E poi viene il giorno dopo, quando si decide che l’arte non è mai abbastanza e si va a vedere anche il Metropolitan Museum, che sta dentro Central Park e comprende tanta di quella roba che uno non ce la fa mica a vederlo tutto in un giorno.
Beh, intanto vi dico subito che il Louvre è più grosso e più bello, così ci leviamo il dente, però il MET comprende anche opere d’arte moderna che al Louvre non ce le trovi, e una sezione medievale piena di spade e armature che ti vien voglia di urlare “Lannisteeer!” e uccidere Boromir.
L’ingresso è nell’Upper East Side, un quartiere che mi dicono essere pieno di celebrità e di gente danarosa, così intanto che andiamo mi guardo in giro per vedere se ne adocchio una.
Non ne incontro, però rischio di calpestare parecchi chihuahua al guinzaglio, che in quel quartiere a quell’ora di mattina sono tutti in giro a fare la cacca.

Se c’è una cosa peggiore di schiacciare una cacca di cane, beh, credetemi, è schiacciare un chihuahua mentre la sta facendo. Voglio dire, una cacca si limita a sporcarti la suola, non ti azzanna anche una caviglia e si divincola e ti rimorde il polpaccio e ulula e attira su di te anche l’ira e le ombrellate della padrona cicciona, che si sa che i chihuahua vanno in coppia con le signore ciccione, così alla fine ti ritrovi con un piede dolorante, lividi sparsi ovunque e le scarpe sporche di merda.

Il museo, l’ho detto, ha una parte molto ampia di reperti antichi, gli stessi che se hai già visto il museo che ho nominato poche righe fa o il suo cugino londinese ormai conosci a memoria. Provo comunque, timidamente, a chiedere a Marzia se ha voglia di vedere almeno la sezione egizia, ma vengo minacciato con un khopesh e mi trovo costretto a rinunciare.
Una cosa che ho apprezzato molto di questo museo è la collezione di dipinti antichi, che comprende una bella fetta di opere utilizzate da me e gli altri due stronzi per ARTErnativa, che non sto a spiegarvi cosa sia perché tanto mi leggete in quattro, uno dei due stronzi di cui sopra e altri tre iscritti alla rubrica.
La sezione moderna invece è ricca di cose che non ho capito, qualche Warhol e alcuni bulacchi di Picasso, che arrivati a questo punto sto cominciando a detestare.
C’è un’installazione con delle panchine su cui stanno sedute persone di gesso, è grossa, in mezzo a un corridoio, subito dietro un angolo, e se hai la fortuna di passarci davanti mentre nei paraggi transita una comitiva di orientali non meglio specificati puoi assistere alla buffa scena di una tizia che si fionda, letteralmente, a sedercisi sopra, come se fosse arrivata fino lì a piedi dall’altro emisfero o avesse sognato per tutta la vita di trovare un giorno una panchina occupata da un uomo di gesso in mezzo al corridoio di un museo. Altrettanto buffa è la reazione dei guardiani che, colti alla sprovvista dallo scatto della turista, le si gettano addosso con pochissima della gentilezza che normalmente riservano ai visitatori.

Di questo giorno non ho altro da raccontare, la parte alta di Central Park è carina, c’è questo grosso lago che poi è un bacino idrico che una volta dava da bere alla città, poi Jacqueline Kennedy Onassis ci è annegata dentro e l’ha avvelenato e ha causato un’epidemia di tifo che ha sterminato più della metà dei cittadini e tutti gli indiani d’America, tanto che per mostrarli ai turisti si è dovuto usare quelli delle riserve, e i loro territori sono stati usati per costruirci dei pozzi di petrolio che hanno reso gli Stati Uniti ricchissimi, e quando si sono prosciugati ci hanno messo dentro dei missili atomici con cui minacciare Cuba e diventare la più grande potenza mondiale, e dopo la fine della Guerra Fredda ci hanno costruito dei mcdonalz con cui ingrassare tutti i terroristi che pianificavano attentati e invece sono morti per il colesterolo altissimo, tranne uno che era più furbo degli altri e mangiava solo verdura bollita e infatti ha buttato giù le Torri Gemelle, che difatti quando sono stato a New York non le ho viste.
Il Guggenheim non l’ho visto neanche lui, ed è un peccato, perché da fuori pare che somigli a un grosso gabinetto, ma dentro è pieno di quadri indovina un po’ di chi.

