La prima volta che ho visto i Cure dal vivo è stato nel 1992, al Forum di Assago. Promuovevano il loro album Wish, che per loro era già il nono, ma per me era quello che me li aveva fatti conoscere, e sarà per quello che da allora è rimasto il mio preferito.

Eravamo arrivati molto presto fuori dal palasport per accaparrarci la prima fila, e avevo potuto conoscere un certo tipo di pubblico che da allora ho sempre incontrato solo ai concerti di questo gruppo: i dark.

Il termine corretto sarebbe goth, ma in Italia qualcuno ha iniziato a chiamarli così e il nome è rimasto. Erano i seguaci del post-punk, ascoltavano Cure, Siouxsie and the Banshees, Joy Division, e si divertivano molto più di quel che davano a vedere i loro abiti neri traboccanti di croci.

Negli anni 80, nel piccolo paese dove abito, se a un giovane anticonformista fosse venuto in mente di vestirsi di nero, cotonarsi i capelli e truccarsi la faccia col cerone bianco, avrebbe avuto una vita breve e difficile; Genova era più grande, ma altrettanto chiusa in quanto a mode. Per me questi bizzarri individui esistevano solo nelle pagine delle riviste per ragazzini che scroccavo alle mie compagne di scuola a ricreazione, e per questo ne rimasi affascinato quando me ne trovai davanti un esercito, nel piazzale di Assago.

Affascinato in senso negativo, chiaro: quei pagliacci erano i miei diretti avversari nella lotta alla prima fila, e i loro bracciali borchiati costituivano una seria minaccia in un ambiente ristretto. Mi domandai se non fosse troppo tardi per convertirmi alla musica paninara: strusciarsi contro una folla di piumini imbottiti era senza dubbio più confortevole.

Dentro il forum fu la morte. Ho assistito a diversi concerti in quell’edificio, ma solo a quelli dei Cure ho preso così tante spinte, sono stato trafitto da tante gomitate e ho avuto la maglietta impastata di lacca e rossetto peggio che in un postribolo o nel camerino del circo.

Sabato sono stato a Casalecchio di Reno, al mio quinto concerto dei Cure, ventiquattro anni dopo quello di Milano. E ad aspettare fuori dai cancelli, seduti per terra nelle loro palandrane nere, col cerone e il rossetto e i capelli cotonati, c’erano gli stessi individui di allora. Non la stessa categoria, proprio le stesse persone: quarantenni vestiti di nero, appena più sobri di allora. Cinghie e borchie comparivano solo ogni tanto, ma agli anfibi lucidati non aveva rinunciato nessuno. Un sacco di donne pallidissime con décolletés generosi, qualche nostalgico con la maglietta dei Clash, a ricordare che tanto veniamo tutti da lì.

l'irriducibile

l’irriducibile

E i maledetti bagarini. Sono ovunque, cercano di comprarti il biglietto a metà prezzo per rivenderselo al triplo, hanno una dotazione di tagliandi che ti domandi come abbiano fatto, che per ottenere il tuo hai avuto a disposizione una manciata di secondi prima che andassero esauriti. Una volta era facile, andavi in uno dei pochi punti vendita disponibili, compravi cinquanta biglietti e via, ma adesso con la vendita telematica sei soggetto a una limitazione, il sito non te ne vende più di due o tre. Come fanno questi ad averne sempre? E già che ci siamo, come fanno a vendere quelle sciarpette sintetiche orrende con la stampa del gruppo e la data del concerto dietro? Chi gliele può comprare, a parte un cieco ubriaco minorenne amante del kitsch e con un sacco di soldi da buttare?

Insieme a me, ad affrontare le tre ore e passa di attesa prima dell’apertura, il mio fedele compagno di avventure, Concertillo. Se siamo lì è merito suo, io non ce l’ho il tempo e la costanza di piantonare ticketone in attesa che inizi la prevendita con un anno di anticipo. Lui è il tipo che in una città straniera entra in ogni negozio di dischi e spulcia ogni scaffale per trovare il quarantacinque giri di un gruppo che neanche gli piace tantissimo, ma meglio che niente; per uno così comprare un biglietto online è solo un giochetto. Se Costanza fosse una bambina, Concertillo sarebbe il suo papà.

