L’ultima puntata del diario americano, che mi sembra che ce lo siamo menato abbastanza con questo viaggio, e le foto, e i giudizi che uno può essere d’accordo oppure no, ma tanto finché non ci vai te ne devi stare di quel che leggi, ma è anche vero che oramai ci vanno tutti a New York, tranne te haha, sei uno sfigato che non è neanche stato una volta a New York haha, che ridere.

Io però a New York ho visto cose che pochi possono vantarsi di avere visto. Ho visto Irene.

Tutto comincia il giorno prima, quando trascino Marzia a vedere Coney Island con la scusa di andare a fare i turisti in un vecchio luna park un po’ desolato. In realtà voglio andarci per poterle cantare una canzone di Tom Waits, perché va bene che non mi ricordo da quanto stiamo insieme e il nostro anniversario e a dirla tutta ho anche delle grosse difficoltà sul suo compleanno, però a parte questi dettagli insignificanti è il mio angolo di universo preferito e l’unico dove mi sento davvero a casa, e ogni tanto mi fa piacere celebrarlo.

È una giornata bellissima, c’è il sole e la metropolitana è piena di newyorkesi in ciabatte che vanno in spiaggia.

La passeggiata di Coney Island è ampia, lunghissima e tutta di legno, e il luna park sta proprio fra questa e i brutti palazzi alle spalle, ma non ci vuole un grande sforzo per ridurre il proprio campo visivo alla ruota panoramica e dimenticarsi della città lì dietro. È un bel posto, quando ci riesci. C’è il mare pulito, la spiaggia di sabbia, i moli, e poi ci sono questi banchetti che vendono hamburger e le panchine e i gazebo e proprio non capisci perché ci siano questi individui con la telecamera che invece inquadrano l’orizzonte.

È per Irene, mi dice Marzia, sta arrivando.
Ah già, Irene. Le televisioni non parlano che di questo uragano che dovrebbe abbattersi su Manhattan e raderla al suolo, annegarla, farla a pezzi, come in un qualunque film catastrofico hollywoodiano. Il sindaco ha già predisposto l’evacuazione delle zone a rischio, la chiusura della metropolitana per la prima volta nella storia della città e la sospensione del servizio di autobus. Non si parla di coprifuoco, ma è come se, che se non ci sono i mezzi pubblici e i negozi sono tutti sprangati e piove pure cosa esci a fare?

Per il momento però è una mattina bellissima e ce la godiamo tutta. Io faccio anche un giro sul Cyclone, le montagne russe più antiche della città, tutte di legno, che quando ci sei sopra e il carrellino ti sbatacchia a destra e a sinistra te lo ricordi fin troppo bene, e anche quei dieci metri scarsi di altezza ti riempiono di terrore.

Ce ne veniamo via felici come due bambini che sono stati alle giostre e ridiamo di quei gonzi che stanno lì ad aspettare la fine del mondo.

Nel frattempo, sul filo dell’orizzonte alle nostre spalle, un puntino nero si avvicina minaccioso come il fotocane.

Il resto della giornata fila via tranquillo facendo shopping, che poi è la maniera migliore di vivere New York, dove le cose costano un terzo meno che da noi e i negozi sono un terzo più interessanti.

Una delle cose che li rendono interessanti, quel giorno, è il fatto che tutte le vetrine sono state “rinforzate” con del nastro adesivo appiccicato a x, utilissimo, pare, in caso di uragani. Si racconta di palazzi rasi al suolo completamente tranne una vetrina che il lungimirante commesso aveva riempito di scotch. La sensazione, passando per la via, è piuttosto quella di trovarsi al Raduno Internazionale Degli Informatori di Fox Mulder.

Alcuni negozi sono già chiusi, altri hanno blindato le vetrine con pannelli di legno o sono impegnati nell’opera, e ovunque ci sono tizi col martello che battono, sotto una pioggia sottile che quand’è arrivata, prima non c’era, e guarda quel cane com’è diventato più grosso.

Torniamo a casa incolumi, e ci prepariamo al peggio, come tutti; nell’eventualità che taglino la corrente e l’acqua scendiamo al supermercato a comprare un paio di bottiglie, ma gli scaffali sono vuoti, la fobia dell’isolamento ha già attecchito e i newyorkesi si sono lanciati all’assalto, raccogliendo scorte di viveri come se dovessero restare chiusi in casa fino al Giorno Del Giudizio.

