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La seconda parte della vacanza comincia alla piazza Charles De Gaulle, quando esci dalla metropolitana e ti trovi di fronte all'Arco di Trionfo.

 

 

È una bella abitudine questa dei parigini, di costruire i monumenti proprio all'uscita delle metro, che arrivi in cima alle scale e ci resti basito, come gli avventori al bar di Amèlie.

Che poi a me l'arcdetrionf neanche piace, così napoleonico, aquile dappertutto foglie fasci edere gentechesinchina, è più fascista dell'architettura fascista, che quella un po' mi piace, così squadrata e priva di gusto da finire per essere la caricatura di uno stile, o forse è perché mi ricorda gli sfondi dei fumetti di Krazy Kat.

Veniamo giù per gli Champs Elysèes con la ferma intenzione di visitare le Galeries Lafayettes prima di entrare al Louvre, che Marzia se non vede due scarpe non quieta.

Eccoci all'Elysèe, non c'è traccia dei grandi magazzini né di Carlà, proviamo ad andare avanti.

Questo è il Grand Palais, dove è allestita la mostra di Monet di cui sono andati esauriti i biglietti appena è cominciata. E i Lafayettes? Saranno dopo.

Ecco il Petit Palais, che i marinai considerano molto più importante del fratello maggiore perché una delle stelle che lo compongono indica sempre il nord. Ma i grandi magazzini non ci sono. E si vede che sono più avanti.

Ed eccoci in Place De La Concorde, e di gallerie lafaiette neanche l'ombra,nè di Carlà, né delle sue scarpe. Marzia è inferocita, ha appena scoperto sulla mappa che si trovano tutti in Boulevard Haussmann, a due passi dall'Opèra, c'eravamo ieri, stronzo!Vorrebbe farmi ripercorrere gli Sciampi di Elisa a calci in culo fino all'Etoile, ma ha male a un piede e c'è da visitare il Louvre.

Il Louvre in breve è impossibile, ma ci si prova. Intanto salti la coda facendo il biglietto alla FNAC, ed è più di un'ora risparmiata. Poi decidi che non vedrai alcune sezioni, fa male ma è necessario. Ho visto uomini più forti di me smarrire la ragione e aggirarsi per la Grande Galerie alla ricerca di un tabacchino, un altro ha aspettato tanto di trovarsi al cospetto della Gioconda che per sopravvivere si è mangiato i figli e poi si è venduto i loro iPod, e voi state ancora al Conte Ugolino.

Del Louvre mi è piaciuto:

  • la risata della signorina al ristorante quando mi ha elencato i contorni: “riz, frites..” e le ho risposto preparatissimo: “Oui, riz frite est parfait!”;

  • l'emozione di trovarmi da solo di fronte a un capolavoro assoluto: Fulmine Divino Contro Il Terribile Uomo Talpa;

  • le scale per accedere ai piani superiori, da cui un tempo scendevano donne dalle gonne ampie e la pelle d'oca, che riscaldare un palazzo di quelle dimensioni non era impresa da poco;

  • la ressa pazzesca davanti alla Gioconda non mi è piaciuta, ma mi ha permesso di godermi un paio di quadri nella stessa stanza senza turisti a sgomitarsi la prima fila, quindi alla fine mi è piaciuta anche lei;

  • le due tele di Gericault e Delacroix, la Zattera della Medusa e soprattutto La Libertà Che Guida Il Popolo, una accanto all'altra per ragioni che la mia professoressa di arte saprebbe spiegare meglio di me, io mi limito a starci davanti e sospirare;

  • la competenza della mia guida, di fronte alla quale ho saputo solo mostrare le mie doti di cazzaro descrivendo “Gesù Alza Le Mani Su Un Tizio”, che fra l'altro non è neanche mia;

  • la vetrina con le armature dei gladiatori, che mi hanno riportato ai fumetti di Asterix, e voi tenetevi pure Bisteccone Rasselcrò;

