Sandro non lo conosco, ma a guardarlo nella sua maglietta dei Sepultura non deve avere molti anni più di me. Chili invece si, tanti, che sotto la maglietta ha una panza che i Sepultura potrebbe benissimo esserseli mangiati.
Sta tenendo una lezione sui mostui sacui del uochenuoll, unico allievo un suo amico che ha avuto la sfiga di incontrarlo e soffre come una partoriente, e me, seduto sotto una palma ad aspettare una persona con cui finire questo bel sabato di sole, a cena, magari col mare davanti.
Sandro si mette ad elencare le date di nascita di tutte le uockstau più celebri, da Eddie Vedde a Kuut Cobain, mostrando con logica ferrea e spietata come i compleanni dimostrino più di quel che sembra, e tira fuori la storia del Club 27, aggiungendo per buon peso che dev’esseuci sicuamente una cospiuazione.
L’idea era di alzarmi e andarmene, che non mi va di fare incrociare melomani deprimenti e giovani sconosciute, ma decido di restare ad aspettare le scie chimiche, sono sicuro che arriveranno, quando si tira fuori la teoria del complotto sono sempre le prime insieme al signoraggio. E poi avrò un aneddoto ridicolo da raccontare alla mia ospite.

Lei si chiama Marta, l’ho incontrata un paio di settimane fa in libreria, mi sono detto che non posso essere sempre terrorizzato dalle donne, non c’è niente di male ad attaccare bottone per strada, e poi una libreria è un bel posto per conoscere una ragazza, così le sono andato incontro deciso e a un passo da lei mi sono voltato a prendere un libro che cercavo da anni e non vedevo l’ora di leggere ma guarda che fortuna, l’ho agguantato e mi sono fiondato alla cassa.

Solo fuori, davanti al ciaoamico che cerca di darti un cinque e venderti l’ultimo libro di suo cugino, mi sono preso a schiaffi in due direzioni, una per essermela conigliata con la ragazza, l’altra per aver buttato via dei soldi nella raccolta di barzellette di Totti, e quelli sono schiaffi fortissimi, che devo fare tanta penitenza, e se mi vede qualcuno altri schiaffi, per vendicare la dignità. Però non c’è nessuno, solo il ciaoamico che mi sta davanti con la mano aperta e non capisco se vuole ancora un cinque o cerca di mollarmi due pattoni anche lui, che ha bisogno di sfogarsi, tutto il giorno sul marciapiede a farsi ignorare da mezza Genova renderebbe violento anche Gandhi.

Gli metto in mano il libro di Totti e rientro, che chiedere il numero di telefono alla ragazza di prima è diventata la missione del giorno, solo che la ragazza di prima non è dove l’avevo lasciata. Provo a salire ai piani superiori, ma non la vedo. Supero i dvd, i fumetti, e un po’ mi piange il cuore, che trovarcela davanti l’avrei letto come un segno divino e l’avrei dichiarata la donna della mia vita e le avrei chiesto di darmi dei figli, non importa di chi.

Insomma, la ragazza che poi scoprirò essere Marta non c’è, né in veste di Marta né in quella di giovane carina coi riccioli neri e camicetta bianca e borsa di stoffa, come l’ho temporaneamente identificata.
Torno giù, mi è rimasto da visitare solo il reparto strumenti musicali e non ce la vedo a suonare la chitarra elettrica. Ho ancora un forte senso di colpa per aver fatto guadagnare qualche centesimo in diritti d’autore a Francesco Totti, e per mondarmi la coscienza vado a cercare un libro vero, possibilmente impegnativo, che mi permetta di fustigarmi ancora durante la sudata lettura.

Sono a picco su un tavolo, indeciso fra una biografia di Tamerlano e un giallo scandinavo, e il mio campo visivo è attraversato da una mano di donna che plana sulla distesa di libri davanti a me e si fa strada decisa verso il mio pisello, rintanato nei pantaloni, appoggiato placidamente su una pila di volumi di Stefano Benni. Sollevo un’espressione fra il violato e il lubrico, e mi trovo di fronte la ragazza di prima, chiaramente imbarazzata, che mi indica lo scrittore bolognese su cui ho fatto il nido.