Beh, è anche vero che per la televisione è previsto per l’indomani, ma semmai sarebbe una ragione in più per non caricarsi il cestino di viveri. E che viveri, poi! A quanto pare nessuno ha spiegato agli abitanti di New York come prepararsi a un’emergenza, in coda alle casse vedi gente piena di bottiglie d’acqua, e va anche bene, ma le casse di coca cola e patatine le giustifico solo se intendi aspettare l’apocalisse sparandoti l’intera serie di Sentieri, e le scatolette di conserve non se le prende nessuno? E le patate? Non quelle nei sacchetti, dico proprio le patate intere, ci passano davanti senza guardarle e si avventano sui pacchi da trentasei di merendine. Poi dicono che sono obesi.

Il giorno dopo ci svegliamo sul set di Io Sono Leggenda.

Piove, ma l’uragano che doveva abbattersi sulla città è stato declassato a tempesta tropicale. I telegiornali non parlano d’altro, ovunque ci sono inviati speciali coi piedi a mollo e l’impermeabile sbattuto dal vento (che è bello forte, seppure non ommioddiomoriremotutti), si aggiorna costantemente la conta dei morti e dei dispersi, che è ancora ferma a zero, ma non temete, cambierà in fretta.

Usciamo, che a Ronco siamo abituati a climi peggiori. La città è una meraviglia, la pioggia non disturba granché e le strade sono deserte. Cioè, passa qualche macchina, più che altro taxi, c’è qualche curioso sul marciapiede, ma è la vita che ti aspetti di incrociare in un paesino di provincia la domenica mattina, non certo sulla Quinta Strada.
Ci spingiamo fino a Times Square incontrando pochi curiosi, facciamo un sacco di foto alle vetrine sbarrate, ai sacchi di sabbia davanti ai portoni, alle avenue deserte.
Anche il punto più affollato della città è mezzo vuoto, i turisti intontiti stanno a fissare le insegne dei teatri accese che si riflettono sull’asfalto bagnato e si domandano se era il caso di mettere una città in quarantena. “E adesso come ce li spendiamo i nostri soldi?” sembrano dire.

I miei compagni di avventura si sono rotti le balle di ciabattare nell’acqua e chiamano un taxi, ma io ho ancora foto da fare e a casa mi annoio, ci dividiamo dandoci appuntamento a casa più tardi.

Il telefono mi squilla in continuazione, sono tutti i parenti in Italia che stanno guardando il telegiornale, e la notizia di apertura è che oggi New York verrà distrutta, annegata, spazzata via e i suoi resti bruciati e poi saccheggiati e i pochi superstiti stuprati e uccisi. E questo su la7, figurati al tg1. Rispondo solo ai primi messaggi, poi decido che mi si è scaricato il telefono, o che sono morto annegato bruciato e stuprato, per quel che vale.

Mi spingo a piedi fino a Wall street incontrando cinque persone in tutto, il toro dorato sulla Broadway è tutto per me, ben disposto a farsi fotografare, Zuccotti Park è ancora senza accampati, gli edifici del potere sono deserti. Finisco a South Street Seaport, una zona molto carina e molto turistica sotto il ponte di Brooklyn, e anche lì sono da solo. Risalgo lentamente passando fra l’East River e ancora Broadway, trovo un negozio di dvd gestito da una banda di muddafacca nigganigganigga che per dieci dollari ti lascia uscire con mezzo negozio e non ti punta la pistola in faccia tenendola di sbieco come i gangsta.
A Midtown ci sono due ragazzi che si passano una palla da rugby in mezzo a un incrocio, sotto gli occhi divertiti di un portiere d’albergo, che dopo un po’ si aggrega. Siamo dietro Union Square, tanto per rendere l’idea.

Resterei in giro ancora un po’, ma il messaggio successivo è di Marzia, sono a casa e mi stanno aspettando. Hanno comprato Munchkin Zombies.
Cinque minuti e sono là.

E questo è praticamente tutto, anche se restiamo in città altri due giorni le cose degne di nota sono poche, torna il sole, andiamo ancora un po’ in giro, facciamo altre foto e ci compriamo dei vestiti.
Dall’ufficio del nostro ospite si gode di un’ottima vista su Manhattan, ma per accorgertene devi salire sulla scrivania, e il Chrysler Building non si può visitare oltre l’atrio, ma ne vale comunque la pena. Da Lush vendono un prodotto che si chiama Caca Marron, chissà se si trova anche in Italia.

