2. Dove non ci si aspetta l’inaspettato e trovare la verità diventa molto più difficile

I tavolini sulla terrazza erano quasi tutti occupati da possibili lettori di noir francese. L’ombra degli alberi e uno schermo acceso sulla partita riportavano quell’angolo di Francia a una dimensione più prosaica.
Ordinò una birra e un guacamole alla cameriera lesbica. Ce n’erano due, una che sembrava un camionista appassionato di boxe e l’altra appena saltata giù da un poster di pin ups anni ’50, con tanto di cerchietti rosa sulle guance paffute.

All’angolo opposto del bar un negozio specializzato in pastis suggeriva di assaggiare la bevanda tipica della città. Secondo Izzo bisogna berne tre per apprezzarne il sapore; Gabriele era convinto che bisognasse fermarsi prima. A zero.
Due negozi di carabattole turistiche si affacciavano sulla strada, entrambi offrivano variazioni sul tema della sardina. Perché la sardina a Marsiglia è considerata così importante? Sardine marinate nel pastis, chissà se ci aveva mai pensato qualcuno. Sarebbe potuta essere la svolta.

Un uomo invecchiato male, il cui odore di anice lo identificava come cliente abituale del negozio di pastis, andò a sederglisi vicino. Aveva una camicia cachi troppo grande a sventolargli sul petto rinsecchito, pantaloncini della stessa tonalità e sandali. Sembra un reduce della Legione disidratato dal sole sahariano. Doveva essere del posto, la cameriera pin up lo chiamò per nome. Stette qualche minuto a osservare distratto la partita, con un calice in mano pieno di liquido giallino, poi si alzò e fece un giro fra gli avventori della terrazza. Trovato uno che gli piaceva ne occupò la sedia accanto, senza troppe cerimonie, e si mise a raccontargli le sue disavventure. Così, senza aspettarsi alcuna risposta, raccontava per buttare fuori. Il suo interlocutore era chiaramente un turista straniero, forse inglese a giudicare dalla scottatura del viso. Era a disagio, si sarebbe alzato e avrebbe cambiato tavolo, o più probabilmente città, se non fosse stato un gesto maleducato. Così stava lì a dissimulare naturalezza livello condannato al patibolo.

Gabriele si sentiva in sintonia ora con uno, ora con l’altro. Aveva anche lui voglia di acchiappare qualcuno per un braccio e raccontargli di essere venuto fin lì per praticare un esorcismo, farsi rassicurare sull’esito positivo di una pratica così pericolosa, magari trovare un’anima compassionevole disposta ad accollarsi tutta l’operazione, vedere Naïma, convincerla che c’è ancora una speranza, farla innamorare ancora, cancellare tutto quel tempo inutile della loro separazione. Lui sarebbe rimasto in albergo ad aspettare, avrebbero bussato e dietro la porta ci sarebbe stato il turista inglese insieme a lei. Gli avrebbe detto è tutto risolto, e l’avrebbe fatta entrare, chiudendosi la porta alle spalle mentre se ne andava. Ci sarebbe stato un sottofondo di pianoforte, ad un certo punto della storia.
La parte in cui si sentiva tremendamente a disagio occupava il resto del tempo in cui non si perdeva in fantasie ridicole.

Avrebbe voluto scriverle ora, rompere quel silenzio e dirle che era lì, chiederle di raggiungerlo. Esserle amico, se proprio non poteva essere il suo compagno. Era per quello che si era sobbarcato sette ore di pullman, no?
Solo pensarlo glielo rendeva impossibile. Nella solitudine del suo tavolino in mezzo a una terrazza piena di gente nella seconda città più popolosa di Francia dovette ammettere che rinunciare a qualcosa che volevano entrambi gli era inaccettabile. Vederla con un altro uomo gli tirava fuori dei giudizi che non voleva più dare. Era stufo di quella guerra senza senso, e allora meglio stare lontano, dove non poteva nuocere neanche a sé stesso.