Si scusa, mi scuso, le passo il libro. Seguono momenti di imbarazzo, che interrompo dicendole che è un libro bellissimo, perché Saltatempo lo è davvero, e mi risponde che ha letto una recensione del libro su un sito di recensioni di libri, e sono un po’ stupito di questo fatto, perché a Genova se parli con una ragazza in libreria questa di solito si limita al sorrisetto convenzionale e si trasferisce in Asia.
Questa non solo non va in Asia, ma mi indica il giallo scandinavo ignorando bellamente il condottiero mongolo e dice “Quello l’ho letto, non è male. Però preferisco Simenon.”
Mi sento autorizzato a offrirle il caffè, e ci spostiamo al bar del negozio dove si compiono le formalità di rito, presentazioni e scambi di contatti. E arriviamo a sabato, a Sandro e alla sua maglietta dei Sepultura.

Sta raccontando al suo amico che Jimi Henduix che non è mouto davveuo pe un’oveudose di tuanquillanti, c’è di mezzo la CIA, e sto per intervenire ricordandogli che Hendrix è morto a Londra, di fronte a dove abitavo io, ma in quel momento arriva Marta, e le vado incontro.

Anche Sandro.

Ma che cazzo.

“Mauta!”
“Sandro! Cosa ci fai qui?”
“Mi puendo un po’ di sole e paulo con questo mio amico che.. oh, se n’è andato.”

Insomma che sono amici da tanti anni, suonano insieme in un gruppo, e quel giorno in libreria avrei dovuto salire fino in cima e l’avrei trovata a provare un basso, ma sono stato affrettato e adesso mi tocca Sandro. Perché si invita a cena, ovviamente.

“Pensavo di andare in una trattoria qui dietro, il gestore è molto simpatico e ti tratta bene”
“E peuché non ci mangiamo un bel sushi?”
“Uh si! Che bella idea!”, risponde Marta.

Non so come funzioni nel resto del mondo, ma a Genova un ristorante di sushi è un posto gestito da cinesi dove mangi variazioni sul tema della cucina cinese, in porzioni minori e con prezzi da usura. Non so se si capisce con che faccia accolgo la scelta.
Però mi adeguo, via, Marta sembra interessante anche se ha amici discutibili.

Sandro ci conduce al piccolo trotto su per via San Lorenzo, che il ristorante che conosce è in centro, e in una decina di minuti ci troviamo davanti a un negozio di abbigliamento.

“Eccoci auuivati! Entuiamo!”
“Ma qui?”, chiedo.
“Ceuto! È un uistouante molto quotato!”
“Ma i vestiti?”
“Vendono anche vestiti, che c’è di stuano?”, sibila il fan dei Sepultura, poi scocca un’occhiata perplessa a Marta, che accusa imbarazzata.

Il cameriere che ci accoglie è italiano, così la barista e tutti gli altri personaggi che vedo passare mentre ci accomodiamo al tavolo. È il ristorante orientale meno orientale che abbia mai visto, in compenso ci sono vetrine piene di abiti firmati e bacheche piene di accessori costosissimi. Ho un terribile presentimento.

“È curioso, siamo gli unici clienti”, dico.
“Meglio, così pauliamo senza esseue distuubati! Peuesempio, tu che musica ascolti?”
“Ehm.. Tom Waits?”, rispondo, nella speranza che la sua maniacalità sia limitata al rock duro e puro.

“Ehi, che figo! L’hai visto dal vivo quand’è venuto a Milano?”
“No, costava troppo”
“Eeh peuò è stato un conceuto impeudibile! Valeva il puezzo!”
“L’hai visto?”
“No, ma c’è stata una mia amica. Io ho visto i Sepultuua puima che si sciogliesseuo”
“Ah si sono sciolti?”
“Dopo che è mouto il figlio della louo manageu in un incidente, ma paue che la stouia sia molto più complicata”

Ahia. Ci siamo. A quanto pare non basta evitare gli argomenti pericolosi, è lui che ti ci trascina dentro, ti inchioda in un angolo e ti sfinisce di cazzate. Dopo i Sepultura passa a raccontarmi di Amy Winehouse uccisa da una multinazionale, Jim Morrison che è ancora vivo e abita a Seattle e naturalmente l’immancabile pippone sul sosia di Paul McCartney.