Prima di andare via, l’ultimo giorno, siamo seduti su una panchina di Washington Square a goderci il sole. Irene se n’è andata senza lasciare traccia, a parte le stazioni della metro, che adesso sono belle pulite. C’è un quartetto jazz che suona, sono molto bravi, la gente si ferma ad ascoltare. Seduto poco più in là c’è anche Miles Davis, sembra divertirsi.

Qui bisogna che ci diamo una botta se vogliamo vedere tutto quello che ci siamo prefissi, il 2012 è vicino e poi non si può più, che ai maya io non ci credo, ma gli americani sicuramente e ho paura che l’anno prossimo chiudano tutta l’America in un’astronave e abbandonino il pianeta in cerca di fortuna, compresi gli speculatori di Wall Street che li hanno messi in ginocchio, al limite se lo dovessero rifare li sparano nello spazio. È questa la ragione che mi spinge a saltare giù dal letto alle sei e mezza come se dovessi andare a spaccare il mondo, vai, porcodue!

Usciamo comunque alle nove, che siamo due pigri di merda, ma nel frattempo posso sedermi sul divano a guardare l’East River.

Il Flatiron Building, pochi lo sanno, è la sede dei Boys, la più recente creazione di Garth Ennis, un fumetto molto violento e molto ironico che racconta quel che non sappiamo dei supereroi. La New York che fa da sfondo alle storie è molto simile a quella reale, salvo che l’undici settembre ha risparmiato le Torri Gemelle a danno del ponte di Brooklyn, e questo fa si che un lettore possa girare la città in cerca di luoghi descritti, lo stesso tipo di turismo cinematografico su cui ho già impostato la vacanza fin dalla sua preparazione.  Della sensazione che si prova a vedere una vignetta dal vivo ha già parlato Scott Ronson nelle sue ottime cronache americane, quindi vado avanti.

Se scendete dalla metro a Chelsea e vi avvicinate lungo la 23rd potete sbattere nel Chelsea Hotel,residenza storica di celebrità e teatro di un altrettanto celebre delitto: fu proprio qui che Nancy Spungen, fidanzata del bassista dei Sex Pistols Sid Vicious, venne trovata pugnalata il 12 ottobre 1978. Si parlò molto della cosa, se ne fece un film, ma la verità venne fuori solo molti anni dopo, ad uccidere Nancy fu il Professor Plum nella sala da biliardo con la chiave inglese. Quel che se ne fece del cadavere non ci riguarda.

Il Flatiron Building è tanto bello fuori quanto anonimo dentro, perlomeno il lato che ti lasciano visitare. I palazzi americani hanno tutti il portiere, un tizio ben vestito che ti osserva quando entri nella hall e non ti stacca gli occhi di dosso finché non te ne vai. A seconda di quant’è abituato ai turisti ti può lasciar pascolare o chiederti subito cosa vuoi, ma se provi ad avventurarti per le scale immagino che sia lì apposta per abbatterti davanti agli ascensori. Almeno questo è lo scopo dei portieri del palazzo in cui stiamo, e mi è sufficiente per non tentare di salire ai piani in nessun edificio in cui mi intrufolo, Flatiron compreso. Peccato, perché sono sicuro che salendo migliora parecchio.

Il vecchio Ferro da Stiro è in pratica anche l’unica tappa della giornata, visto che ci ronziamo intorno per un’ora, ma è un vecchio signore elegante, difficile tirarsene via prima che ti abbia raccontato di quand’era giovane e le macchine avevano le ruote di legno e tutto intorno erano casette basse e nei locali si suonava il charleston e la vuoi una mela cotta e ti ho già raccontato di quand’ero giovane e le macchine avevano le ruote di legno?

Una volta venuti via di lì ci facciamo un goodburger, che sarebbe l’hamburger che ti danno in una delle tante catene, molto buono davvero. Di fronte al ristorante i dipendenti Verisign, una specie di telecom locale, sono in sciopero contro i tagli aziendali, ed espongono cartelli che invitano gli automobilisti a suonare il clacson per manifestare la loro solidarietà. Questo rende il nostro pranzo un po’ rumoroso.