  • la cortesia della signora che mi ha ricordato che per usare il cavalletto occorre un'autorizzazione apposita. Ochei, però erano già due ore che me lo portavo appresso per le sale e almeno dieci minuti che stavo lì a misurare le distanze fra me e la Venere di Milo, avrei avuto tutto il tempo di andare là e staccarle la testa, mi pare che il Louvre in quanto a misure di sicurezza lasci un po' a desiderare.
    Ti controllano all'ingresso, neanche troppo, giusto lo zaino nello scanner come all'aeroporto, ma se hai dell'acquaragia nella bottiglia d'acqua non gli frega, e intanto dentro l'unica opera davvero sorvegliata è la Gioconda, se volessi buttare giù a spallate il Codice di Hammurabi non so se riuscirebbero ad impedirmelo. Si vede che i vandali di solito ambiscono solo all'eccellenza.

Del Louvre non mi è piaciuto:

  • la gente che fa le foto col flash sbattendosene dei divieti. Le tele si deteriorano, e siccome le tele esposte sono di tutti sono un po' anche mie, ed è quindi normale che ogni volta mi venga voglia di ficcarla in gola al proprietario, la macchina fotografica;

  • quelli che si mettono in posa davanti alle opere. Li schifo in generale, ma specialmente le donne, che si mettono di tre quarti e fanno la faccia maliziosa, sfoggiano sorrisi sornioni come se ti mostrassero il completino sexy appena comprato a Pigalle, mentre alle loro spalle accade di tutto: Giuditta decapita Oloferne, eserciti si sbudellano, crollano imperi, si versano fiumi di sangue, si compiono tragedie inenarrabili, e loro sempre lì, con l'espressione più ambigua che sanno inventare.
    Sono dappertutto, al cimitero appoggiate alla tomba di Baudelaire, al museo davanti a Marat assassinato nella vasca, agli Invalides sotto il sarcofago di Napoleone, sono sempre presenti e cercano sempre di sedurre il fotografo. Si vede che lui si eccita solo così.

  • Ma anche quelli che non ci si mettono, in posa, e stanno così, amorfi, le braccia lungo i fianchi e la faccia inespressiva, e ricordano certi pescioni tenuti per la branchia dal pescatore sorridente davanti all'obiettivo.
    Anche loro sono stati pescati, in un certo senso. Il quadro è il pescatore col cappello verde pieno di ami, che sorride al fotografo, e loro non possono che starsene appesi a bocca aperta e occhio vitreo, al limite domandare alla fine “com'è venuta?”.


Il simbolo di Parigi ce lo siamo tenuto per ultimo.

Spassky consiglia di scendere al Trocadero e svoltare l'angolo per trovarsela di fronte tutta in una volta, bellissima e orribile e bellissima.

Anche la prima volta mio padre mi fece fare lo stesso percorso, e anche allora era una mattina appena dopo la pioggia. Ho svoltato l'angolo e sono piombato in un ricordo vecchio venticinque anni, solo che stavolta da Dante sono diventato Virgilio.

Spassky consiglia anche di portarsi in vacanza una compagna di viaggio che non soffra di vertigini, perché se per salire in ascensore bisogna farsi ore di coda è possibile affrontare le scale a chiocciola senza alcuna attesa, ma solo con qualcuno che non tema le altezze.
Già che ci siete ricordatevi di portare con voi antiinfiammatori e analgesici, che a camminare tanto si rischia la tendinite, ma non mi lamento, abbiamo fatto più strada dei fanti in Russia, un'altra avrebbe ceduto e sarebbe tornata in albergo.

L'Hotel des Invalides da solo non vale il biglietto d'ingresso, che se Napoleone aveva manie di grandezza mica da ridere Luigi XIV ne aveva il doppio, e se non ti interessa visitare il Musèe de l'Armèe (notevole, peraltro) finisci per pagare il biglietto solo per la tomba di Napoleone, un grosso muffin pettinato come il cugino fortunato di Paperino, o la testa di Betty Boop, e una volta che sei entrato e l'hai vista e hai notato la ragazza che ci sta in posa davanti con l'espressione sorniona non c'è più molto da fare. Resti lì dieci minuti, ti guardi il plastico dell'edificio, scendi nella cripta per riguardarla da sotto, noti un'altra ragazza in posa languida, al limite ti siedi e ascolti quel continuo rimbombo che arriva da qualche parte lì intorno e ti chiedi cosa sia. Booom! Booom! Sembrano salve di cannone, sarà mezzogiorno? Booom! Booom! Continuano, irregolari, forse è una sezione del museo lì accanto che proietta dei filmati, o qualcosa del genere.