Ho cercato di ucciderti sperando che mi facesse meno male, e mi sono trovato a combattere contro i miei stessi desideri.
Sono seduto al tavolino del tuo bar e ho gli occhi lucidi. Dimmi se si può andare in gita così.

Il senso di ragno empatico squillò come una sveglia nella testa dell’ubriacachi, che si voltò di scatto a guardare Gabriele. I loro sguardi si incrociarono, la preda e il predatore.
Ogni pomeriggio all’ora dell’aperitivo, a Marsiglia, un avventore del 13 Coins si sveglia e sa che dovrà correre più in fretta dell’ubriacone molesto se vuole restare vivo.

Gabriele finì in un sorso la birra e abbandonò il guacamole quasi intonso, lo avevano fatto con la maionese, quei barbari! Colpa sua, nel Panier devi ordinare l’hummus.
Si alzarono insieme, ma le sue gambe non erano appesantite dall’alcool come quelle dell’avversario, e riuscì a guadagnare la strada prima di essere catturato.
Era ora di cena, il quartiere era ricco di piccole trattorie caratteristiche che ricordavano molto i locali intorno a Montmartre e quelli nella Plaka. I ristoranti nei quartieri turistici si somigliano tutti in tutto il mondo, stanno a metà fra l’atelier del pittore e la cantina di paese, e il menu è pieno di cifre sopra il 15.

In Rue du Refuge un signore vestito da cuoco allestiva un piccolo tavolino, mentre la moglie scriveva i piatti del giorno su una lavagna. L’etnia della coppia rispecchiava la selezione dei cibi: quella sera tajine e tarte aux pommes.

“Non ho prenotato. Posso sedermi?”. Era l’unico cliente. Il cuoco ridacchiò e gli indicò il tavolino.

Non aveva mai mangiato un tajine così buono: i ceci gli scoppiavano sotto i denti e davano solidità al sapore incorporeo della curcuma e della cannella, che potevano invaderti la bocca mentre la lingua era distratta dal sapore dolce delle prugne. La salsa piccante nel piccolo piatto di terracotta che porta il medesimo nome garantiva la fuga dalla realtà. Non era più una cena, era una rapina a mano armata, impossibile opporre resistenza.
Tuttavia qualcosa lo tratteneva lì, come la sensazione di uno sguardo posato su di lui. Una luce calda che lo avvolgeva, un refolo di brezza fra i capelli, qualcosa di familiare.
Il respiro gli restò bloccato in gola, si voltò come tuffarsi in un lago, certo di cadere dritto negli occhi di Naïma.

L’uomo in cachi restò a fissarlo in silenzio, dando il tempo alla sua faccia di ricomporre un’espressione adeguata.

“Kadir, mi puoi portare un succo all’ananas, per favore?”
“Certo Pierre, con ghiaccio come al solito?”
“Da un arabo non puoi farti servire alcolici decenti”, spiegò a bassa voce a Gabriele, indicando la bottiglia di Cagole in mezzo al tavolo.
“Sbrigati a finire il tajine, ti porto in un posto migliore”

Attraversarono il Panier verso il porto, seguendo una strada diversa da quella dell’andata. Ebbe una fugace visione della piazza in cui aveva abitato Naïma, ma Pierre non gli dava il tempo di fermarsi a sospirare, aveva un passo da fondista difficile da seguire.
Sbucarono sulla Grand Rue che erano quasi le nove. La basilica sulla collina era rossa, come il luogo di culto di qualche romanzo sanguinario. Gli sarebbe piaciuto vedere la città da lì, ma forse dopo il tramonto ci praticavano sacrifici umani.
E comunque il suo anfitrione sembrava dirigersi altrove.
“Vite! Vite!”, gli intimava quando restava indietro.
Ma perché aveva seguito un matto del genere?

Perché non avevi altro da fare che stare seduto a piangere davanti a una massa di sconosciuti, e allora perfino la compagnia di un matto alcolista diventa un’alternativa migliore.
Ah già.