A Union Square, poco lontano da lì, delle anziane signore invitano i passanti a votare per una migliore ripartizione del denaro pubblico secondo un sistema intelligente: in pratica ti danno una bustina con delle monete e ti chiedono di infilarle in contenitori cilindrici su cui sono applicate etichette che dicono “spese militari”, “istruzione”, “cultura” e via dicendo. Una di loro si incarica di registrare le percentuali di voto su un quaderno che poi immagino spediranno a chi di dovere, o conserveranno da sfogliare nelle fredde serate invernali insieme ai nipotini.
Quando scoprono che siamo italiani indovinate di chi ci parlano, scuotendo la testa? Vi aiuto, non è l’ultimo fidanzato della Pellegrini.

Finiamo la giornata in un grande magazzino di Union Square a fare qualche foto dalla vetrata al quarto piano. Come ci sia voluto tutto il giorno è un mistero che non so spiegare, ma la sera c’è da andare a teatro!

Appuntamento a Chelsea, al McKittrick Hotel, un edificio trasformato fino a ottobre in un set dove si tessono le cupe trame di Sleep No More, decisamente lo spettacolo più accattivante cui abbia mai partecipato: arrivi e ti mettono una maschera bianca col becco, da signore veneziano, ti dicono di non parlare con nessuno e ti infilano in un ascensore dopo averti separato dagli amici; quando si aprono le porte non c’è l’orgia di Eyes Wide Shut, ma un edificio su quattro piani in cui sono stati ricavati giardini, stanze, uffici, un manicomio, un salone da ballo e un mucchio di altri ambienti tetri in cui sei libero di girare e mettere le mani. Letteralmente. Puoi aprire cassetti, armadi (in uno c’è anche un passaggio segreto), leggere le lettere e raccogliere indizi per legare insieme le scene cui assisti in giro per l’edificio. Devo dire che, per mio limite, le scene fra attori sono state l’aspetto negativo di tutto lo spettacolo: lentissime, prive di dialogo e quasi sempre risolte in una specie di balletto con i protagonisti che saltano sui mobili; inoltre la libertà di muoversi all’interno della scena diventa un ostacolo per gli altri spettatori, che spesso si trovano a dover sgomitare per capire cosa stia succedendo. Dovessi rivederlo, e lo rivedrei volentieri, eviterei di ciondolare per il palazzo finendo per caso in qualche situazione, ma seguirei un personaggio dall’inizio e guarderei la storia attraverso i suoi occhi. Magari la fattucchiera, che mi ha già baciato una volta, metti che ci esca qualcosa di interessante.

La notte sogno omicidi al rallentatore, ma perlomeno Godzilla non c’è.

(continua)

La High Line è un giardino incolto a sei metri da terra, un biscione che si snoda fra i palazzi da Chelsea fino al Meatpacking District, e dato che prima ci passava il treno era tutto un abbandonare gli edifici in cerca di posti migliori, mentre adesso che è un parco che attira gente in quantità c’è la corsa opposta a recuperare i palazzi adiacenti, ed è tutto un cantiere, ma con questo non voglio mica dire che sia brutto, eh? Che camminare sospeso sopra il traffico e vedere l’Hudson da una parte e i grattacieli dall’altra e i tetti delle case sotto e la città che si muove tutto intorno ti dà la sensazione di stare in un acquario.

Il Meatpacking District è carino, edifici bassi, strade acciottolate, diversi ristoranti italiani, fra cui uno che si chiama Macelleria, dove però non siamo entrati, che mangiare italiano all’estero è una di quelle esperienze che sta nella mia classifica delle cose da provare almeno una volta nella vita subito dopo l’assumere eroina e il sesso anale.

A proseguire per quella strada che mi pare si chiami Washington qualcosa, ma non ho voglia di verificare anche se ho google maps aperto, pensa la pigrizia, ma checcazzovuoi sono in vacanza, si arriva in una zona del Greenwich Village abitata dalle celebrità come Sarah Jessica Parker e Sbirulino, ma a noi non interessano né i clown né i cavalli, quindi ci dirigiamo verso Washington Square, dove abbiamo appuntamento con la cognateria.

C’è l’arco di trionfo de noatri sotto il quale Harry viene scaricato da Sally, è più piccolo di quel che credevo, ma sarà che sono abituato agli standard europei, e tutto intorno c’è un uso degli spazi pubblici cui non sono abituato. Insomma, da noi se vedi delle persone coi piedi a bagno nella fontana pensi subito che il Genoa è tornato in serie A, oppure ti chiederanno degli spicci.

Appena dall’altra parte della strada ci abita Martin Mystère, che a quanto pare ha tolto l’edera dalla facciata, e ancora più in là si estende l’East Village, che trasuda musica da ogni angolo.