“E John Lennon?”, chiedo, abortendo uno sbadiglio.
“Gli ha spauato Mauk Chapman”, risponde come se gli avessi chiesto la cosa più ovvia del mondo.
“Beh dai, non può essere una cosa così semplice. Lennon abitava al Dakota, dove Polanski aveva girato Rosemary’s Baby cinque anni prima, proprio mentre sua moglie veniva ammazzata nella loro villa di Los Angeles.”

Sandro mi guarda come se fossi cretino. “Non ci vedo puopuio nessun collegamento!”
“Ma come no? Sulla scena dell’omicidio trovarono la scritta Helter Skelter, come il titolo di una canzone dei Beatles!”
“Ma che c’entua!”
“C’entra eccome! Ma come fai a non vederlo! Sulle ringhiere del Dakota ci sono i draghi rettiliani! Cazzo, mancano solo i riferimenti alla massoneria!”

Marta e Sandro si guardano spaventati, mi dicono di calmarmi, si riguardano. Calmarmi, certo! Io mi dovrei calmare! È tutta la sera che sopporto gli sproloqui di questo squilibrato, che poi chi cazzo lo avrà invitato, e mi hanno portato a cena in gioielleria, e sono io quello che si deve calmare! E i rettiliani ci sono davvero! Li ho visti!

“Scusi, ci porta il conto?”, chiede Marta al cameriere. Non abbiamo ordinato ancora niente, ma non importa, perché solo per esserci seduti ci chiedono ventiquattro euri ciascuno.

Appena fuori i due amici si congedano, Marta non prova neanche a inventare una scusa, si lascia prendere sottobraccio da Sandro e spariscono giù per la via.

Poi dice come mai non attacco mai bottone con le ragazze che incontro per strada.

 

Uno non può andare a New York senza vedere i suoi musei più famosi, sarebbe come andare a Parigi e non mangiare la baguette, o almeno credo. Cioè, non è che uno a Parigi per forza la baguette, però al Louvre ci vai, e allora a New York puoi anche evitarti l’hot dog al furgoncino per strada, che tanto sa di ceralacca come quello dell’ikea, però al MoMA e al Metropolitan ci devi andare, non ci sono cazzi, perciò così abbiamo fatto anche noi, ci siamo dati due musei in due giorni e il tempo che avanzava l’abbiamo passato a Central Park.

Cominciamo dal MoMA, che è una sigla che sta per Museum of Modern Art, e si trova sulla 53ma, la stessa via dove stavamo noi. Una bella comodità, esci di casa, giri a sinistra, attraversi qualche incrocio e ci sei. Però è ancora chiuso. E alla tua fidanzata fanno male i piedi, perché le All Star che si è comprata il giorno prima le fanno venire le bolle. Allora vai in giro per negozi di scarpe. Io a New York ricordo soprattutto i negozi di scarpe. Li ho girati per qualunque ragione, perché costano poco, perché sono grandi, perché ci trovi dei modelli che invece da noi no, perché mi fanno male i piedi e ho bisogno di scarpe, perché ho bisogno di scarpe anche quando non mi fanno male i piedi, perché mi sa che oggi piove e allora infiliamoci un po’ qui dentro, perché abbiamo camminato tanto e infiliamoci un po’ qui dentro di nuovo, e qualche volta anche perché uh guarda che bella vetrina entriamo a dare un’occhiata?

Se avessi visitato tanti negozi di fumetti quanti ne ho frequentati che vendevano scarpe adesso sarei il fortunato possessore della collezione completa dell’uomoragno acquistata un numero alla volta.

Comunque anche i negozi di scarpe prima o poi finiscono, e nel frattempo il MoMA ha aperto.

Il biglietto costa 20 dollari, secondo wikipedia è il più costoso della città, ma dice anche che è il miglior museo d’arte moderna del mondo e non è vero, che il migliore è a Ronco Scrivia, l’ho inaugurato io nel mio giardino ed è stato premiato come miglior museo d’arte moderna del mondo da una giuria di artisti di fama internazionale che però adesso non mi ricordo come si chiamavano, ma me lo sono scritto su un biglietto, se serve posso cercarlo.