Il giorno dopo invece siamo andati a Ellis Island, e questa invece ve la devo proprio raccontare, perché se vi trovaste a New York e decideste di andare un po’ a vedere questo museo dell’immigrazione è bene che sappiate cosa troverete una volta arrivati là.

Ah, c’erano anche delle vecchie valigie.

Traghetto di ritorno sotto la pioggia, che pare che stia arrivando un uragano, figurati, un uragano a New York, ma che gli fai paura ai niuiorchesi? Ma va, va.
Andiamo a pranzare in centro, che di porcherie sulle isole ne abbiamo già avuto abbastanza a Staten Island, e soddisfiamo la mia passione per il cinema entrando al Kat’s Deli, il ristorante reso famoso da Harry Ti Presento Sally.

L’atmosfera all’interno non è quella tranquilla del deli americano (ve l’ho già spiegato cos’è un deli, si?), qui c’è uno svango di gente in coda per mangiare, perché pare si mangi molto bene, e un altro svango in piedi a fare fotografie o semplicemente a guardarsi intorno, perché il Kat’s Deli è pure un bel posto, pieno di cose appese da guardare, cartelli da leggere e vecchie fotografie.
E poi ci sono quelli che vogliono rifare la scena del film e si siedono al tavolino e cominciano a uggiolare, che se entri in quel momento e non sai di cosa si tratta pensi subito a un attacco generale di colite e cambi immediatamente ristorante.
Doveste capitarci anche voi durante uno di quei momenti gioiosi non fatevi impressionare e ordinate il pastrami, è straordinario.
Dopo pranzo andiamo a cercare Keith Haring e la Keith Haring Foundation.
È successo che due mesi prima di noi Lucilla e Alessandro siano stati in città a fare le vacanze, e si siano dimenticati di visitare il museo dedicato all’artista americano di cui lei è un’appassionata ammiratrice, così la mia fidanzata dallo spirito competitivo ha voluto andarci, fotografarlo e far schiattare d’invidia la sua amica distratta, wo-hoo!.
Solo che il museo di Keith Haring non esiste.
Eh già, la Keith Haring Foundation non contiene quadri, è un ufficio al terzo piano di una palazzina, che gestisce fondi a favore dei bambini malati di aids.
Non molto wo-hoo, vero?
Però l’ingresso dell’edificio e tutto il pianerottolo del terzo piano sono stati disegnati da lui.
Wo-hoo.
E ci hanno regalato delle spille.
Wo-hoo.

E poi via di nuovo in giro per la città che non dorme mai, e neanche noi, che il mal di piedi ci devasta, ma quanti chilometri abbiamo fatto? La prossima vacanza che facciamo invece dell’adattatore per la corrente, che tanto non me lo ricordo mai, mi porto un contapassi.
In un altro punto della città dalle parti di Chelsea troviamo un murale di un altro artista che considero straordinario, stavolta brasiliano, pensa te.
Si tratta di Os Gemeos, dei tizi che avevo già incontrato al museo di arte contemporanea di Lisbona, la scorsa estate, e ancora (in collaborazione con Blu, di cui suggerisco l’imperdibile sito) sulla strada verso l’aeroporto, stessa città.