Quando stai per uscire fermati un attimo all'ingresso e svelerai il mistero: è la porta a molla, quando si chiude sbatte, e il rimbombo viene amplificato dalla cupola della cappella. Suggestivo.

Da lì alla Gare d'Orsay non ci vuole molto, si fa tranquillamente a piedi, e si arriva al museo degli impressionisti dal retro, dove si trova un chiosco di giornali. Vende anche i biglietti d'ingresso senza sovrapprezzo, solo che non lo sa nessuno, ma non nessuno tipo che ci trovi una decina di turisti, nessuno tipo nessuno, tipo che arrivi e c'è lui che sbadiglia, e tu ti paghi i tuoi otto euri ed entri davanti al guardaroba, saltando la biscia chilometrica di persone che aspettano fuori al freddo.

Dal museo degli impressionisti usciamo scarsamente impressionati, tutto Monet è stato spostato al Grand Palais per una mostra di cui non si trovano biglietti da due anni prima dell'apertura, e anche gli altri capolavori sono sparsi per tutto il mondo. Vale comunque una visita, ma è un museo zoppo, ce lo giriamo in un'ora e mezza e abbiamo ancora il tempo di andare a fare shopping nei dintorni dell'hotel.

Due tre recensioni che neanche la Lonliplène:

HOTEL DU MOULIN: Piccolo albergo gestito da una famiglia di coreani, serve essenzialmente clienti di quella parte di mondo, tanto che le indicazioni nelle camere sono scritte in francese e in ideogrammi. Se siete di poche pretese il posto è molto pulito e il personale gentile, e Rue des Abbesses è una base fantastica per girare la città, con due fermate della metro a disposizione, o per rilassarsi fra brasseries e negozietti. È una strada frequentata più che altro da parigini, senza l'invasione di turisti e botteghe di souvenirs che trovate appena più in alto, nei pressi della Basilique du Sacre Coeur, o di sexy shop e locali ambigui che stanno appena sotto, in Boulevard de Clichy, in piena Pigalle.

L'unico neo dell'hotel è la temperatura delle camere, sempre che non vi disturbi svegliarvi di notte con le lenzuola che fumano.

Dopo alcuni giorni realizziamo che i servizi offerti dall'albergo non si discostano dall'essenziale: il personale non ha adattatori per la corrente (le prese francesi non hanno il terzo foro centrale), se ti senti male non hanno termometri per misurarti la febbre, non puoi mangiare in camera a meno che tu non stia morendo e non puoi mangiare nella saletta colazioni perché disturbi i clienti coreani che hanno pagato per la pensione completa.
Dovessi tornare a Parigi sceglierei sicuramente la stessa via, ma forse mi orienterei verso un altra sistemazione, tanto c'è abbondanza.

LES DIX VINS: Piccolissimo ristorante nella via che corre fra Rue des Abbesses e Boulevard de Clichy, di cui però non ricordo il nome. Lo staff è simpaticissimo, ed è composto dal cuoco, dal cameriere, dal barista e dal maitre di sala, tutti in un unico signore rotondetto che ride sempre. Il menu è identico tutte le sere, con 17.50 euri puoi scegliere fra quattro cinque entrèes, quattro cinque pietanze e altrettanti dolci, niente di elaborato, ma molto gustosi e ben presentati. L'esiguità del personale limita il numero dei clienti ammessi, se ci sono solo due persone entrate pure, se ce n'è una a un tavolo più un gruppo di dieci seduto un po' più in là lasciate perdere perché vi manda via, anche se gli altri tavoli sono tutti liberi.

