Lunedì 20

Mi alzo quando lo decido io, e mezza giornata è già andata. Vado a piedi fino all’hotel di Shasha, così da arrivarci intorno all’ora di pranzo, che trascorriamo in uno dei ristoranti giapponesi del mall, seduti a una grossa tavolata di impiegati. Mangiamo anche piuttosto bene, per essere un locale da pausa pranzo.

Per digerire la mappazza mi faccio prestare la bici e cerco di raggiungere il quartiere di Chaoyang, dove si trova la sede della televisione, il famoso Palazzo Mutandoni. Proprio di fronte si sta costruendo una torre nuova, che dovrebbe diventare la più alta della città, e secondo il francese che viveva nell’altra stanza dovrebbe già essere visitabile, lui c’è stato e racconta di viste memorabili dalla terrazza panoramica.

Faccio un bel giro, passo davanti a un edificio senza finestre che ospita un ministero, supero la via delle residenze diplomatiche, dove ogni villetta è protetta dalla polizia e da cancelli antisfondamento, e se sei il fattorino che consegna la pizza ogni volta è un dramma.

Mi fermo per una bibita ristoratrice al Galaxy Soho, che fra tutti i mall di Pechino è il più figo, anche se i suoi addetti alla sicurezza non sanno scrivere “security” e sfoggiano grossi errori di ortografia sul giubbotto.

Cetamente

Il palazzo che voglio visitare è circondato da un cantiere, l’ampio ingresso è sbarrato da una palizzata. Non solo è chiuso, non ne è prevista l’apertura prima del 2019. Mi pento di non avergli mangiato tutta la marmellata, a quel fanfarone coi baffi.

Neanche Mutandoni è visitabile, a quanto capisco dai gesti della guardia che ci sta davanti. Ma non parliamo la stessa lingua, chissà cosa ci siamo detti.

Vabbè, torno indietro, tanto la bici è divertente da usare, e mi faccio tutto il viale, lo stesso che poi arriva a Tiānānmén, con uno scatto da rapinatore in fuga.

A sorpresa e mettendo a repentaglio la mia stessa incolumità scarto a sinistra, giù per Chongwenmen, fino al Glory Mall: il demone dello sport mi ha ormai posseduto, e la bici non mi basta più. Compro un paio di scarpe da corsa di una marca cinese che va per la maggiore.

Nei miei sogni perversi mi alzo un’ora prima tutte le mattine per correre, e in breve ritrovo la tonicità dei miei vent’anni.

Le proverei appena arrivato a casa, ma ho da preparare la cena, e mandare via Gordon Ramsey, che si aggira ancora per la cucina in attesa degli avanzi.

Mutandoni ha un fascino che voi che non avete mai giocato a Tetris non potete capire

Martedì 21

Prima ancora di fare colazione indosso le scarpe nuove e scendo in strada, carico come l’orsetto delle duracell. Per essere la prima volta che corro in dieci anni non me la cavo male, percorro l’intero isolato (un chilometro, più o meno) in meno di due ore, e quando rientro in casa sono ancora vivo e cosciente. Alive and kickin’, direbbero i Simple Minds, ma riferendosi alla mia milza.

Mi butto sul letto aspettando di morire, e mi rialzo solo per raggiungere a pranzo l’altra metà della coppia. Nonostante ogni muscolo del mio corpo sembri yogurt sono soddisfatto dell’impresa eroica appena compiuta, e per premiarmi faccio una cosa che non avevo ancora fatto prima, ma che desideravo da un po’: mi fermo a comprare da un negozietto che si affaccia sulla strada, dietro la stazione della metro. È un buco composto da una cucina in cui lavora un tizio e una finestrella da cui una signora vende i suoi prodotti. Fanno ravioli, baozi, e delle focaccette ripiene di carne che sembrano invitanti, i xiàn bǐng (馅饼)

Ne chiedo una, mi dice quattro. Faccio per darle quaranta, e lei ripete “no no, quattro”. Questa vende focaccette di carne per cinquanta centesimi l’una. Non sono enormi, sono più o meno della dimensione di una pizzetta, ma cinquanta centesimi? Voglio venire a vivere qui.