Appena entri c’è questo giardino con delle sculture, dedicato alla fondatrice del museo, la signora Abby Aldrich Rockefeller, moglie del pupazzo che negli anni ’80 fece scalpore a Fantastico in compagnia del suo socio, il ventriloquo Moreno. Una volta raggiunta la celebrità il duo si separò e il corvo in frac si trasferì in America dove prese moglie e investì l’immensa fortuna guadagnata nel nostro Paese nella costruzione di un complesso di edifici sulla Quinta Strada.

Il povero ventriloquo non fu altrettanto fortunato, e dopo aver tentato la carriera di arbitro ai mondiali di Corea finì in un brutto giro di spaccio internazionale di droga.

Il giardino del museo non ospita alcuna opera del famigerato duo, ma una roba di Yoko Ono che però non abbiamo visto perché ci sta sulle balle lei e la sua voce strozzata, e Mark Chapman ha sparato alla metà sbagliata della coppia.

Siamo saliti invece all’ultimo piano con l’intenzione di scendere fino al pianterreno ed evitare così le truppe di bambini in gita.

Appena esci dall’ascensore ti imbatti in Christina’s World, un’opera abbastanza disturbante se pensi che la ragazza ritratta nel campo è la vicina di casa del pittore, affetta da poliomielite, che si trascina verso casa. La visione diventa ancora più fastidiosa quando vieni a sapere che per usarla come modella l’autore andava a prenderla tutti i giorni con la scusa di portarla al cinema e poi la mollava in mezzo al campo, si sedeva alle sue spalle con pennelli e tela e aspettava che si muovesse. Se la ragazza non collaborava la stuzzicava con un bastoncino, o le tirava delle pietre. Terribile, vero? Cioè, una volta passi, due magari ci caschi ancora, ma poi lo capisci che tanto al cinema non ti ci porta.

Proseguendo nella visita si arriva ai pezzi grossi dell’esposizione, sale enormi ricolme di capolavori dove non sai da che parte cominciare e giri inebetito con la bocca aperta piegata un po’ di lato e l’occhio vitreo. Non c’è un’opera inferiore alle altre su cui riposare gli occhi, è un fuoco di fila di titoli che non ci puoi credere, dici ma c’è anche quello? E quello? E pensa, perfino quello! E via così per ore.

Per dire, ti piace Picasso? Ce n’è tanto che per due giorni ho fatto la cacca cubista.

Oppure lo Sgabello Biuso di Duchamp, un oggetto che permetteva di sedersi in luoghi molto distanti fra loro, ma non ebbe il successo che meritava a causa della concorrenza di una nota casa, la Ford, che ne rubò il progetto e lanciò un modello più lussuoso che comprendeva il volante, i sedili in pelle, i fanali e il clacson.

E poi De Chirico, Modigliani, le ninfee di Monet, l’autoritratto con scimmia di Frida Kahlo, quello di quando non si drogava più di Van Gogh, gli orologi molli di Dalì, Warhol.. C’è una concentrazione talmente massiccia di opere famose nei piani più alti del museo che visitare il resto sembra perfino superfluo, oppure sarà che la mia conoscenza dell’arte moderna si ferma ai fondamentali, ma il resto delle sale mi è scivolato via senza grossi entusiasmi, compresa l’incredibile sezione elettronica in cui puoi giocare con le installazioni multimediali, tipo il video degli Arcade Fire.

Dopo una dose massiccia di storia dell’arte bisogna riposare i nostri cervelli poco abituati a tanto sforzo, e quale luogo migliore di Central Park?

Una sala giochi, per esempio, ma non ne ho trovate.

Central Park è.. beh, è un parco, con gli alberi e i prati e i sentieri e le panchine come ogni parco del mondo. Però è grosso. Hai presente un parco grosso? Ecco, Central Park è più grosso. È il doppio. Alle informazioni ti danno una mappa e ti dicono tu sei qui, se vuoi vedere tipo la fontana delle barchette devi andare di là e poi girare a destra al platano.

