È che non dormo. Almeno non quando dovrei. Resto sdraiato sulla schiena con gli occhi chiusi ad osservare l’incessante lavorìo dei miei pensieri, a commentare che non è così che si comporta un cervello, ai miei tempi le cose le facevamo funzionare altroché.

Il sangue rallenta, le mani si fanno piombo. Gambe, spalle, tutto inizia a gemere, mi obbliga a cambiare posizione senza trovarne mai una. Il cuscino è troppo basso, quell’altro troppo alto, senza è troppo senza. Ho tolto la coperta e la maglietta, ho tutte le finestre spalancate, ma non entra un refolo d’aria ad asciugarmi la patina umida sulla pelle. Rumore, quello sì. Di camion, di treni, un antifurto, un fanatico della discoteca che rientra tardi da chissà quale rave e non si arrende al fatto che anche la techno ad un certo punto finisce.

Un borbottio si fa strada nella stanza, e il cervello lo registra quando è già molto forte. È un merci che sta transitando sui binari dietro casa. Il rumore basso è quasi piacevole, potrebbe accompagnarmi verso il sonno. Mi sintonizzo sulla sua frequenza cercando di lasciarmi dietro i mille pensieri che strepitano e mi si aggrappano alle caviglie. Ci riesco.
Poi frena. È un fischio interminabile, il grido di agonia di una bestia gigante, e sono di nuovo nella stanza. Il cervello si batte dei cinque da solo e riprende a raccontarmi cose di cui non voglio più sentire parlare.

Prendo il telefono, provo a leggere qualcosa, ma lo schermo luminoso ricaccia la mia stanchezza ancora più indietro, la sento rannicchiarsi in fondo, come la convincerò a tornare qui? Meglio lasciar perdere il telefono, ho già abbastanza pensieri autoprodotti senza bisogno di farmene regalare di nuovi. Richiudo gli occhi e rilasso i muscoli.
La campana della chiesa mi ricorda che sono già passate due ore dal mio primo tentativo di concludere questo giorno. E il cervello è svelto a calcolare quante ne mancano alla sveglia domattina. Poche, troppo poche. Il pensiero mi procura altra ansia, il sonno si divincola e torna a nascondersi nel suo cantuccio.

Penso ai racconti che sto scrivendo. Per lavorarci non occorre tenere i sensi vigili, si immagina meglio con gli occhi chiusi, e mi distoglie dal circuito ozioso in cui sta correndo il mio ipotalamo.
Solo che per inventare serve concentrazione, la concentrazione mi tiene sveglio, e appena mollo il guinzaglio la testa si rimette a proiettare le solite repliche.

Restare a letto non serve a niente, mi arrendo e vado a farmi un panino, magari il torpore post-prandiale mi aiuterà.

Il frigo è vuoto e gelido, e se guardo dentro di me non vedo altra differenza che un barattolo di senape.
Lo spalmo su un pacchetto di crackers, il modo più veloce per riempirmi la pancia alla svelta senza accendere fornelli. Se riesco ad addormentarmi ora avrò gli incubi, ma non è che i pensieri della veglia siano più rassicuranti.

Torno a girarmi nel letto, ma i pensieri sono sassi sotto la schiena, è come cercare di dormire sul greto di un torrente, e intanto suonano le tre.

Vabbè, mi alzo, tanto ormai a che mi serve dormire tre ore. Dice un importante studio condotto da scienziati che di sicuro riposano più di me che se non dormi almeno otto ore è come se non avessi dormito affatto, si spappolano le cellule, si spengono le sinapsi, i testi di Vasco Brondi cominciano ad avere un senso.

Imbraccio la chitarra e provo per l’ennesima volta a tirar fuori un barré decente, mi arrendo al terzo tentativo. Accendo il computer e provo a scrivere due righe. Mi arriva una notifica dal social nulla: un tizio che non ho mai sentito nominare vuole essere mio amico, un bot porno mi segue su tumblr, dieci indirizzi palesemente falsi si sono iscritti al mio blog. Elimino ogni segnetto rosso dalle icone dello schermo e apro il primo dei racconti abbozzati che tengo a portata di ispirazione, ma non è l’ora giusta, o lo spirito giusto, o il flusso ininterrotto di pensieri sbagliati mi ha annacquato l’immaginazione, sto a guardare lo schermo come lo guarderebbe una mucca.

Il cane viene a chiamarmi, già che sono in piedi perché non andiamo a fare due passi, mi chiede. Già, perché no?

Dieci minuti più tardi siamo per la strada, nel silenzio rotto solo dal gracidio che arriva dal fiume. Abbiamo un sacco di tempo, prendiamo la strada che sale al monte. Lui corre avanti, incredulo di questa passeggiata regalata, io resto indietro a farmi compagnia coi soliti pensieri.

Quando incontriamo l’alba ci fermiamo a guardarla tutti e due.