che tremavo, ma mi sentivo meglio, più stabile. Sarei riuscito a tornare a casa.
Una signora con un cagnolino al guinzaglio mi ha chiesto se avevo bisogno d’aiuto, dovevo avere un aspetto orrendo. L’ho guardata, avrà avuto cinquant’anni, bionda, elegante. All’altra estremità del nastro colorato una specie di topo dal muso piatto mi fissava coi suoi occhi a palla.
In un’altra occasione avrei provato un sentimento di amore sincero per quella donna, ma ero in pieno rush vittimista, li volevo solo tutti morti. Ho dato una pedata al cane e me ne sono andato via, lasciando la donna a strillare “Gaetano! Gaetano!”. Dopo un momento è arrivato uno spilungone, evidentemente Gaetano, che mi ha inseguito e mi ha preso per un braccio.

“Perché hai picchiato Gaetano?”
“Eh non ho capito un cazzo”, ho risposto, divincolandomi e riprendendo a camminare.
“Sei un uomo di merda!”, ha insistito quello che a quanto pare non era Gaetano.

Ho sentito un istinto fortissimo a dipingermi un teschio sulla maglietta, imbracciare un Zastava M70 e dispensare giustizia dal marcato accento balcanico.
In tasca avevo solo le chiavi di casa, le ho strette nel pugno e ho colpito il tizio al volto, con tutta la forza di cui ero capace. Mi sono fatto malissimo. Lui no, non ha battuto ciglio e mi ha preso a scappellotti fino a farsi venire il fiatone. Non era molto in forma, sennò stavamo lì ancora adesso.

Mi sono riavviato verso casa con uno zigomo gonfio, la camicia stropicciata, gli occhiali storti. Dentro stavo messo peggio, che non lo sapevo come stavo dentro. Avevo voglia di piangere, ma mi sentivo stranamente reattivo, come se le botte fossero state quello che segretamente anelavo di ricevere da tempo. Una punizione per le mie brutture, una ragione per il mio perenne senso di colpa, mi sentivo come se avessi trovato finalmente il mio posto nel mondo. Ce ne volevano di più.

Ho chiamato un numero a caso della rubrica e ho insultato la persona che stava di là, così, gratis. Poi l’ho fatto col numero successivo e con quello dopo ancora. A quelli che non rispondevano spedivo un messaggio vocale su whatsapp in cui offendevo i loro genitori. Era pazzesco come mi facesse sentire libero! Fra una telefonata e l’altra mostravo il medio agli automobilisti, ma non si è fermato nessuno e finalmente ho raggiunto il portone di casa, miracolosamente vivo.

Ho scoperto di non avere più le chiavi: me le aveva strappate di mano il padrone di Gaetano e le aveva tirate oltre un muro, ma al momento ero troppo indaffarato a guardare l’altra sua mano che mi si schiantava in faccia. Dopo la colluttazione mi ero dimenticato di andarle a riprendere. Avrei dovuto farlo adesso.
Il mio corpo mi diceva di no, tutta l’adrenalina era stata riassorbita, lasciandomi esausto, e così le sostanze di cui andavo ghiotto. Mi sentivo svuotato e privo di scopi. La vita mi faceva di nuovo schifo. Di colpo l’eventualità di prendere altre botte mi faceva stare male, chissà perché.
E se fossi tornato indietro avrei rischiato di incontrare alcune delle persone cui avevo fatto gestacci, c’era la possibilità di rendere lo schifo attuale il gradino più alto di un disfacimento pericoloso.

Non riuscivo a trovare un equilibrio, mi sentivo sballottato su questo tagadà emotivo senza maniglie né orario di chiusura. Avevo paura che sarebbe durato per sempre, con me al centro a cercare di tenermi in equilibrio e a sbattere continuamente contro le persone che mi stavano intorno, fino alla totale distruzione. Era inevitabile che sarei morto, prima o poi, ma avevo sempre nutrito la speranza di arrivarci vivo.

È stato allora che ho deciso di uccidermi.

Perché se il destino di chiunque è morire bisogna cercare di rendere l’attesa un percorso piacevole, sfruttare quel poco che si ha nella maniera migliore, allontanare i guai, tenersi vicine le cose belle quando le si incontra, imparare e crescere e affastellare ricordi come fotografie su una parete, una addosso all’altra, una migliore dell’altra, tanto da spendere il proprio ozio a non saper decidere quale riguardare prima.
Ma se ogni passo verso l’inevitabile traguardo è in sottrazione, se quando guardi la tua parete la trovi spoglia e ogni foto che riprendi in mano, per ingiallita che sia, è migliore di quello che le sta di fronte, se la cosa più bella che hai è un letto dove spegnere la luce e il dolore ogni sera un po’ prima, se non trovi niente, non vedi niente, non senti di avere niente per cui andare avanti, allora non è più vita, è stare in coda ad aspettare il tuo turno per restituire questa roba che ti hanno prestato, e che non sei mai stato capace di far funzionare.
E allora meglio prima che poi. Meglio subito.

In casa avevo coltelli in quantità, prese elettriche, finestre abbastanza alte, corde.. Ero sicuro che il materiale non mi sarebbe mancato..
Ma come è meglio uccidersi? Perché questa cosa va pianificata, non è un gesto che si può improvvisare. Se poi non funziona rischi di ritrovarti disabile, in una condizione peggiore di quella di prima, e senza alcuna possibilità di porvi rimedio. Allora sì che diventa davvero aspettare di andarsene.
No, dovevo farlo per bene.
Il dolore non mi spaventava, ma avevo capito che mi faceva sentire meglio, e non c’è come sentirsi meglio appena prima di ammazzarsi per vanificare il gesto. Avrei dovuto trovare un modo indolore di togliermi di mezzo.
I sonniferi mi sembravano una soluzione perfetta: te ne cali trenta quaranta pastiglie, ti viene sonno, non ti svegli più. Pulita, sicura, senza sangue che fa brutto da trovare e se uno volesse riciclare il mobilio avrebbe dei problemi.
In casa non avevo sonniferi, come ho detto le mie droghe sono tutte endogene, e nessuna farmacia me le avrebbe vendute senza la ricetta. Avrei dovuto consultare un medico.

Fu così che mi decisi a farmi seguire da uno psicanalista.

(continua)