Ora non dico che sia il parco cittadino più grosso del mondo, probabilmente non lo è, se avessi una connessione internet funzionante puttanazzaeva farei una verifica, ma da qualche giorno Ronco Scrivia è tagliato fuori dalla realtà, devo per forza andare a naso.

Buffo che mi sia riferito a realtà parlando di internet, dite che ho bisogno di un medico?

Insomma, probabilmente il Bois De Boulogne a Parigi è più esteso di Central Park, ma io sto raccontando di New York, perciò stattene.

Decidiamo quindi di visitare il parco in due giorni, dopo i musei. Alla fine della visita al MoMA ci dedichiamo alla sua parte per me migliore, quella sud.

È la metà di parco più ricca, e immagino anche la più frequentata, c’è un sacco di roba da vedere, e ci sono questi enormi massi che sporgono dal terreno su cui la gente va a sedersi.

La prima cosa che facciamo entrando è andare a vedere Strawberry Fields, il giardino costruito in omaggio a John Lennon.

Nell’ultima parte della sua vita Lennon e la zoccolona che si trascinava dietro si trasferirono a New York, al Dakota Building, un palazzone tetro dove Polansky ha girato Rosemary’s Baby. Se pensi che davanti a quello stesso palazzo Lennon c’è anche morto sparato, che la zoccolona infesta ancora oggi gli ascensori del Dakota e che poco più in là sorge il grattacielo scelto da Zuul per farci la sua abitazione, beh, in questa zona di New York aleggia abbastanza sfiga da far crollare il valore di qualunque immobile.

Di fronte al Dakota c’è questo giardinetto rotondo con un mosaico per terra che dice Imagine e i turisti accorrono a frotte. Ci trovi i devoti con la chitarra che lasciano i fiori, ma quando lo visitiamo noi ci sono solo macchine fotografiche e un matto che gira in tondo al mosaico bestemmiando contro chiunque e prendendo a calci le foglie. Tutto sommato preferisco così.

Un altro punto interessante della metà sud del parco è la zona conosciuta come The Ramble, un boschetto fitto dove si incontrano gli ornitologi di ogni tipo, da quelli coi binocoli a quelli col fard. La macchina fotografica appesa al collo mi qualifica come appartenente alla prima categoria, e infatti vengo avvicinato da un gruppetto di tizi col binocolo in mano appostati su una roccia che dà sul laghetto. Sono a caccia del rarissimo Baltimore Oriole, ricercato per tutta la vita perfino da George Harrison, cui il blackbird di Paul McCartney non era mai andato giù del tutto.

“È questo?”, chiedo mostrando una foto che ho scattato cinque minuti prima. Il tizio coi binocoli mi guarda con odio. Uno si stacca dal gruppo e si tuffa di testa nel laghetto delle papere.

Ma non c’è solo il Baltimore Oriole, per il parco si aggira un falco che pare abbia nidificato su un palazzo della Quinta, e ovunque ci sono i cardinali rossi, molto apprezzati perché del tuo otto per mille non se ne fanno niente, e soprattutto una specie di piccioni dal petto rosso, che non ho idea a quale razza appartengano, ma li ho subito ribattezzati pettigrossi.

Dall’altra parte del laghetto sorge un ristorante che oltre a darti da mangiare ti noleggia la barca a remi per fare il romanticone inmezzo all’acqua con la fidanzata e magari andare per fratte dove credi non ti veda nessuno, ma cosa credi, che gli ornitologi siano davvero lì per vedere i passeri?

Di fronte al ristorante dei tizi fanno picchetto e distribuiscono volantini e picchiano sui tamburi facendo un casino che sembra di essere a Times Square. Sono ex dipendenti che hanno stilato una lista lunga così di porcherie commesse dal proprietario dell’esercizio e invitano la gente a non noleggiare la barca da lui, che è un bastardo.

Com’è come non è ogni volta che ci muoviamo io e il Subcomandante Marzia becchiamo uno sciopero. Secondo me lei riceve le segnalazioni sul gps del telefonino e mi ci porta apposta.