“Non per sapere i cazzi tuoi, ma dove stiamo andando?”
“Vers la vie”, rispose Pierre, indicando le case dall’altra parte del molo.
Se non altro il rischio di venire sbudellato dagli adepti di R’hllor sembrava scongiurato, pensò Gabriele buttando un occhio alla collina, che aveva assunto il colore del sangue secco.

La loro destinazione risultò essere una piazza lunga e stretta dietro il porto, dal nome troppo lungo per essere ricordato. Un lato era occupato da locali pieni di ragazzi, la vie di cui parlava Pierre; l’altro era senz’altro le sommeil, palazzi silenziosi uso ufficio. Anche la redazione della Marseillaise sembrava deserta.

Un trio composto da sax, susafono e batteria proponeva una selezione di ottimi standard jazz fuori da una pizzeria. Era il Peano.
Gabriele si chiese se con l’apertura al capitalismo anche la Bodeguita del Medio sarebbe diventata uno Starbucks.
Le vibrazioni negative riattivarono l’empatia del compagno, che lo prese per un braccio e lo mise a sedere davanti a un vodka tonic.

“Adesso ci ubriachiamo e mi racconti cosa ti è successo”
“Ma non mi conosci neanche, cosa ne sai che mi è successo qualcosa?”
“Ho fatto l’assistente sociale a Belle De Mai per vent’anni. Mi sono trovato davanti ogni tipo di disagio, mogli picchiate e minorenni che si prostituivano per pagarsi la droga. Ormai il dolore lo riconosco da lontano. Non so perché cerco ancora di aiutarvi, deformazione professionale, idealismo, che ne so. Ma vi vedo questo peso addosso e devo cercare di togliervelo. Fammi indovinare, lutto o divorzio?”
“Ma tu sei scemo.”
“Dai dimmelo, lutto o divorzio?”
“Omicidio preterintenzionale”
“Divorzio rancoroso! Lo sapevo! È il mio preferito, racconta!”

Erano passate solo poche ore da quando si era ripromesso di non diventare mai un depresso alcolizzato rompicazzo, e guardalo adesso. Era davvero così privo di dignità?
Quel che si uccide si diventa, diceva Pavese.
Raccontò.

“È una storia bellissima, mi fa venire da piangere! E piangerei, eh? Ma un ubriaco che piange è talmente banale.. Adesso cosa fai, la chiami?”
“Pensavo di no.”
“Ma come no? Sei venuto fin qui apposta!”

Era stata un’idea del cazzo. Quando Naïma era tornata a Genova per prendere le sue cose si erano incontrati, avevano litigato per ore. Lui le aveva riversato addosso una cisterna di liquame puzzolente, era andato via giurandole che l’avrebbe rivista mai più. Ci voleva una bella faccia per presentarsi di nuovo.

“Sono passati mesi. Una persona cambia opinione nel frattempo. Ragiona, capisce di avere avuto torto.”
“Ma io non lo so mica se ho avuto torto. Non vorrei più litigare, quello no, ma ho paura che se ci confrontassimo tornerebbero le ragioni per cui ci siamo scontrati la prima volta. Quelle sono sempre lì, e sono sempre vere. Non si può alternare carezze e bastonate, se prendi una posizione devi mantenerla.”
“Quindi preferisci essere coerente con un comportamento anche se sai che è sbagliato? Mi sembra stupido.”
“L’orgoglio è stupido.”

Pierre attirò la cameriera con un gesto troppo ampio e chiese un altro vodka tonic. Gesticolava un sacco, un paio di volte aveva scontrato il suo bicchiere, e non erano finiti a bagno solo perché era già vuoto. Gesticolava troppo e beveva veloce. E parlava, parlava..
Era convinto che il rapporto fra Gabriele e Naïma andasse ricucito ad ogni costo, non c’era equilibrio e secondo lui le cose prive di equilibrio richiedono un’energia enorme per impedire loro di cadere. Non sembrava interessargli il sentimento fra loro due, per lui l’importante era smettere di sprecare energia. Parlava come un attivista di Greenpeace a cui avessero modificato il vocabolario, sostituendo l’ecologia con termini più legati agli affari di cuore.