Naturalmente il negozietto della signora diventerà una meta obbligata ogni mattina dopo la corsa e la colazione.

Superato il pranzo in uno dei ristoranti del mall andiamo a Chaoyang, perché Shasha ne ha per le balle di stare in ufficio e decide di inventarsi una missione in città. Che la mia ragazza marini il lavoro per stare con me mi fa una tenerezza che mi lascia disarmato, ma proprio Chaoyang che non c’è un cazzo? Non potevamo andare a Sanlitun? Vabbè.

Finiamo a girare per l’ennesimo mall, figo quanto vuoi, ma praticamente deserto. Mi chiedo, ma in tutti questi enormi centri commerciali la gente ci va? Ci compra? Quelli che si affacciano su Wangfujing sono sempre affollati, ma quella è un’area molto turistica, ci sta. Qui non c’è anima viva. Poi penso che è martedì, durante l’orario di lavoro, e che i negozi sono di fascia piuttosto alta: si vede che in un quartiere di uffici come questo quando i dipendenti staccano preferiscono andarsi a spendere i lauti stipendi piuttosto che tornare a casa. Oppure non ho capito come funziona l’economia cinese, e mi sembra più probabile.

Prima di andare via ci prendiamo un gelato grattugiato da IceMonster, pubblicizzato come uno dei migliori dieci gelati al mondo. Avessero detto della Cina avrei potuto crederci, ma così si guadagnano un enorme SEH!

Ice Monster’s monster

Si tratta di una montagna (letteralmente) di ghiaccio tritato e cosparso di succo, adornato con pezzi di frutta sciroppata e accompagnato da una bevanda, magari non avessi ingurgitato abbastanza liquidi così. Non è male, specie se lo mangi in una città dove il pavimento si scioglie per il caldo e l’umidità non ti lascia respirare, ma il gelato du caruggiu non ha rivali.

Mercoledì 22 agosto

La bici di Shasha ha un pedale rotto. Ne compriamo un paio online pagandoli cifre ridicole e quando arrivano mi attrezzo per sostituirlo.

Per prima cosa vado dal ferramenta sotto casa e provo a spiegargli che mi serve una chiave inglese del 10. Non avendo idea di come spiegarglielo senza imparare a memoria una frase lunga e complicata (che poi credo che “chiave inglese del 10” si dica Shí hào bānshǒu , 十号扳手, ma non sono sicuro) mi esibisco nel gesto internazionale della chiave inglese, facendo una c con pollice e indice e muovendola come se stringessi un dado. Si vede che in cinese questo gesto significa “sono alla ricerca di qualcuno che mi dilati l’orifizio posteriore”, perché il ferramenta mi guarda schifato, mi tira la chiave e si allontana.

Aggiusto la bici e torno ad avventurarmi per le vie della città.

Ora vorrei aprire una parentesi e dedicarmi a un problema che ritengo angosciante per me e per tutti quelli che si trovano in vacanza lontano da casa: i regali.

Perché dobbiamo fare i regali a tutti quando torniamo da un viaggio? Cos’è, Natale? Da un po’ di tempo se non porto indietro qualcosa dalle vacanze mi sento in colpa, come se dovessi dimostrare a delle persone che anche se mi trovavo lontano stavo pensando a loro. E invece no, non è vero che ci ho pensato, uno va in vacanza proprio per pensare ad altro, sennò venivo a stare tre settimane a casa vostra, no?

Se fosse per me mi comporterei come a natale, che non regalo un cazzo a nessuno, ma quegli stronzi dei miei amici mi portano sempre qualcosa dai loro viaggi, e mi fanno sentire una merda.