 

Bethesda Terrace è quella spianata accanto al laghetto in cui sorge la fontana rotonda, sai quella dove i bambini fanno navigare le loro barchette? Quella dove rapiscono il figlio di Mel Gibson che poi lui va in televisione e dice che se lo possono tenere che lui riscatto non ne paga e i rapitori gli restituiscono il figlio però a pezzi e il film finisce con Mel Gibson che piange con un orecchio del figlio in mano, che poi ne hanno girato una versione diversa perché gli americani sono dei bacchettoni e può essere quella che avete visto al cinema voi, non è difficile capirlo, la versione che dico io dura un quarto d’ora.

Anche le barchette di Bethesda Fountain sono a noleggio, ma qui nessuno picchia sui tamburi per convincerti a boicottare anche questo noleggiatore, si vede che lui è onesto, o più probabilmente i suoi dipendenti sono piccoli come le barchette e li tiene chiusi a protestare in una scatola da scarpe.

L’altra attrazione locale è la statua di Alice, su cui si arrampicano felici i bambinetti. È un piacere osservarli la mattina presto, quando il bronzo della scultura è umido e un po’ scivoloso e i pargoli d’un tratto perdono la presa e si sfasciano i dentini sul Bianconiglio. Ti fa ricredere sulle bruttezze del mondo.

Sennò puoi sempre guardare le baby sitter.

Usciamo dal parco belli ritemprati e ci infiliamo nell’Apple Store sulla piazza, quello col cubo di vetro, che però quando ci andiamo noi è tutto fasciato perché stanno sostituendo i cristalli.

Ci infiliamo giusto, che una volta arrivati in fondo e buttato un occhio alla massa pazzesca di gente ci ricordiamo che a noi piace di più android e usciamo di corsa.appeto music

Lì vicino c’è FAO Schwartz, il negozio di giocattoli che ospita il tappeto musicale con cui si sollazza Tom Hanks in Big, andiamo lì.

Bello è bello, ma resto un po’ deluso, non ci sono montagne di giochi da tavolo da provare, giusto un paio di marionette con cui facciamo gli stronzi, e poi Capitan America all’ingresso non mi fa neanche l’autografo. Molto meglio il suo collega Spiderman che ho incontrato a Lucca anni fa.

La giornata volge al termine, o almeno è quanto sostengono i nostri piedi. Ci trasciniamo fino a Rockfeller Center, ma il negozio dell’NBC ha appena chiuso. Seduti su una panchina raccogliamo le forze per arrivare a casa, e un tizio molto nero con un cappello molto bianco che lo fa sembrare Samuel L. Jackson mi si siede accanto e mi chiede da dove vengo.

 

“Italy”, rispondo. Dice che c’è stato anche lui. Dicono tutti chde ci sono stati, ogni americano con cui parlo è stato in Italia e ha una conoscenza tale che potrebbe venire a fare il ministro per il turismo. Considerato che quel posto da noi lo occupa la Brambilla non è un’idea tanto malvagia, tutto sommato.

Anche Samuel Jackson conosce a menadito ogni città dello Stivale e mi chiede di essere più preciso.

“Genoa”, rispondo. E lo guardo. Fa la faccia che fanno tutti gli americani quando dico Genoa. Quella che significa “Non sapevo che esistesse dell’altra Italia oltre Venezia e Roma”.

Gli chiedo se ha presente il tizio sulla colonna di Columbus Circle, quello per cui lui adesso è seduto sotto il Rockfeller Center con un basco bianco in testa e non in mezzo alla savana a ricorrere un’antilope, ecco, quel tizio è nato a Genova.

Mi guarda come se lo pigliassi per il culo, e già me lo vedo a tirar fuori l’AK47 “accept no substitutes” e puntarmelo in faccia. Scuote la testa e mi chiede se ho intenzione di fermarmi a lungo.

“A week”, gli rispondo.

E lui si accende.

Mi dice, con tutto l’entusiasmo di cui è dotato, di fiondarmi subito a vedere The Book Of Mormon, un musical in scena nel quartiere dei teatri. Dice che è divertente, di più, che “you’ll laugh the shit out of you, man!” e che non posso assolutamente andarmene da New York senza averlo visto.

È stato così convincente che qualche giorno dopo, quando sono andato a vedere Stomp, ho avuto seriamente paura di trovarmelo davanti armato.

(continua)