“Stai tenendo in mano una pietra da tirarle addosso, non sai se la userai o no, ma preferisci tenerla in caso di necessità. Alla fine è un peso inutile, buttala. Dici che le ragioni sono ancora lì, ma quali sarebbero?”
“Il tizio, Grimaldi. Non riesco ancora ad accettarlo.”
“Perché ti aspetti ancora qualcosa da lei, è quello l’errore. Devi fare pace per te stesso, non per ottenere qualcosa.”
“Non puoi obbligarti a non desiderare.”
“Puoi desiderare senza soffrire. È a quello che devi arrivare. Adesso scusa, ma devo andare a pisciare.”

Si alzò con una certa difficoltà e sparì in mezzo a un gruppetto, urtando una ragazza e proseguendo senza scusarsi.
Dieci minuti più tardi la cameriera si presentò al tavolo col conto.

“Non stiamo andando via, il mio amico è in bagno”, le spiegò lui.
“Il tuo amico se n’è andato dieci minuti fa.”
“Ma no, è in bagno, ti dico!”
“Ti ha fregato, lo fa sempre. Cosa ti ha raccontato? Quella dell’assistente sociale o quella del malato che vuole vivere fino in fondo?”

Gli piombò addosso una voglia feroce di tornare a casa, come se qualcuno gli avesse ficcato un sacco in testa e spento la luce. Se ci fosse stato un pullman a quell’ora sarebbe corso a prenderlo. Guardò sul telefono se fosse possibile spostare la prenotazione per l’indomani mattina, e come succede sempre nei viaggi particolarmente economici scoprì che la minima modifica imponeva il pagamento di penali più care del biglietto stesso.

Pazienza, domani farò un giro in città, magari salgo sulla collina. Faccio venire le tre e torno a casa. Io e le mie idee del cazzo.

Si incamminò in una strada silenziosa e in un paio di minuti si trovò davanti all’imponente prefettura. Non era un edificio granché interessante, somigliava ai tipici palazzi francesi del’800 che ti stufi di vedere girando per Parigi. L’illuminazione però era perfetta, lo trasformava in una bomboniera.
Forse è l’illuminazione sbagliata, pensò. Magari vedrei la mia situazione molto meglio di così se solo la illuminassi meglio. Aggiungo due faretti sui sabati sera in città ricche di fascino, ne tolgo uno agli incontri fortuiti e deleteri, lascio al buio le storie passate e tengo una lampada accesa per vedere dove sto andando, e la prospettiva cambia di colpo e divento un figo che vive avventure esotiche e si tiene lontano dalla tristezza.

Ricontrollò le condizioni di viaggio di Flixbus, magari gli era sfuggita la clausola “Modifica del contratto di acquisto in caso di manifesta incapacità di vivere”.

(continua)

Il mito di Orfeo mi ha attraversato la strada tante di quelle volte che o lo investivo o me ne innamoravo. Ho scelto la seconda: un paio di volte l’ho infilato nei miei racconti, e sono molte di più quelle in cui me lo sono cucito addosso facendo quello che canta e soffre. Non che ci voglia molto, la storia si presta a qualunque fallimento sentimentale, e chi non ne ha almeno uno?

Euridice muore, il suo sposo Orfeo soffre come una bestia e scende a cercarla fino agli Inferi, dove fa una testa così a tutti finché Ade si arrende e gliela restituisce. Avrà una seconda possibilità, qualcosa che non a tutti è concesso. L’unica clausola è che torni nel mondo dei vivi camminando davanti a lei, e che non si volti mai a guardarla, neanche una volta, altrimenti la perderà per sempre.
Una prova di fiducia, in un certo senso. Che poi è quello che si chiede a una seconda possibilità; perché se è finita una volta vuol dire che qualcosa non andava, e il mito ci suggerisce proprio quello, se vuoi che vada diversamente devi comportarti diversamente.