Non si tratta di una questione economica, figurati se sto a micragnare per un amico con tutto quello che butto via in cazzate, il mio problema grosso è che il più delle volte non so proprio cosa cazzo comprare.

Quest’anno sono stato via tre settimane, durante le quali il mio gatto è stato accudito da mia madre e mia sorella. Tutti i giorni gli davano da mangiare, gli pulivano la cassetta e giocavano con lui. Sdebitarmi mi pareva il minimo, e se con mia sorella è abbastanza facile, dato che ha due bambini e trovare qualcosa che piaccia a loro è indubbiamente più semplice, fare il regalo giusto a mia madre è stato un casino. Anche perché applicare la stessa proprietà transitiva che adotto con mia sorella e comprare qualcosa a suo figlio sarebbe da stronzi egoisti.

E aggiungi anche i miei amici, che oltretutto non hanno figli e spesso neanche una moglie. E mio padre che, bontà sua, mi ha chiesto una cosa specifica, ma mi ha chiesto un colbacco, e io dove cazzo lo trovo un colbacco ad agosto?

A me fare i regali mette ansia, sempre. E quando sono in vacanza mi obbliga a pensarci per giorni, e soprattutto ad avventurarmi in posti da cui normalmente mi terrei alla larga.

È con questo spirito che quel mercoledì ho varcato l’ingresso di Inculopoli, il mercato dei falsoni di Silk Street, dove l’unico modo per concludere un buon affare è andarsene senza comprare niente.

Luoghi da cui tenersi lontanissimi

Quando si affrontano certi rischi è fondamentale avere un piano a cui attenersi con precisione maniacale, ogni gesto improvvisato può portare a risultati catastrofici. E io ce l’avevo un piano: andare diretto al reparto giocattoli e comprare un orrendo pupazzetto che mi era stato commissionato da mia nipote. Cosa mai poteva andare storto?

Quindi entro, attraverso abbigliamento con la cera nelle orecchie per non farmi irretire dal canto suadente delle commesse e dei loro “hey sir!”; camicie da uomo mi tenta tre volte, mostrandomi un sasso che dovrebbe diventare uno splendido modello a righe, poi mostrandomi feste eleganti in cui farei un figurone con la mia nuova camicia senza colletto, e infine pregandomi di comprare qualcosa sennò non sa come dar da mangiare ai suoi figli; e quando calzature mi offre le mie sneakers preferite a un prezzo da elemosina sento come una perturbazione nella Forza, come se milioni di voci gridassero terrorizzate e a un tratto si fossero zittite, ma è solo un attimo, e riesco a superare incolume anche questa prova.

Giungo ancora integro nell’animo e nel portafogli al cospetto di Giocattoli, e affronto il suo guardiano, la Commessa di Lerna dalle nove teste, ognuna fa un prezzo diverso, e quando ne zittisci una ne nasce subito un’altra che prende il suo posto e ti applica un ulteriore 10%.

Vuole duecentocinquanta soldi, ma la mia fermezza è inattaccabile, e per il corrispettivo di dodici euri mi porto a casa un orrore di plasticaccia che mio padre al mercato lo pigliava in omaggio insieme a un topolino da due soldi.

Nonostante la palese fregatura mi sento vittorioso, e nella mia testa parte un film bellissimo in cui torno a casa con due borse piene di ogni genere di preziosità, Shasha mi chiede dove le ho comprate, io dico Silk Street e lei fa la faccia della bionda nella doccia in Psycho, e io per rassicurarla poso le borse e le vado vicino col dito sotto il suo mento, e dico “un tizio apre la porta e gli sparano e tu pensi che quello sia io? No cara, io sono quello che bussa!”, ma neanche nel mio bellissimo film mentale Shasha coglie la citazione, c’è poco da fare, se ti metti con una cinese che ha la metà dei tuoi anni certe affinità culturali te le puoi scordare.

Mi sento così sicuro di me stesso che devio dal piano originale e vado a comprarmi un portafogli nuovo.