Il casino di raccontare New York è che non ce la fai ad andare veloce e saltare direttamente alle cose interessanti, perché ce ne sono ad ogni angolo. Posso evitare di soffermarmi sul negozio di costumi di carnevale in cui Marzia si fa ritrarre con la parrucca e il cappello da barbudo, ma devo raccontare del finale di giornata, due ore e passa ad aspettare il tramonto appostati come paparazzi ai giardinetti sotto il Manhattan Bridge, a Brooklyn, che c’è uscita anche la foto della locandina di C’Era Una Volta In America, e lì dietro ci hanno girato anche la scena della discoteca di La 25ma Ora, di Spike Lee, ma non lo sapevo, ma tanto è uguale perché non è che Rosario Dawson sta lì fuori ad aspettarmi, a quell’ora va dal parrucchiere, me l’ha scritto con un sms che custodisco gelosamente dentro un calzino. È per quello che quando cammino zoppico un po’, la storia della ferita di guerra in Vietnam è una balla.

E comunque questo diario americano si è protratto anche troppo, con la prossima puntata lo concludo e basta.

(continua)

Uno non può andare a New York senza vedere i suoi musei più famosi, sarebbe come andare a Parigi e non mangiare la baguette, o almeno credo. Cioè, non è che uno a Parigi per forza la baguette, però al Louvre ci vai, e allora a New York puoi anche evitarti l’hot dog al furgoncino per strada, che tanto sa di ceralacca come quello dell’ikea, però al MoMA e al Metropolitan ci devi andare, non ci sono cazzi, perciò così abbiamo fatto anche noi, ci siamo dati due musei in due giorni e il tempo che avanzava l’abbiamo passato a Central Park.

Cominciamo dal MoMA, che è una sigla che sta per Museum of Modern Art, e si trova sulla 53ma, la stessa via dove stavamo noi. Una bella comodità, esci di casa, giri a sinistra, attraversi qualche incrocio e ci sei. Però è ancora chiuso. E alla tua fidanzata fanno male i piedi, perché le All Star che si è comprata il giorno prima le fanno venire le bolle. Allora vai in giro per negozi di scarpe. Io a New York ricordo soprattutto i negozi di scarpe. Li ho girati per qualunque ragione, perché costano poco, perché sono grandi, perché ci trovi dei modelli che invece da noi no, perché mi fanno male i piedi e ho bisogno di scarpe, perché ho bisogno di scarpe anche quando non mi fanno male i piedi, perché mi sa che oggi piove e allora infiliamoci un po’ qui dentro, perché abbiamo camminato tanto e infiliamoci un po’ qui dentro di nuovo, e qualche volta anche perché uh guarda che bella vetrina entriamo a dare un’occhiata?

Se avessi visitato tanti negozi di fumetti quanti ne ho frequentati che vendevano scarpe adesso sarei il fortunato possessore della collezione completa dell’uomoragno acquistata un numero alla volta.

Comunque anche i negozi di scarpe prima o poi finiscono, e nel frattempo il MoMA ha aperto.

Il biglietto costa 20 dollari, secondo wikipedia è il più costoso della città, ma dice anche che è il miglior museo d’arte moderna del mondo e non è vero, che il migliore è a Ronco Scrivia, l’ho inaugurato io nel mio giardino ed è stato premiato come miglior museo d’arte moderna del mondo da una giuria di artisti di fama internazionale che però adesso non mi ricordo come si chiamavano, ma me lo sono scritto su un biglietto, se serve posso cercarlo.

Appena entri c’è questo giardino con delle sculture, dedicato alla fondatrice del museo, la signora Abby Aldrich Rockefeller, moglie del pupazzo che negli anni ’80 fece scalpore a Fantastico in compagnia del suo socio, il ventriloquo Moreno. Una volta raggiunta la celebrità il duo si separò e il corvo in frac si trasferì in America dove prese moglie e investì l’immensa fortuna guadagnata nel nostro Paese nella costruzione di un complesso di edifici sulla Quinta Strada.

Il povero ventriloquo non fu altrettanto fortunato, e dopo aver tentato la carriera di arbitro ai mondiali di Corea finì in un brutto giro di spaccio internazionale di droga.