LE RELAIS GASCON: Le insalate giganti piene di roba non sono un piatto che ordino spesso, in genere ti riempiono subito ma dopo un quarto d'ora hai più fame di prima, ma in questo ristorante specializzato in cucina del sud-ovest ne preparano certe veramente sostanziose, traboccanti di ingredienti e coperte da uno strato di patatine fritte tagliate à la Lucilla (a rondelle invece che a bastoncino). Se non amate la verdura potete provare uno dei numerosi piatti di carne, non so dirvi, ma a vederli passare sembravano ottimi.

IMPORTANTISSIMO! Non ordinate il gateau basque!

Può capitare che vi venga voglia di assaggiare quello che ritenete essere un dolce tipico della cucina basca, non ne sapete nulla e avete già mangiato parecchio, ma la curiosità è più grande dello stomaco. Può capitare che mentre aspettate vediate passare dolci carichi di panna montata, quelle fettazze che quando ti scendono nell'esofago sono letali come slavine, e vi sentiate male all'idea di doverne affrontare una.
Può capitare, però, che la cameriera vi metta davanti un dolce composto solo da fette di mela cotta, e che la sua vista vi rincuori e lo attacchiate subito con vigorose cucchiaiate.
A questo punto può capitare che l'altro cameriere, quello indiano, si accorga che vi è stata servita la tarte tatin al posto del dolce basco, e cerchi di rimediare togliendovi il piatto da sotto, ma il gateau basque è una di quelle cose micidiali di prima, e non volete mica morire in un ristorante parigino, e poi avete già cominciato a mangiarlo e giurate al cameriere che va benissimo così.

Il cameriere, come detto, è indiano, ma in lui batte un cuore indipendentista, e accoglie il vostro rifiuto come un'oltraggio alla causa dei suoi fratelli baschi.
Oltretutto la tarte tatin costa 50 centesimi più dell'altra, stai a vedere che la differenza ce la deve mettere lui.
L'incidente diplomatico è evitato quando accettate di pagare voi il sovrapprezzo, ma ormai vi siete fatti un nemico in sala: vi butta davanti il conto senza chiedervi se vi vada un caffè, e dopo aver preso i soldi quasi il resto ve lo tira addosso.
Per fortuna dopo il dolce non vi rimane che uscire, se foste stati al primo rischiavate di farvi sputare nel piatto per tutta la cena.

LES DEUX MOULINS: Questo bistrot in Rue Lepic è meta di pellegrinaggio dall'uscita del film Il Meraviglioso Mondo Di Amèlie, girato in buona parte lì dentro, ma nonostante l'afflusso continuo di persone un posto a sedere si trova sempre.
La cucina è sufficiente, niente di memorabile, il cameriere è distratto e sbaglia quasi tutte le ordinazioni.

La vera delusione però è la crème brulèe, che traccia un solco profondo fra l'illusione della pellicola e la brutalità della realtà. Per appassionati.

E qui le foto:
 

Paris 2011

15/08/2010 Tipo 22 ore alla partenza.

Tipo, perché non lo so mica quanto tempo ci sia ancora da far scivolare sotto i piedi prima di metterli sull’airbus Tap che ci porterà a Lisbona, anche se so che al momento in cui chiuderò la porta di casa con lo zaino sulle spalle ne mancano molte meno.

Sono piuttosto nervoso, l’atmosfera intorno è di dimissioni, niente da fare, oziamo sbattuti di qua e di là in attesa di andarcene a dormire. Sono anche abbastanza disfatto, la sera precedente abbiamo tirato le tre e mezza a discutere con Lello di massimi sistemi, la religione, la misurazione del presente, il perché ci piacciono i videogiochi anche se non abbiamo più vent’anni, e ci siamo scolati due bottiglie di rosato; io ho anche finito il salame piccante che girava per il frigo, e forse è per quello che adesso il mio stomaco si comporta come uno squatter davanti alla polizia e se provo a mettergli del cibo davanti mi minaccia coi sampietrini.

Mi sento in disordine, per i bagordi, per aver dormito poco e male, per la partenza imminente, per l’ansia di aver dimenticato qualcosa. È il solito stato in cui mi dibatto prima di ogni viaggio, niente di serio.

I preparativi.