“Certo che arrivare alle tre e trovarci praticamente davanti..”
“Eh, invecchiamo tutti. Magari dentro è la volta che non ci massacrano, che ne sai.”

“No, ma la prima fila non è neanche più così importante, oramai uno preferisce stare dietro ed evitare la ressa”

“Vado in bagno, tienimi il posto”

“Dammi i biglietti, che magari aprono mentre non ci sei”

“Scusa, ma non mi aspetti? E io come faccio a ritrovarti poi?”

“Cazzi tuoi, io appena aprono mi fiondo dentro”

E infatti appena hanno aperto ci siamo fatti la nostra solita corsa fino alla transenna, dove altri quarantenni dallo scatto veloce si erano già presi i posti migliori.

Alla fine abbiamo ottenuto una quinta fila più che dignitosa, e la soddisfazione di avere ancora quella volata sul parterre che fa la differenza.

Consiglio: Quando devi correre per il posto migliore le scarpe da ginnastica rendono più degli anfibi.

Il gruppo che accompagna i Cure nel loro tour si chiama Twilight Sad, è scozzese e gode di una certa fama nell’ambiente post-punk, grazie a quattro album di discreto successo, ottime recensioni dalla stampa e un notevole 55esimo posto nella classifica di vendita britannica.

somiglia un po' a coso

somiglia un po’ a coso

Suonano quattro o cinque canzoni, non sono sicuro del numero esatto perché crollo addormentato a metà della prima. Però sono bravi, il cantante si esibisce volentieri nel numero dell’epilettico, e fra una canzone e l’altra alterna spasmi e gesti nervosi a baci verso il pubblico. Forse è il suo modo di omaggiare Ian Curtis, al quale cerca di somigliare nell’aspetto e nello stile musicale.

Smettono proprio mentre sto per tirargli una rastrelliera da cucina.

E poi inizia il concerto vero.

Robert Smith ormai non ha più una forma, un sesso. Si presenta in scena con la solita cofana sparata e il rossetto. Sotto una camiciona nera indossa una serie di collane vistose. È una grossa signora anziana dal seno cadente, la voce sommessa e le mani gonfie. Gesticola nel suo solito modo femmineo, fa venire voglia di chiedergli un biscotto. Qualcuno dal pubblico gli urla che la vestaglia poteva lasciarla a casa.

la zia

la zia

I miei amici che amano gli spoiler si sono studiati le scalette di tutte le date precedenti, e ne hanno ricavate due, che variano nella canzone di apertura e in poche altre. L’unica cosa che accetto di sapere è che una delle due contiene brani più cupi. Spero che a noi tocchi l’altra: il lato tetro dei Cure mi piace molto, ma persone tristi in giro ce ne sono già abbastanza.

Inizia con Plainsong, e l’espressione contrariata di Concertillo mi fa capire che ci è andata bene.

È un brano tratto da Disintegration, il loro ottavo disco, una perla da cui sono stati estratti un paio dei singoli più famosi. Alla fine da quel disco suoneranno otto canzoni su dodici, basterebbe già per farmi contento.

Dietro il gruppo cinque pannelli proiettano immagini di fuochi bianchi che cadono in scie lente, sopra di loro quattro file di fari compongono il resto della scarna scenografia. Una parete di amplificatori e spie chiude alla vista la parte posteriore del palco, racchiude i musicisti lì davanti, come in una sala prove.

Davanti a me c’è Reeves Gabrels, il chitarrista che si fa i cazzi suoi. Non indossa roba vistosa, non va in giro. Lui è lì per suonare e suona. E suona bene e potente. Non a caso ha una certa fama, nell’ambiente. Per dire, è sua la chitarra in diversi album del David Bowie più recente: questo signore ha inciso i miei album preferiti, Earthling e Hours, ha scritto Thursday’s Child, cazzo.

lasciatemi suonare e portatemi una birra

lasciatemi suonare e portatemi una birra

Uno che invece non si rassegna a stare fermo è Simon Gallup, il bassista storico, carismatico e sempre più votato a somigliare a Johnny Bravo, il personaggio dei cartoni animati. Percorre il palco avanti e indietro nei suoi jeans aderenti, pianta uno stivalone sull’amplificatore e fa gesti al pubblico, torna da Robertone e gli ghigna qualcosa. Porta al polso un fazzoletto coi colori del Reading, la sua squadra del cuore. Alle sue spalle, fissata a una cassa, ha trovato spazio anche una bandiera.