“Monblòn?”, mi chiede la signora.

“Wallet”, ripeto, pensando che non parli inglese.

Con aria cospiratrice, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno ci stia spiando, apre un cassetto chiuso a chiave. È pieno di portafogli allineati uno contro l’altro, senza una scatola, pelle contro pelle come in un porno. Ne tira fuori due, me li mostra. Dentro c’è scritto Mont Blanc. Per dimostrarmi che sono fatti di pelle vera passa sotto il primo la fiamma dell’accendino. “Originale, pelle vera! Alta qualità!”.

Non m’interessa un prodotto costoso, voglio solo un portafogli intero, e per farle capire come sono abituato ad andare in giro le mostro quello che ho in tasca. È così malridotto che se avesse le gambe reciterebbe in The Walking Dead.

“Investire nella qualità!”, insiste lei, citando le parole del filosofo cinese ChāoShì (超市).

“Vabbè, quanto vuoi?”, chiedo, più per parlare che per reale interesse, ma ormai il demone dell’acquisto ha arrotolato le sue spire intorno alle mie caviglie, e si sta arrampicando su per le cosce restituendomi fremiti di gelida aspettativa. Non posso più sfuggire, me la devo giocare meglio che posso.

“880 soldi”, spara. Che sono 110 euri.

“Ma tu sei fuori! È lo stesso prezzo che mi hanno chiesto ieri al negozio della Camper all’Oriental Plaza! Ciao!”

Mi acchiappa veloce per un braccio, e sottovoce, perché non ci sentano le spie del governo che chiaramente stanno acquattate dietro gli scaffali, mi chiede quanto sono disposto a spendere.

Vi risparmio tutta la contrattazione, perché è stata lunga ed estenuante, ad un certo punto io ho offerto “Dodici euro e ti insegno un trucco per finire GTA5”, e lei ha rilanciato con “Quaranta euro e il contatto WeChat di mia figlia”. In conclusione mi sono portato a casa un Mont Blanc “originale ma senza custodia né garanzia” per venticinque euri, più i complimenti della signora per avere condotto la trattativa in modo esemplare.

Quindi mi hanno fregato due volte, e la cosa peggiore è che mi sento anche un mago della finanza. Un po’ come se il tuo governo ti trascinasse in bancarotta facendoti credere che ti sta liberando da tutti i lacci in cui eri stato incastrato dalle legislature precedenti, sono così convinto delle mie abilità che immagino di tornare in Italia e aprire una società per vendere in borsa titoli spazzatura, poi distruggo una lamborghini strafatto di quaalude.

Se me ne andassi ora chiuderei con un danno contenuto e qualche soddisfazione, ma il destino ha in serbo un’ultima amara sorpresa.

Accanto all’uscita c’è un negozio che vende tè. Conosco il marchio, è Wu Yu Tai, ci abbiamo comprato a natale, è affidabile, e in questo punto vendita di sicuro parlano inglese.

Non guardo neanche i prezzi, mi faccio consigliare, non calcolo i cambi. Prendo cinque bustine da 50 grammi, e la commessa mi regala una zolletta di un’altra qualità.

Il dubbio mi viene solo dopo, mentre sono in bici sulla via di casa. Mi fermo, prendo il telefono e calcolo la spesa nella mia valuta.

57 euro. Ho speso 57 euro per due etti e mezzo di tè. Non sono un coglione, quando i coglioni mi incontrano si inchinano e mi chiamano sua maestà.

Mi prende la carogna, vorrei tornare indietro e farmi ridare i soldi, ma non credo che otterrei granché, non so se esiste il diritto di recesso in un paese dove i diritti sono barzellette raccontate a cena dai funzionari di partito. Ancora oggi, quando lo racconto, lo sento bruciare come se mi avessero marchiato a fuoco sulla spalla la A di Astronzo.