Il giardino del museo non ospita alcuna opera del famigerato duo, ma una roba di Yoko Ono che però non abbiamo visto perché ci sta sulle balle lei e la sua voce strozzata, e Mark Chapman ha sparato alla metà sbagliata della coppia.

Siamo saliti invece all’ultimo piano con l’intenzione di scendere fino al pianterreno ed evitare così le truppe di bambini in gita.

Appena esci dall’ascensore ti imbatti in Christina’s World, un’opera abbastanza disturbante se pensi che la ragazza ritratta nel campo è la vicina di casa del pittore, affetta da poliomielite, che si trascina verso casa. La visione diventa ancora più fastidiosa quando vieni a sapere che per usarla come modella l’autore andava a prenderla tutti i giorni con la scusa di portarla al cinema e poi la mollava in mezzo al campo, si sedeva alle sue spalle con pennelli e tela e aspettava che si muovesse. Se la ragazza non collaborava la stuzzicava con un bastoncino, o le tirava delle pietre. Terribile, vero? Cioè, una volta passi, due magari ci caschi ancora, ma poi lo capisci che tanto al cinema non ti ci porta.

Proseguendo nella visita si arriva ai pezzi grossi dell’esposizione, sale enormi ricolme di capolavori dove non sai da che parte cominciare e giri inebetito con la bocca aperta piegata un po’ di lato e l’occhio vitreo. Non c’è un’opera inferiore alle altre su cui riposare gli occhi, è un fuoco di fila di titoli che non ci puoi credere, dici ma c’è anche quello? E quello? E pensa, perfino quello! E via così per ore.

Per dire, ti piace Picasso? Ce n’è tanto che per due giorni ho fatto la cacca cubista.

Oppure lo Sgabello Biuso di Duchamp, un oggetto che permetteva di sedersi in luoghi molto distanti fra loro, ma non ebbe il successo che meritava a causa della concorrenza di una nota casa, la Ford, che ne rubò il progetto e lanciò un modello più lussuoso che comprendeva il volante, i sedili in pelle, i fanali e il clacson.

E poi De Chirico, Modigliani, le ninfee di Monet, l’autoritratto con scimmia di Frida Kahlo, quello di quando non si drogava più di Van Gogh, gli orologi molli di Dalì, Warhol.. C’è una concentrazione talmente massiccia di opere famose nei piani più alti del museo che visitare il resto sembra perfino superfluo, oppure sarà che la mia conoscenza dell’arte moderna si ferma ai fondamentali, ma il resto delle sale mi è scivolato via senza grossi entusiasmi, compresa l’incredibile sezione elettronica in cui puoi giocare con le installazioni multimediali, tipo il video degli Arcade Fire.

Dopo una dose massiccia di storia dell’arte bisogna riposare i nostri cervelli poco abituati a tanto sforzo, e quale luogo migliore di Central Park?

Una sala giochi, per esempio, ma non ne ho trovate.

Central Park è.. beh, è un parco, con gli alberi e i prati e i sentieri e le panchine come ogni parco del mondo. Però è grosso. Hai presente un parco grosso? Ecco, Central Park è più grosso. È il doppio. Alle informazioni ti danno una mappa e ti dicono tu sei qui, se vuoi vedere tipo la fontana delle barchette devi andare di là e poi girare a destra al platano.

Ora non dico che sia il parco cittadino più grosso del mondo, probabilmente non lo è, se avessi una connessione internet funzionante puttanazzaeva farei una verifica, ma da qualche giorno Ronco Scrivia è tagliato fuori dalla realtà, devo per forza andare a naso.

Buffo che mi sia riferito a realtà parlando di internet, dite che ho bisogno di un medico?

Insomma, probabilmente il Bois De Boulogne a Parigi è più esteso di Central Park, ma io sto raccontando di New York, perciò stattene.