È secco e nervoso, la canottiera degli Iron Maiden gli lascia scoperte le braccia asciutte. Sembra Mick Jones negli anni ’70, tanto per restare sui Clash.

leningrad cowboys go to america

leningrad cowboys go to america

La seconda e terza canzone in scaletta fanno ancora parte di Disintegration: Pictures Of You e Closedown, e non si allontanano granché dalla versione in studio.

A Night Like This non l’avevo mai sentita dal vivo, nonostante la facciano sempre ovunque. Rende bene.

Un altro pezzo per me inedito è alt.end, che però mi fa anguscia. Per fortuna subito dopo inizia la tastierina scema di The Walk, che ti entra in testa e non se ne va più neanche due giorni dopo, a casa, col cane che vorrebbe mangiare e tu che gli rispondi tatta tatta tarattatta tattattà tarattattà.

Plainsong

Plainsong

E poi Primary rumorosa, quadrata, cattiva. Viene su un casino di energia in questo concerto, che però rimane circoscritta al palco, non ti fa venire voglia di muoverti, e ci metto un po’ a capire perché.

È il cantante. Dosa la voce, la tiene bassa, spesso accenna soltanto il canto, o non segue la melodia e si limita a recitare il testo. Il pubblico segue lui e non si sente trascinato. Quando devi tirare tre ore di esibizione hai tutto il diritto di conservarti, e quello che viene fuori non è un brutto concerto, solo più statico.

If Only Tonight We Could Sleep non la fanno mai, e se volete il mio parere va benissimo così. Charlotte Sometimes invece mi arriva addosso inattesa. E uh, è proprio bella.

Poi qualche classico, poi From The Edge Of The Deep Green Sea, che è sempre il momento in cui mi isolo dal mondo e mi faccio il mio viaggio. Non lo so se c’è una canzone che mi piace più di questa, sarà che ogni volta che la riprendo mi dice qualcosa di nuovo.

Dopo il blocco principale, che si chiude con Disintegration, rientrano tre volte. Tre. E ogni volta suonano almeno quattro canzoni. E l’ultimo blocco sono tutte allegre e ballerine. Io non lo so di cosa siano fatti questi tizi, per quanto mi riguarda sono uno straccio già da un’ora.

Friday I'm in love

Friday I’m in love

Hanno suonato tantissimo, e diversi pezzi che non avevo mai sentito dal vivo. Esco dal palasport sulle ginocchia, col telefono scarico e un letto da qualche parte a Bologna che spero di raggiungere col gps, perché se ci provo con le preghiere tanto vale dormire in macchina.

È a quel punto che Sadichillo mi rivela che l’altra scaletta conteneva molte più tracce di Wish, apriva con Open e chiudeva con End, che lascia da parte l’originalità, ma sono due pezzi da aprirsi il torace e tirargli il cuore come le ragazzine le mutande.

 

Oggi, nel 2002, moriva Joe Strummer, il cantante dei Clash.