Torno a casa, posteggio la bici e vado a comprare qualcosa al supermercato, almeno lì non devo contrattare e non mi fregano, poi salgo e chiamo Shasha.

“Sei stato a Silk Street? Quanto ti sei fatto fregare stavolta?”

“Aspetta, ti mostro. Dov’è il sacchetto? Oh cazzo, l’ho lasciato appeso alla bici! Ti richiamo!”

Con tutto quello che ho speso ci manca solo che me lo faccia pure fregare. Corro giù per le scale come una slavina e tracimo nel piazzale. Il sacchetto è ancora lì.

C’è anche un uomo con la maglietta nera e la scritta police che mi chiede chi sono.

Non so come capisco subito che non si tratta di un fan della band di Sting, e che non parla inglese.

Col sacchetto della spesa in mano gli spiego a gesti che non ho il portafogli con me, cioè, ce l’ho, e l’ho pure strapagato per essere un falso, cosa per la quale dovrebbe essere a Silk Street ad arrestare commercianti truffaldini invece che qui a verificare le mie generalità, ma anche se ho il portafogli non ho i documenti, quelli sono in casa, per cui se mi lascia salire un momento poso la spesa che dentro ci sono anche due gelati e vorrei riuscire a mangiarli senza doverli leccare dal fondo della borsa, e recupero sia il passaporto che il telefono, col quale posso chiamare la mia fidanzata , che lei sì, parla cinese, e gli spiegherà chi sono e cosa ci faccio qui.

Non capisce, e ferma una signora con un bambino di sei anni che stanno tornando a casa. Si vede che li conosce, perché chiede al bambino di tradurre quello che sto dicendo. Il bambino va in crisi quasi immediatamente.

Nel frattempo io salgo e recupero passaporto e telefono, con cui chiamo la mia interprete. Il poliziotto esamina il mio passaporto e non capisce cosa voglia dire APR. Gli dico aprile, glielo dico in cinese, quello so dirlo, ma ancora non sembra capire. Passa il documento al bambino, che chiaramente non sa che farsene, essendo scritto in italiano, e lo dà alla madre.

In questo momento il mio futuro è nelle mani di una casalinga di Pechino, che sfoglia il mio passaporto con la determinazione di chi sogna di ricevere un encomio dal Presidente Xi per avere smascherato una spia occidentale.

Che una sconosciuta vicina di casa spulci nel mio passaporto mi fa girare parecchio i coglioni, e vorrei strapparglielo di mano, ma cerco di essere accomodante finché non capisco cosa succede. È il problema di dover dipendere da un visto per entrare nel Paese, ti rende prono ad abusi a cui non puoi permetterti di reagire. Pensateci la prossima volta che vi viene voglia di maltrattare l’ambulante in spiaggia, o fuori dal supermercato: non siete dei machos che fanno rispettare l’ordine, siete piuttosto dei codardi che se la prendono con qualcuno che, in una situazione di pari opportunità, vi piglierebbe legittimamente a calci in culo.

Vengo scortato in caserma, che per fortuna è proprio di fronte e, grazie alle spiegazioni di Shasha, arriviamo a chiarire la situazione: al mio arrivo avrei dovuto presentarmi in quest’ufficio per dichiarare la mia presenza e farmi rilasciare un modulo. Quello che ho compilato sull’aereo e consegnato alla dogana, e il visto che mi ha aperto la porta alla frontiera cinese non contano, serve anche questo foglietto bianco e azzurro.

Un po’ perché l’indomani partirò comunque, un po’ perché sono tre settimane che mi vedono gironzolare senza che abbia fatto niente per nascondermi, un po’ perché capiscono la situazione, decidono che non sono una spia, ma solo uno sprovveduto turista. Vedermi indossare ridicole magliette dei Monty Python facilita loro la decisione.

Mi lasciano andare promettendomi che se decidessi di tornare a Pechino non avrò problemi a farmi accettare il visto, a patto che vada subito a registrarmi a un ufficio di polizia.