Zaino? Preso. Puzza di pisciodigatto! Uhm. Vabbè, lo puliamo. Zaino? Preso. Mutandeecalzini? Presi. Magliette? Prese. Calzoncini? Presi. Felpa? Prese due. Due? Ma non ne basta una? Metti che piove e si bagna. Ma se hai la giaccavento! Ah giusto, la giaccavento? Presa. Allora togli una felpa, vai. Pantaloni lunghi? Presi. Scarpe aperte? Sandali chiusi. Scarpe chiuse? Sandali chiusi. E basta? E se piove? Mi bagno, tanto asciugano. Ciabatte? Domani mattina le metto nello zaino, col rasoio, lo spazzolino e tutto il resto. La macchina fotografica e il cavalletto sono pronte, uno nello zaino l’altra nel bagaglio a mano, i caricabatterie li ho già messi via, quello del picino lo prenderò alla fine di questo resoconto serale, quando metterò via anche il mio diario di viaggio elettronico. Il quaderno e la penna sono già al sicuro nella tasca dello zainetto, che pigiare sui tasti è comodo, ma in giro voglio avere la carta.

La carta! Che carta? La carta di credito! Come la affittiamo la macchina senza carta di credito? Prendi la carta! E meno male che mi è venuta in mente, sennò dovevamo modificare completamente il nostro programma.

A quest’ora Lucilla e Alessandro saranno a Lisbona da ore, mi piacerebbe sapere cosa ne pensano, che impressione ne hanno avuto, ma dovrò aspettare domani sera, quando ci incontreremo alla fermata di Rossio, davanti alla vetrina di Tezenis, e andremo a cercare un posto dove cenare.

16/08/2010 Malpensa.

L’organizzazione delle ultime cose ci fa trascorrere la mattinata alla svelta, porto Jack in pensione dalla nonna e faccio già il check-in online, perché la tecnologia è troppo figa. Mio padre, per non venirci a prendere all’aeroporto la sera del ritorno, mi suggerisce di andare in macchina invece che in treno, non si spende molto di parcheggio, ed è disposto a pagarmelo lui.

Torno a casa tutto esaltato, “Marziamarzia! Posa i bagagli, andiamo in macchina! Invece di prendere il treno alle due abbiamo tutto il pomeriggio da trascorrere COME PIU’ CI PIACE!”.

Alle due e venti non ne possiamo più di stare in casa senza fare niente, e ci mettiamo in viaggio.

Ci fermiamo all’autogrill a fare benzina, e già che ci sono mi faccio controllare l’acqua, perché mi sa che non ce n’è, ma il benzinaio mi rassicura, il serbatoio è pieno, possiamo ripartire, e allora via, verso l’aeroporto della Malpensa! Via, verso le vacanze! Via, verso..

..La spia del motore si accende che non abbiamo fatto due chilometri, stiamo fondendo!!

Mi fermo e chiamo aiuto, il meccanico, il carro attrezzi, mio padre, la madonna e Gundam. Il meccanico mi dice di arrangiarmi, che lui di venirmi a prendere in autostrada ne ha per i coglioni, il carro attrezzi me lo manda la mia compagnia di assicurazioni, loro si che mi vogliono bene, ma ci metterà mezz’ora perché non ha ancora capito dove mi sono fermato. Come dove? Sotto il ponte davanti allo svincolo per la Gravellona-Toce, cosa ci vorrà a trovarmi? Sono in un’autostrada, mica nella giungla! Anche Gundam sembra avere da fare in un parco giapponese a qualche ora da Tokyo, e non può muoversi perché lo Shinkansen costa come un trapianto di reni. L’unico che corre al salvataggio del figliol prodigo è mio padre, che arriva e mi lascia pure la sua macchina per raggiungere l’aeroporto, mentre lui se ne starà lì sotto il viadotto numero 64 ad aspettare il carro attrezzi. Mi dice anche figliolprodigoinbelin, sono il solito deficiente che non controlla l’olio e vedrai che hai fuso il motore. Gli lasciamo 200 euri per pagare e ce ne andiamo, con Marzia che mi insulta perché anche secondo lei non ho controllato il livello dell’olio.

Non l’ho controllato perché ce ne ho messo un litro l’altroieri, cosa ci guardavo a fare?”