Orfeo ci prova, ma alla fine non si fida: si volta a guardare Euridice, e così le butta addosso i suoi dubbi che non è stato mai capace di superare. Lei se ne va, ovvio. Tutte le donne a casa a fare il tifo. Brava! Quello lì non ti merita! Basta fare la balia ai ragazzini e accontentarsi di uomini insicuri, lascialo perdere! Piangerà la tua scomparsa per un po’, poi si troverà un’altra cretina su tinder e si dimenticherà di te, a dimostrazione di quanto fosse sincero. Stronzo!

A metà del secolo scorso ci ha pensato Cesare Pavese a riportare equilibrio (non so se anche lui si sia rifatto a versioni precedenti, scusate): secondo lui Orfeo è sceso nell’Ade, ha convinto gli dei a restituirgli l’amore, ma quando stava risalendo verso la superficie si è reso conto che era una cazzata gigantesca, e si è voltato apposta. Cioè, questa mi ha lasciato e io la rivoglio ancora indietro? Mi ha fatto soffrire come un cane e io mi dichiaro pronto a rifare tutto da capo?
Ma cosa sono, cretino?

Roberto Vecchioni ci ha scritto una canzone bellissima su questa versione del mito, dove fa dire al protagonista “Tutto quello che si piange non è amore”.
È tutto in quella frase lì. Orfeo si volta perché la vita va avanti, ed è ridicolo crocifiggersi a un ricordo, per bello e magico che sia.

E Pavese ci dice anche un paio di cose sull’ego: Euridice se n’è andata, è venuta giù negli Inferi, che francamente sono proprio un bel posto di merda, e adesso questa è casa sua, ed è giusto che stia qui, fra i morti. Vuole stare con Ade il pallidone? E perché dovrei convincerla che sbaglia? Se è contenta così..
E se ne va. Perché chi non mi vuole non mi merita. Alla fine Euridice si merita esattamente quello che ha: buio e freddo. E io ho di meglio da fare lassù, fra i vivi. Ciaone.

Secondo me c’è anche un po’ di risentimento, stiamo parlando di uno che alla fine per una donna si è ammazzato, però il concetto è giusto: Orfeo scende all’inferno perché l’inferno ce l’ha dentro, non ha scelta, sta malissimo; affronta la morte per cercare una felicità effimera, ma capisce che la felicità te la costruisci da solo, e a quel punto lei non gli serve più a niente. Torna alla luce completo, e suggerisce a Bacca di farselo anche lei un viaggetto da quelle parti, che le fa solo bene. Lei non la prende sportivamente, come si vedrà.

Orfeo Rave, lo spettacolo messo in scena dal Teatro della Tosse di Genova, sposa questa versione. E lo fa rivestendo il mito di atmosfere sudamericane, con un protagonista truccato come il dio del vudù haitiano, con un funerale brasiliano che è una gioia per gli occhi, con la capoeira, con uno strumento che non ho capito se è una kora o kosa.
C’è un sacco di altra roba nel capannone della Fiera, Mercurio chirurgo che recita in videoconferenza, morti che ballano all’obitorio, discoteche e chitarristi che svisano sul carrozzone come quello di Mad Max.
La storia è, invero, un po’ frammentata, Orfeo è un pupazzone snodato del tutto inespressivo, soffro più io seduto sul gabinetto, e gli altri intermezzi recitati non veicolano granché a parte sé stessi. Ma il risultato finale ti cattura, vuoi per la scenografia, vuoi per i ballerini, la musica, la suggestione arriva e ti convinci che l’amore fa più paura della morte e tutto ciò che ti muove è solo il tuo maledetto ego. Sticazzi di Euridice, piangevi la perdita del tuo orgoglio, perché qui se c’è uno che se ne va sbattendo la porta quello devo essere io, chiaro?