 

 

C’è il negozio punk, dove l’unico punk è il proprietario, che gli altri non ce li spendono tutti quei soldi per dei vestiti strappati. Io però gli anfibi al mio nipotino li avrei presi, che per esclamare dei “rocchenroll!” credibili è bene indossare abiti adeguati.

 

 

C’è il palazzo che compare sulla copertina di Physical Graffiti dei Led Zeppelin e c’è la via dove Bob Dylan si è fatto fotografare abbracciato alla fidanzata su quella di The Freewheelin’, e scusate se poi alla fine la foto non l’ho fatta, che non rendeva l’idea e poi a me Dylan neanche piace così tanto.

C’è il negozio di dischi dove ti accoglie una signora sui sessanta in costume da bagno e per sbirciare l’enorme quantità di dischi negli scaffali devi spostare i vestiti appesi in giro e c’è il negozio dove neanche riesci ad entrare da quanta roba è ammucchiata alla porta, e il padrone è anziano e disperato perché sono trent’anni che non riesce più a trovare l’uscita e ti guarda da dietro una pila di cidi e dimmi un po’ se quelle non sono audiocassette, ma cosa se ne farà.

 

C’è una banca anonima dalla facciata bianca che di fronte ha dei pali ricoperti di mosaici a ricordare ai posteri che quello una volta era il Fillmore East e ci hanno suonato anche i Pink Floyd, e fuori c’è un signore che mostra a dei ragazzini le foto di com’era quando il mondo andava avanti col rocchenroll invece che con le speculazioni finanziarie.

 

C’è l’ex Palladium, dove si esibivano i gruppi e il bassista dei Clash ha sfondato il suo strumento sul palco ed è finito sulla copertina di London Calling, e adesso ci dormono gli studenti, spero che ogni tanto qualcuno si faccia prendere dalla nostalgia e fracassi la chitarra del compagno di stanza, giusto per celebrare, dai, cosa t’incazzi, domani te la ricompro.

 

C’è Tompkins Square Park dove una compagnia di ragazzi sta mettendo in scena Shakespeare con un baule di vestiti usati e due barbe finte, e c’è un omone con tutta la testa tatuata come i maori, e la musica trasuda appena fuori, sul murale dedicato a Joe Strummer, che non sono neanche stato l’unico ad andare lì e abbracciarmelo.
Salutiamo la cognateria non lontano dal bar dove Sally simula l’orgasmo davanti a Harry, un bel modo di chiudere la parentesi anche se in mezzo ci siamo occupati di tutt’altro che di commedie romantiche, e andiamo a vedere il graffito del topolino con la scopa sulla base di cemento di un lampione, che uno non capirebbe l’emozione di trovarsi di fronte quello scarabocchio se non sapesse che il primo Banksy è come il primo bacio e non si scorda mai.

Per essere il primo giorno abbiamo girato tutto il Village di qua e di là, Chelsea e Meatpacking District. E neanche un negozio di fumetti!

Punto diretto su Forbidden Planet per una versione inglese di V For Vendetta. Sulla strada visitiamo Toy Tokyo, che è pieno di cazzate che uno non ci crede, e facciamo conoscenza con l’autista di Tom Cruise che non ci introduce al magico mondo della celluloide, ma va detto che neanche prova ad affiliarci a scientology. Se ne sta lì in doppia fila ad aspettare che qualcuno della famiglia esca dal portone del palazzo che si chiama Genesis ed è proprio dopo l’ex Palladium, non puoi sbagliare, ci sono anche i paparazzi sotto che fanno i misteriosi. Noi però preferiamo i fumetti.

Per cena il nostro facoltoso ospite ci porta nel miglior ristorante di sushi della città, Sasabune. È talmente sofisticato che se non segui le indicazioni del cameriere e metti la soia dove non ci va il cuoco fa seppuku sul marciapiede.

La notte sogno di trovarmi in fondo alla Quinta Avenue e di dover arrivare in cima e sono scalzo e la metro non funziona e piove e tutti i taxi sono pieni tranne uno che però lo guida Godzilla. Forse ho mangiato troppa salsa wasabi.