Decidiamo quindi di visitare il parco in due giorni, dopo i musei. Alla fine della visita al MoMA ci dedichiamo alla sua parte per me migliore, quella sud.

È la metà di parco più ricca, e immagino anche la più frequentata, c’è un sacco di roba da vedere, e ci sono questi enormi massi che sporgono dal terreno su cui la gente va a sedersi.

La prima cosa che facciamo entrando è andare a vedere Strawberry Fields, il giardino costruito in omaggio a John Lennon.

Nell’ultima parte della sua vita Lennon e la zoccolona che si trascinava dietro si trasferirono a New York, al Dakota Building, un palazzone tetro dove Polansky ha girato Rosemary’s Baby. Se pensi che davanti a quello stesso palazzo Lennon c’è anche morto sparato, che la zoccolona infesta ancora oggi gli ascensori del Dakota e che poco più in là sorge il grattacielo scelto da Zuul per farci la sua abitazione, beh, in questa zona di New York aleggia abbastanza sfiga da far crollare il valore di qualunque immobile.

Di fronte al Dakota c’è questo giardinetto rotondo con un mosaico per terra che dice Imagine e i turisti accorrono a frotte. Ci trovi i devoti con la chitarra che lasciano i fiori, ma quando lo visitiamo noi ci sono solo macchine fotografiche e un matto che gira in tondo al mosaico bestemmiando contro chiunque e prendendo a calci le foglie. Tutto sommato preferisco così.

Un altro punto interessante della metà sud del parco è la zona conosciuta come The Ramble, un boschetto fitto dove si incontrano gli ornitologi di ogni tipo, da quelli coi binocoli a quelli col fard. La macchina fotografica appesa al collo mi qualifica come appartenente alla prima categoria, e infatti vengo avvicinato da un gruppetto di tizi col binocolo in mano appostati su una roccia che dà sul laghetto. Sono a caccia del rarissimo Baltimore Oriole, ricercato per tutta la vita perfino da George Harrison, cui il blackbird di Paul McCartney non era mai andato giù del tutto.

“È questo?”, chiedo mostrando una foto che ho scattato cinque minuti prima. Il tizio coi binocoli mi guarda con odio. Uno si stacca dal gruppo e si tuffa di testa nel laghetto delle papere.

Ma non c’è solo il Baltimore Oriole, per il parco si aggira un falco che pare abbia nidificato su un palazzo della Quinta, e ovunque ci sono i cardinali rossi, molto apprezzati perché del tuo otto per mille non se ne fanno niente, e soprattutto una specie di piccioni dal petto rosso, che non ho idea a quale razza appartengano, ma li ho subito ribattezzati pettigrossi.

Dall’altra parte del laghetto sorge un ristorante che oltre a darti da mangiare ti noleggia la barca a remi per fare il romanticone inmezzo all’acqua con la fidanzata e magari andare per fratte dove credi non ti veda nessuno, ma cosa credi, che gli ornitologi siano davvero lì per vedere i passeri?

Di fronte al ristorante dei tizi fanno picchetto e distribuiscono volantini e picchiano sui tamburi facendo un casino che sembra di essere a Times Square. Sono ex dipendenti che hanno stilato una lista lunga così di porcherie commesse dal proprietario dell’esercizio e invitano la gente a non noleggiare la barca da lui, che è un bastardo.

Com’è come non è ogni volta che ci muoviamo io e il Subcomandante Marzia becchiamo uno sciopero. Secondo me lei riceve le segnalazioni sul gps del telefonino e mi ci porta apposta.

 

Bethesda Terrace è quella spianata accanto al laghetto in cui sorge la fontana rotonda, sai quella dove i bambini fanno navigare le loro barchette? Quella dove rapiscono il figlio di Mel Gibson che poi lui va in televisione e dice che se lo possono tenere che lui riscatto non ne paga e i rapitori gli restituiscono il figlio però a pezzi e il film finisce con Mel Gibson che piange con un orecchio del figlio in mano, che poi ne hanno girato una versione diversa perché gli americani sono dei bacchettoni e può essere quella che avete visto al cinema voi, non è difficile capirlo, la versione che dico io dura un quarto d’ora.