Superato anche questo piccolo intoppo resta da affrontare il dramma vero, la mia ultima cena a Pechino.

Fosse per me inviterei Shasha e altri undici persone, sceglieremmo un ristorante con veranda dotato di un tavolo abbastanza lungo da poterci sedere tutti sullo stesso lato, e poi accuserei un commensale a caso di essere un traditore, ma non ce l’ho neanche in Italia undici amici.

Andiamo al barbecue coreano, un posto dove ti danno tanta carne che per ogni persona che si siede a tavola muore un vegano. È così porco che a confronto l’hotpot è la minestrina dell’ospedale.

Tutti i tavoli hanno un braciere nel mezzo, con una cappa appesa sopra, e la tua dotazione comprende, oltre alle abituali bacchette, un forchettone per muovere la carne, una paletta e un paio di grosse forbici.

tipo il cenone di capodanno ma con meno lenticchie

Il cibo viene consegnato a fette in grandi piatti, da cui lo metti a grigliare secondo il tuo gusto. Ogni tanto il cameriere torna e ti cambia la griglia, per evitare che annerisca. Se lo fa per una questione di igiene o perché il nero della brace cambierebbe il sapore alla pietanza non lo so, ma alla lunga mi rompe le balle che questo arriva, mi prende la fettina che sto arrostendo con tanto amore e me la sbatte su un mucchio di altra carne senza la minima cura.

Quando Shasha ordina al ristorante non ha affatto il senso della misura, e in quest’occasione non si smentisce: il cameriere prova per quattro volte a trovare un posto sul nostro tavolo, poi ci rinuncia e va a prendere un carrello.

Al momento di pagare il conto siamo finiti entrambi in cima alla lista dei ricercati della polizia vegana

Giovedì 23 agosto

Cosa c’è da dire dell’ultimo giorno? È il giorno della separazione, dell’attesa infinita, di tornare a parlarsi attraverso uno schermo, di non potersi toccare, di uscire vedere fare cose andare a cena sempre con qualcun altro, di fare progetti e non sapere se si realizzeranno, non sapere neanche se e quando ci rivedremo. Non si parla granché l’ultimo giorno, si guarda l’orologio e si aspetta l’ora di chiamare una macchina che mi porti all’aeroporto, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo, perché se ti negano il visto per venire qui abbiamo esaurito le opzioni, e non lo so se potremmo reggere un altro anno così.

Non c’è molto altro da raccontare, ci metto un’ora e mezza a consegnare il bagaglio perché tutti quelli davanti a me hanno la valigia troppo pesante, e la aprono e ne dividono il contenuto in altre borse più piccole lì davanti all’impiegata, fermando tutta la fila. E questo succede praticamente per ogni gruppo di cinesi che mi precede, probabilmente gente di ritorno al paesello in cui le regole per l’imbarco non le hanno mai lette.

Quando arriva il mio turno metto la valigia sul nastro, l’impiegata mi rilascia un foglio insieme al passaporto e me ne vado a cercare un wifi da cui iniziare il nuovo ciclo di conversazione a distanza con la ragazza che amo.

Ed è tutto.

Avrei delle considerazioni da fare in coda, su quel che ho capito dei cinesi, sul libro che sto leggendo a proposito della Rivoluzione Culturale, sui racconti di famiglia della mia fidanzata che si sposano con quelli dell’autore del libro, e su come tutto questo abbia una grossa influenza sulla Cina di oggi, tanto che senza tenerne conto si rischia di prendere grossi abbagli; avrei anche da raccontare a che punto siamo io e Shasha, come procede la nostra relazione a distanza (spoiler: mentre scrivo queste righe lei sta dormendo nella stanza accanto), ma credo che per il momento vada bene così. Mi riservo di concludere questo lungo racconto prima o poi, e lascio aperto il conto dei capitoli per alimentare i miei sensi di colpa, ma per il momento è tutto.

Fine.