(continua)

Insomma che niente, vado a dormire, mi sveglio oggi ma più tardi e scopro che dopodomani prendo la macchina il treno l’aereo la metro l’ascensore e non dormo più per quindici giorni, che nella città che non dorme mai anche schiacciare una pisa in un angolino, così di nascosto, mentre son tutti girati, fa brutto, e se c’è una cosa che in quel posto lì non va mai fatto è far brutto, che in quel posto lì son tutti tirati e fighi anche quando non fanno niente di speciale, che a te sembra che non facciano niente di speciale, ma in realtà loro stanno facendo qualcosa che altrove non si potrebbe mai: stanno facendo niente di speciale in un modo figo, e provaci un po’ a Ronco se ci riesci, che già andare in stazione coi capelli arancioni ti rende argomento di conversazione per una settimana e ancora dopo due c’è gente che ti saluta guardandoti sopra la fronte, si vede che la Pietrina non gli basta a questo paese di tricoconservatori.

La prima cosa che devo fare una volta di là è alzarmi a un’ora decente e incontrare i miei cognati mia cognata e il cognato della mia fidanzata tutta la cognateria sotto l’arco dove Harry capisce che non può vivere senza Sally che poi torna indietro di corsa e si fa tipo due tre boroughs che è una cosa che da noi fa strillare la milza solo a pensarci, come se io andassi a lavorare correndo, ma te l’immagini, un’infortunio sul lavoro al giorno sempre che riesca a raggiungere il cancello della ditta. Comunque ci si dovrebbe vedere là, e spero che tardino un po’, così vado a farmi subito la foto davanti a casa di Martin Mystère e poi me ne faccio anche una nella via di Bob Dylan abbracciato alla fidanzata che però sarà difficile che sia disponibile dato che è morta, vorrà dire che mi porterò la mia da casa, vedi che a viaggiare con del bagaglio extra alla fine torna utile.

Sto scrivendo in modalità fullscreen, che è una cosa che sembra di scrivere su un foglio, è anche bello da vedere, senza margini e colori di sfondo, tutto bianco, come battere a macchina una nuvola, chissà quando piove le macchie d’inchiostro che lascia sulle lenzuola stese.

(continua)

Ochei, ho pagato l’Esta, che sarebbe quella tassa che devi pagare se vuoi andare negli Stati Uniti per turismo, e insieme ho compilato il breve questionario che serve ai funzionari della dogana per inquadrarti meglio: “Vuoi venire negli Stati Uniti per commettere genocidi?”, “Sei appestato?”, “Hai intenzione di restare qui a fare un cazzo a spese dello stato?”, se rispondi no a tutte le domande puoi pagare quattordici dollari, ma ti avvisano che una volta arrivato là potranno decidere comunque di rispedirti a casa tua, metti che ti presenti alla dogana dell’aeroporto con una maglietta raffigurante la mamma del doganiere con un grosso vibratore fucsia infilato in gola. Non lo so dove l’hai comprata, ma hai l’aspetto di uno che potrebbe avercela una maglietta così, e metti che la stai indossando proprio il giorno del tuo arrivo al JFK. Potresti incorrere in fastidiosi grattacapi.

Io una maglietta così non ce l’ho, credo che ti lascerò sbrigare tutte quelle noiose formalità che richiedono le braghe calate e un guanto in lattice, e mi fionderò nella caotica vita della metropoli.

A New York voglio vedere:
* Il Flatiron Building * La casa di Martin Mystère * Il Palazzo della Marvel * Quello della DC * La panchina di Manhattan * Il ristorante dove pranza sempre Kingpin * La caserma dei vigili del fuoco di Ghostbusters * Il MOMA * La Statua Della Libertà * Il museo di Ellis Island * Il luna park fantasma di Coney Island * La portaerei, che va bene contro la guerra, ma un bestione così chi l’ha mai visto * Il graffito di Joe Strummer * La sede di Tumblr * Il Palazzo Di Vetro * Il Metropolitan Museum * Il più grande negozio di fumetti della città..

Insomma, per me New York è prima di tutto cinema, fumetti e cazzate, perciò voglio dedicare la mia visita a queste tre cose prima di tutto il resto. Poi certo, i musei, Les Demoiselles d’Avignon, dev’esserci anche un grosso Renoir in giro per la città, se non ricordo male. E a dirla tutta una sera suona pure B.B. King, e vuoi saltarti il re del blues? Però voglio fare il turista nerd nella città più nerd che conosco.
Accetto anche suggerimenti.

Le pratiche per ottenere il visto per gli Stati Uniti sono lunghe e difficili, soprattutto quando devi partire da zero col passaporto. Molto difficili. Così difficili che se ne fa cenno in antichi testi greci, in merito alle dodici fatiche di Ercole quando il semidio, dopo avere sconfitto l’Idra di Lerna, partì alla ricerca di una cabina per fare le foto certificate.