E così, tornato a casa, non ho rifatto la punta alle mie ragioni, ma mi sono letto per l’ennesima volta il brano di Pavese, e poi sono andato a dormire, che ne avevo bisogno.

Quella volta che senti il bisogno di fare qualcosa di stupido insensato e dannoso, un’espiazione per i peccati commessi, che ti pesano sulla schiena come quando tradisci un amico. Ma i Transformers li hanno già ritirati dalle sale, non ci sono ragazze capricciose di cui innamorarsi, e allora farsi centoventi chilometri in scooter senza parabrezza e neanche una felpa, in una sera che minaccia temporale, ti sembra l’unica scelta disponibile.

A Santo Stefano Belbo, la città natale di Cesare Pavese, si esibiscono Vinicio Capossela e Vincenzo Costantino Cinaski, un reading letterario dedicato a uno dei miei scrittori preferiti. Me la immagino la serata: un viaggio interminabile sotto la pioggia, una cappottata di freddo, e poi starmene lì in piedi a guardare due tizi che tendono un agguato al mio umore zoppo e lo ammazzano nel buio. Una catena di eventi che spingerebbero a prenotare una stanza all’albergo Roma, ma non me ne curo. È una catarsi, non un funerale.

Arrivo che il temporale è appena terminato, ne ho incrociato la coda a Canelli, ho la cerata bagnata e i pantaloncini asciutti. Posteggio secondo le indicazioni e mi pecoro dietro un gruppo di spettatori fin dentro l’area dello spettacolo. C’è un ring da pugilato sul palco, un pianoforte nel mezzo e due microfoni ai lati. Due sgabelli stanno agli opposti angoli, e dentro i secchi degli sparring partners invece della spugna c’è una bottiglia di dolcetto.
L’esiguo spazio davanti al palco è già stato colonizzato, mi siedo sui gradini appena dietro. Ottima visuale, distanza invidiabile, spero solo che non piova, i giardinetti del paese non offrono riparo e la mia cerata non ha il cappuccio.

Dopo un’ora comincia, Mr.Pall legge una sua poesia, Mr.Mall risponde con un brano dal proprio libro, e sono una decina di minuti di vino da contemplazione, te li rigiri in bocca per sentirne tutte le fragranze, poi il cantante si ricorda del proprio mestiere e si accomoda al piano per un Tanco del Murazzo buttato via.

Un altro giro dedicato alla vita sregolata, sono due animali notturni questi, predatori di mignotte e vodka sour. Storie che finiscono male, solitudine che non ti pesa sul cuore ma sul fegato, odore di fumo e di brioches. L’affondamento del Ginastic è il secondo pezzo, e va già meglio, che quella di prima mi piaceva poco.

Arriva la trilogia classica, un omaggio a Pavese: letture da quella meraviglia che è Dialoghi con Leucò, alternate alle composizioni di uno dei miei dischi preferiti, e arrivano Dimmi Tiresia, Nostos e Le Sirene, sulle cui ultime note Cinaski legge una calda dedica alla birra firmata Bukowski.

Mi sento prudere il cervello come una ferita che guarisce, ho voglia di tornare a casa e fare cose.

Riprende a piovere, sono solo due gocce, ma il pubblico si innervosisce e gli artisti tagliano corto, resta il tempo per Le Cento Città e la canzone che ne è sorella, In Clandestinità. Saluti, si va via alla svelta.

Sulla strada del ritorno, perso su provinciali buie che si arrotolano nella campagna e intorno alle chiese dei paesini, non mi faccio intimorire dai lampi, scarto il maltempo sopra la testa come quello dentro di essa. Ho voglia di cambiare delle cose, piccoli spostamenti nel caos su cui nessuno si affaccia, che mi ricordano quello che sovente mi capita di dimenticare, e di cui vengo talvolta accusato: sarò anche pigro, ma in realtà non mi sono fermato mai.