E trentotto, che un minuto è passato a correggere il font e la dimensione, che tutte le volte che esci dalla finestra o cancelli ti si azzera e butta tutto all’arial. Non che abbia qualcosa contro l’arial, sia chiaro, che poi mi telefonano quei fanatici, le SSS, Sostenitori Sans Serif, una specie di talebani grafici che lottano per eliminare le grazie dai caratteri, “uno stupido orpello chiaro manifesto della decadenza occidentale”, e mi minacciano di eliminarmi le mie di grazie, che la prima volta non ho capito e me lo son dovuto fare spiegare, e loro mi hanno raggelato spiegandomi quali fossero le cose che mi sporgono dal corpo come le grazie nei caratteri.
L’ho subito raccontato alla mia fidanzata, e lei mi ha consolato dicendomi che parlavano di grazie, non di disgrazie, perciò al limite mi avrebbero tagliato solo il naso. Non l’ho capita subito, ma poi ci son rimasto più male di prima.
Sono le ventitrè e quarantotto, ci ho messo dieci minuti a scrivere il paragrafo di cui sopra, così suddiviso: cinque minuti a scriverlo e cinque a rileggerlo e sfrondarlo delle parole in eccesso, che quando scrivi una cosa, fosse anche solo la lista della spesa, devi stare attento al ritmo e alle ripetizioni: il tuo lavoro è come un bonsai, perché duri mille anni devi potare le foglie inutili con estrema attenzione.
Seguendo queste rigide indicazioni sono andato a comprare e ho portato a casa un peperone, un pomdoro, un fusillo (non pagato, che per non comprare tutta la scatola l’ho aperta di nascosto e me lo sono infilato in tasca), una mutanda (per fortuna quella la vendono con due buchi, sennò pensa le risate a infilarsela) e una forma di parmigiano. Marzia mi ha detto che è l’ultima volta che mi manda a far la spesa da solo, che lei il parmigiano non lo può mangiare, poi mi ha preparato la pasta al sugo con quello che avevo comprato: il risultato era una broda infame su cui galleggiava tristissimo il povero fusillo. Ho dato tutto al cane e sono uscito a comprarmi una pizza, solo che l’unica pizzeria a Ronco è gestita da un tizio che somiglia un po’ a calderoli e che ci mette due ore a prepararti una margherita. Buona eh? E non so neanche se il tizio in questione sia effettivamente leghista, però due ore sono troppe, oggettivamente. Credo dipenda dal fatto che il pizzaiolo ha un braccio solo, e ogni volta che deve infilare la sfoglia nel forno non riesce a maneggiare la paletta e fa cadere tutto per terra, poi ricomincia dall’inizio e al terzo fallimento telefona alla pizzeria di Busalla e si fa portare quello che hai ordinato.
Insomma che sono andato in pizzeria, ma dopo due ore non c’era ancora niente, così ho proposto al pizzaiolo di mandare me a ritirarla, che magari a Busalla avevano il locale pieno e non riuscivano a mandare nessuno, e lui ha accettato con gioia, mi ha anche dato cinque euri di mancia, ha insistito, ha detto “per la benzina!”. A Busalla non ho trovato parcheggio vicino alla pizzeria, perché quella sera c’era la festa di leva dei ragazzi del novantuno, tutti neomaggiorenni e neopatentati, che volevano provare l’ebbrezza di farsi prestare la macchina dai genitori. Erano venuti tutti da soli in auto, anche quelli che abitavano dietro la pizzeria, che per non sfigurare con gli amici avevano raccontato in casa che sarebbero andati a cena a Cuneo.

PAPA’ – Ma come a Cuneo?
FIGLIO – Eh si, la pizza di Cuneo è troppo più buona.
PAPA’ – Belin ma fino a Cuneo? Possibile che non ci sia una pizzeria decente prima di Cuneo? Questa qui sotto fa schifo? Ma proprio a Cuneo?
FIGLIO – Mamma, diglielo tu!
MAMMA – Lascia stare Mario, son ragazzi.

Non trovando posteggio ho cominciato anche un po’ a incazzarmi, che quando non mangio divento nervoso, non so perché, Alessandra dice che sono gastropatico, perché una volta gliel’ho raccontato io convinto che fosse un po’ come metereopatico, una cosa che riguarda l’umore; ora che ho scoperto che è più una cosa tipo tumore allo stomaco quando glielo sento dire mi tocco con discrezione.
Un quarto d’ora più tardi giravo ancora per Busalla borbottando parolacce e augurando gastropatie a pioggia, avevo ancora fame e mi sarei mangiato qualunque cosa avessi ritenuto commestibile, anche uno spinterogeno col ketchup, così mi sono deciso ad estendere la mia ricerca ad altri generi alimentari, compresi quelli non originari del territorio. Era solo un complicato giro di parole per dire che con i cinque euri del pizzaiolo monco ci usciva un kebab dal kebabbaro di Busalla, che tiene aperto fino a mezzanotte, poi chiude, fa un giro di straccio e riapre dopo mezz’ora col locale tirato a lucido e un nuovo pezzo di carne a girare sullo spiedo. Nessuno sa come faccia, qualcuno parla sottovoce di magia nera marocchina, ma secondo me lui è egiziano e c’è di mezzo la maledizione di Tutankhamon.

Con la pancia finalmente piena sono tornato a casa. Marzia era già andata a dormire, così mi sono messo su un film, che dopo il kebab ci vuole un film, lo dice un antico proverbio giapponese che mi sono inventato ora, e ho scelto la seconda parte del film sul Che. La prima l’avevo vista al cinema un casino di tempo fa, ma mi ricordavo abbastanza bene come finiva, perciò non avevo problemi a cominciare questo anche dopo una lunga pausa. Oltretutto la seconda parte riprende proprio dove si interrompe la precedente: quella là finisce con dei titoli che scorrono e questa comincia con un titolo che sta fermo, sempre bianchi su sfondo nero, così è più facile.
Mi è piaciuto questo film, anche se il finale mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca: non mi aspettavo che morisse, alle elementari la maestra ci aveva spiegato che ad un certo punto il Che abbandona la lotta armata e diventa una congiunzione.

Sono le zero e trentadue, ho portato a spasso il cane dopo Tutankhamon e adesso concludo e vado a dormire soddisfatto.