Dai documenti forniti dalla Questura pare che la foto debba avere caratteristiche specifiche, non devi avere il cappello in testa, fare smorfie, sorridere, essere serio, incazzato, guardare dall’altra parte, avere gli occhiali storti, pensare ai cazzi tuoi, esserti alzato tardi e devono essere trascorse almeno tre ore dall’ultimo pasto.

Gli apparecchi abilitati a questo tipo di documenti ti fanno la foto e poi la limano, correggono tutti i difetti e infine stampano una riproduzione di te che somigli a Liz Taylor e quasi quasi per natale ti regali un lifting. Oppure divorzi.
A Genova cabine prodigiose ce ne sono poche, una in stazione Principe, ma ci è andata ad abitare una famiglia di tunisini, non vedono di buon occhio gli sconosciuti che si fanno la foto nel loro soggiorno; qualcuno dice che un altro apparecchio si trovi in centro, ma non si sa bene dove, chi dice in Corso Torino, chi in Piazza Dante, chi sostiene di averlo visto in Via XXV Aprile in una notte di plenilunio.

Per fortuna nei giardinetti di Busalla ce n’è una in buone condizioni, ed è lì che mi trovavo ieri sera dietro insistenza della fidanzata, il Subcomandante Marzia.

“Ma sei sicura che non vada bene una foto qualsiasi?”
“Dobbiamo affidare le pratiche per entrare nel Paese più paranoico del mondo al corpo più inaffidabile d’Italia, sei davvero sicuro di volerti fidare?”
“Beh.. in effetti..”

Fuori dalla cabina staziona un “losco figuro da Lonely Planet” (la guida più venduta nel mondo nutre un vero e proprio terrore verso gli individui che camminano a testa bassa nei quartieri meno frequentati, li addita spesso come malintenzionati e vi consiglia di non uscire con del denaro in tasca. Tuttalpiù, se volete prendervi un caffè, potete sempre ricorrere al borseggio), ma non abbiamo timore, perché abbiamo portato con noi il Feroce Jack, la belva sanguinaria, terrore delle postine, incubo dei gatti, che però adesso tira come un dannato per andare a correre in mezzo alla strada.
Astuto come una faina non l’ho detto, vero? Beh, c’è un motivo.

In ogni caso non mi fido, anche se il tizio col cappuccio della felpa tirato su sembra più un bimbominkia che gioca col cellulare potrebbe essere un subdolo rapinatore che ha applicato alla cabina un dispositivo che spruzza un potente narcotico quando premi il bottone verde, così da poterci addormentare e poi spogliarci dei nostri beni in tutta tranquillità. Mando avanti Marzia, in fondo se siamo qui è colpa sua.

Mette i soldi, schiaccia il bottone, segue le istruzioni, si mette in posa, rischiaccia, aspetta, non perde i sensi, bene! Quando esce e mi mostra il risultato ho la prova che quell’apparecchiatura è prodotta da qualche centro estetico: l’espressione neutra di Marzia è la stessa di un bulldog cui abbiano tirato indietro le guance, ma nella foto che tiene in mano c’è Liz Taylor ai tempi di “La Gatta sul Tetto Che Scotta”, con tanto di occhi viola.

“Incredibile!”, esclamo, “Ti ha raddrizzato gli occhi!”
“Eh si, ha corretto anche quel lieve difetto al naso che..”
“E quell’orrendo porro che hai in mezzo alla fronte non c’è più! E neanche la mascella sporgente! E i pelazzi neri a unire le sopracciglia! E i brufoli! E i capelli unti! E..”
“La pianti?”

Mi siedo sullo sgabello con la fiducia di una casalinga che vota forzaitalia perché gliel’ha detto Ambra in televisione, ma quando esco ho la faccia della stessa casalinga diciassette anni più tardi.
Nelle foto che tengo in mano non ci sono io, la persona che è ripetuta otto volte in diverse misure ad alta definizione non mi somiglia neanche un po’. È Liz Taylor. Come sarebbe oggi se ne riesumassi il cadavere.

“Spero che la polizia me la accetti lo stesso.”
“Spero che la polizia non ti arresti come sospetto terrorista.”