Tre anni prima lavoravo in un piccolo bed & breakfast londinese come portiere di notte, occupazione che mi lasciava tutti i pomeriggi liberi e un bel po’ di sterline da scialacquare in cidi. Abitavo in albergo, in una stanza condivisa con un ragazzo francese di nome Arno, pessimo cuoco e tenace suonatore di chitarra. Era anche uno schiavo del pop, ascoltava tutto il tempo una orribile stazione che trasmetteva canzoni punzapunza e negre melodiche scosciatissime, e quando tornavo in camera lo beccavo spesso ad esercitarsi su cantanti del suo paese, ma non quelli fighi tipo Brassens, macché, lui conosceva dei musicisti che oltre a violentare il pentagramma amavano stuprare anche le lingue straniere, e cantavano questi pezzi in anglese, che sarebbe l’inglese pronunciato da un francese, che insomma è una roba che se non l’hai sentita è difficile anche spiegarla, ma fa schifo forte. Tutte le volte che lo sentivo biascicare “lovmì, ai sgiast uontiù intù mai arrmz” mettevo su un cidi di Jimi Hendrix e gli mostravo il dito medio, e alla lunga avevo finito per conquistarlo, tanto che un giorno mi chiese di accompagnarlo in un negozio a comprare quella raccolta, che la voleva anche lui e io di sicuro non gli avrei prestato la mia, che poi me la restituiva tutta sporca di rane.
Il mio negozio preferito si trovava in una traversa di Oxford Street, resa famosa in tutto il pianeta per essere finita sulla copertina di un disco degli Oasis, e si chiamava Reckless Records. Non era l’unico negozio, la parte alta della via è piena di botteghe per le orecchie, mentre quella bassa appaga gli istinti ad altezza mutanda: sexy shop e locali ambigui, per capirci. Cominciammo il giro dall’alto, tenendoci il meglio per ultimo, e nella prima rivendita Arno si presentò alla cassa con un cidi di Ricky Martin. Glielo strappai di mano, nella mia vita avevo sopportato abbastanza a lungo i Gipsy Kings per riuscire a reggere qualunque altro latino che non fosse Ovidio, e gli misi davanti Are You Experienced?, del capellone di cui sopra.

La scena si ripeté in ogni altro negozio che visitammo, lui cercava di comprare i Boyzone, io gli proponevo i Rolling Stones, lui ci provava con Britney Spears e io rilanciavo di Etta James. Sulla porta di Reckless Records trovammo un compromesso per una roba dei Blur che conosceva lui, e ci accingevamo ad entrare, quando venne fuori un tizio in giubbino di pelle e capelli tirati indietro. Sembrava un nostalgico del rock’n’roll, ma quel naso a becco era inconfondibile: dal mio negozio preferito era appena uscito Joe Strummer.

Arno non lo degnò di uno sguardo e fece per entrare, ma lo agguantai per un braccio, e quando fui di nuovo in grado di parlare gli indicai l’uomo che si stava allontanando. “Ma lo sai chi è quello? Joe Strummer!!”

Gli avessi detto Evaristo Bartolazzi sarebbe stato uguale.

“Il cantante dei Clash!”.
Nessuna reazione.
“London Calling! The Guns Of Brixton!”.
Encefalogramma piatto.

Sospirai e gli canticchiai un pezzo di Should I Stay Or Should I Go, e ovviamente Arno strabuzzò gli occhi, da quella puttana da classifica che era, e gridò “Joe Strummer!!”, e gli corse incontro.
Il leader dei Clash si era voltato, sentendosi chiamare, e se ne stava lì a guardarci. Arno lo raggiunse trafelato e gli mostrò la più incredibile delle facce da culo: “Mr. Strummèr! Mr. Strummèr! Vi ar big fansoviù, mai frrend herre ès olloviorrrecòrrz!”

Mi aspettavo già lo sfanculo, e invece il vecchio punk rocker ci salutò e ci chiese da dove venivamo, ci strinse la mano e poi vide il sacchetto di Arno e gli chiese cos’aveva comprato.
Il paraculo tirò fuori il cidi di Hendrix che gli avevo regalato io, “Ze second best arrtist in ze worrld, afterr iù!”
“Good boy”, gli ghignò l’altro di rimando, poi se ne andò con le mani in tasca. “Take care”, ci disse.

Il giorno dopo il mio coinquilino si presenta in camera con una raccolta dei Clash e mi dice che sì, quella canzone è bella, ma le altre sono un po’ una merda, e riattacca coi suoi pipponi in anglese sconosciuto.
Se domani incontro Sgianrenò non ti dico un cazzo, crepa.

Aggiornamento rapido:
Combinazione oggi è morto un altro Joe, quello con le orecchie da Cocker e la barba ispida, cui avrei voluto rendere omaggio con un altro post, ma non lo faccio non perché sono uno snob di merda, ma perché lo conoscevo molto meno e l’unica cosa positiva che mi verrebbe da dire di lui è che non è mai stato Zucchero. Finirò la bottiglia di vino in omaggio a entrambi.