Anche le barchette di Bethesda Fountain sono a noleggio, ma qui nessuno picchia sui tamburi per convincerti a boicottare anche questo noleggiatore, si vede che lui è onesto, o più probabilmente i suoi dipendenti sono piccoli come le barchette e li tiene chiusi a protestare in una scatola da scarpe.

L’altra attrazione locale è la statua di Alice, su cui si arrampicano felici i bambinetti. È un piacere osservarli la mattina presto, quando il bronzo della scultura è umido e un po’ scivoloso e i pargoli d’un tratto perdono la presa e si sfasciano i dentini sul Bianconiglio. Ti fa ricredere sulle bruttezze del mondo.

Sennò puoi sempre guardare le baby sitter.

Usciamo dal parco belli ritemprati e ci infiliamo nell’Apple Store sulla piazza, quello col cubo di vetro, che però quando ci andiamo noi è tutto fasciato perché stanno sostituendo i cristalli.

Ci infiliamo giusto, che una volta arrivati in fondo e buttato un occhio alla massa pazzesca di gente ci ricordiamo che a noi piace di più android e usciamo di corsa.appeto music

Lì vicino c’è FAO Schwartz, il negozio di giocattoli che ospita il tappeto musicale con cui si sollazza Tom Hanks in Big, andiamo lì.

Bello è bello, ma resto un po’ deluso, non ci sono montagne di giochi da tavolo da provare, giusto un paio di marionette con cui facciamo gli stronzi, e poi Capitan America all’ingresso non mi fa neanche l’autografo. Molto meglio il suo collega Spiderman che ho incontrato a Lucca anni fa.

La giornata volge al termine, o almeno è quanto sostengono i nostri piedi. Ci trasciniamo fino a Rockfeller Center, ma il negozio dell’NBC ha appena chiuso. Seduti su una panchina raccogliamo le forze per arrivare a casa, e un tizio molto nero con un cappello molto bianco che lo fa sembrare Samuel L. Jackson mi si siede accanto e mi chiede da dove vengo.

 

“Italy”, rispondo. Dice che c’è stato anche lui. Dicono tutti chde ci sono stati, ogni americano con cui parlo è stato in Italia e ha una conoscenza tale che potrebbe venire a fare il ministro per il turismo. Considerato che quel posto da noi lo occupa la Brambilla non è un’idea tanto malvagia, tutto sommato.

Anche Samuel Jackson conosce a menadito ogni città dello Stivale e mi chiede di essere più preciso.

“Genoa”, rispondo. E lo guardo. Fa la faccia che fanno tutti gli americani quando dico Genoa. Quella che significa “Non sapevo che esistesse dell’altra Italia oltre Venezia e Roma”.

Gli chiedo se ha presente il tizio sulla colonna di Columbus Circle, quello per cui lui adesso è seduto sotto il Rockfeller Center con un basco bianco in testa e non in mezzo alla savana a ricorrere un’antilope, ecco, quel tizio è nato a Genova.

Mi guarda come se lo pigliassi per il culo, e già me lo vedo a tirar fuori l’AK47 “accept no substitutes” e puntarmelo in faccia. Scuote la testa e mi chiede se ho intenzione di fermarmi a lungo.

“A week”, gli rispondo.

E lui si accende.

Mi dice, con tutto l’entusiasmo di cui è dotato, di fiondarmi subito a vedere The Book Of Mormon, un musical in scena nel quartiere dei teatri. Dice che è divertente, di più, che “you’ll laugh the shit out of you, man!” e che non posso assolutamente andarmene da New York senza averlo visto.

È stato così convincente che qualche giorno dopo, quando sono andato a vedere Stomp, ho avuto seriamente paura di trovarmelo davanti armato.

(continua)