Le pratiche per ottenere il visto per gli Stati Uniti sono lunghe e difficili, soprattutto quando devi partire da zero col passaporto. Molto difficili. Così difficili che se ne fa cenno in antichi testi greci, in merito alle dodici fatiche di Ercole quando il semidio, dopo avere sconfitto l’Idra di Lerna, partì alla ricerca di una cabina per fare le foto certificate.

Dai documenti forniti dalla Questura pare che la foto debba avere caratteristiche specifiche, non devi avere il cappello in testa, fare smorfie, sorridere, essere serio, incazzato, guardare dall’altra parte, avere gli occhiali storti, pensare ai cazzi tuoi, esserti alzato tardi e devono essere trascorse almeno tre ore dall’ultimo pasto.

Gli apparecchi abilitati a questo tipo di documenti ti fanno la foto e poi la limano, correggono tutti i difetti e infine stampano una riproduzione di te che somigli a Liz Taylor e quasi quasi per natale ti regali un lifting. Oppure divorzi.
A Genova cabine prodigiose ce ne sono poche, una in stazione Principe, ma ci è andata ad abitare una famiglia di tunisini, non vedono di buon occhio gli sconosciuti che si fanno la foto nel loro soggiorno; qualcuno dice che un altro apparecchio si trovi in centro, ma non si sa bene dove, chi dice in Corso Torino, chi in Piazza Dante, chi sostiene di averlo visto in Via XXV Aprile in una notte di plenilunio.

Per fortuna nei giardinetti di Busalla ce n’è una in buone condizioni, ed è lì che mi trovavo ieri sera dietro insistenza della fidanzata, il Subcomandante Marzia.

“Ma sei sicura che non vada bene una foto qualsiasi?”
“Dobbiamo affidare le pratiche per entrare nel Paese più paranoico del mondo al corpo più inaffidabile d’Italia, sei davvero sicuro di volerti fidare?”
“Beh.. in effetti..”

Fuori dalla cabina staziona un “losco figuro da Lonely Planet” (la guida più venduta nel mondo nutre un vero e proprio terrore verso gli individui che camminano a testa bassa nei quartieri meno frequentati, li addita spesso come malintenzionati e vi consiglia di non uscire con del denaro in tasca. Tuttalpiù, se volete prendervi un caffè, potete sempre ricorrere al borseggio), ma non abbiamo timore, perché abbiamo portato con noi il Feroce Jack, la belva sanguinaria, terrore delle postine, incubo dei gatti, che però adesso tira come un dannato per andare a correre in mezzo alla strada.
Astuto come una faina non l’ho detto, vero? Beh, c’è un motivo.

In ogni caso non mi fido, anche se il tizio col cappuccio della felpa tirato su sembra più un bimbominkia che gioca col cellulare potrebbe essere un subdolo rapinatore che ha applicato alla cabina un dispositivo che spruzza un potente narcotico quando premi il bottone verde, così da poterci addormentare e poi spogliarci dei nostri beni in tutta tranquillità. Mando avanti Marzia, in fondo se siamo qui è colpa sua.

Mette i soldi, schiaccia il bottone, segue le istruzioni, si mette in posa, rischiaccia, aspetta, non perde i sensi, bene! Quando esce e mi mostra il risultato ho la prova che quell’apparecchiatura è prodotta da qualche centro estetico: l’espressione neutra di Marzia è la stessa di un bulldog cui abbiano tirato indietro le guance, ma nella foto che tiene in mano c’è Liz Taylor ai tempi di “La Gatta sul Tetto Che Scotta”, con tanto di occhi viola.

“Incredibile!”, esclamo, “Ti ha raddrizzato gli occhi!”
“Eh si, ha corretto anche quel lieve difetto al naso che..”
“E quell’orrendo porro che hai in mezzo alla fronte non c’è più! E neanche la mascella sporgente! E i pelazzi neri a unire le sopracciglia! E i brufoli! E i capelli unti! E..”
“La pianti?”

Mi siedo sullo sgabello con la fiducia di una casalinga che vota forzaitalia perché gliel’ha detto Ambra in televisione, ma quando esco ho la faccia della stessa casalinga diciassette anni più tardi.
Nelle foto che tengo in mano non ci sono io, la persona che è ripetuta otto volte in diverse misure ad alta definizione non mi somiglia neanche un po’. È Liz Taylor. Come sarebbe oggi se ne riesumassi il cadavere.

“Spero che la polizia me la accetti lo stesso.”
“Spero che la polizia non ti arresti come sospetto terrorista.”