Conoscendoti, grazie a quel litro che ci hai messo adesso il livello dell’olio sarà salito a menodue, vedrai che hai fuso!”

Fatto sta che arriviamo alla Malpensa e parcheggiamo. Abbiamo anche una ricevuta di prenotazione online che dovrebbe garantirci uno sconto, ma non c’è nessuno a cui mostrarla, e i tempi sono un po’ stretti per andare a cercare qualcuno. Ci ripromettiamo di farlo al ritorno, andiamo al terminal e ci facciamo mezzo panino col salame a testa.

I baretti dell’aeroporto sono come quelli delle stazioni, vendono prodotti appena commestibili e se li fanno pagare come al supermercato di Slow Food, ma se non te ne porti da casa non hai alternative.

Su una poltroncina davanti al nostro ingresso aspettiamo che apra l’imbarco, e provo a cercare qualche connessione. Ne trovo due, quella dell’aeroporto e una privata, ma sono entrambe a pagamento. È un aspetto degli aeroporti italiani che proprio non mi va giù, ad Amsterdam potevo connettermi liberamente senza alcuna spesa o limitazione.

Per fortuna che per non farmi sentire troppo la mancanza del wi-fi hanno riempito il terminal di poltroncine scomode e distributori di panini di plastica, sennò mi sarei impuntato su questo problema fino a farne un dramma.

Comunque via, saliamo a bordo, gli aerei Tap sono comodissimi, almeno a giudicare dalla prima fila, e hanno addirittura una piccola televisione che ci mostra dove siamo, a quanto viaggiamo, qual è la temperatura esterna, che numero di scarpe porta la hostess, se è fidanzata, e dove gioca il portiere della nazionale portoghese. Quest’ultima informazione la conosco già, faccio cambio di posto con Marzia che vuole dormire e spalanca le fauci come l’ippopotamo per mostrarmi quanto. Tanto fare le foto è difficile, fuori dal finestrino è tutto nuvolo. Il terzo posto della fila è occupato da un signore brasiliano con la chiacchiera allegra, stiamo un po’ a fare qualche discorso, poi tutti e due accendiamo il portatile e ci isoliamo dal mondo. Sapere che noi nerd siamo così numerosi mi dà sicurezza, vuol dire che non mi troverò mai impelagato in una noiosa conversazione con degli estranei.

L’arrivo a Lisbona è previsto alle 21.00, ora locale, perciò alle dieci nostrane, perciò fra un paio d’ore. Se non passa la hostess col carrello pieno di leccornie azzanno il vicino.

Due parole sul pasto a bordo. Sul biglietto elettronico che ho ricevuto per posta c’era scritto che all’andata, con Tap, avremmo avuto un pasto, mentre al ritorno, con Lufthansa, sarebbe stato servito uno snack. Quando lo steward (e la hostess figa di prima?) mi ha presentato un panino e un dolcetto ho pensato che fosse l’antipasto, l’ho divorato in dodici secondi e ho chiesto il bis. Lo steward mi ha regalato uno sguardo pietoso e mi ha servito una tazza di brodazza che ha chiamato tè. Per fortuna che so che in Portogallo si mangia bene, sennò l’avrei implorato di riportarmi indietro.

Ultimo giorno di punti, quindi torno all’Inail a perdere mezza mattinata nelle sadiche mani del professor Mengele. Ho appuntamento fra le dieci e mezza e le undici e mezza, ma siccome il dottor Morte mi ha chiesto di essere lì un po’ prima per non ritardargli la pausa pranzo faccio in modo di palesarmi in sala d’aspetto verso le undici meno dieci. Faccio anche bene, che tanto prima di mezzogiorno e mezzo non mi riceve.
Probabilmente sono io che non capisco e immagino i medici chiusi nei loro stanzini a chiacchierare di calcio e bere caffè, col Secolo XIX davanti, in quei venti-quaranta minuti che passano fra l’ingresso di un paziente e il successivo. È che mi sembra inverosimile che ci voglia tutto quel tempo, se io stesso per farmi togliere quattro punti ci perdo meno di cinque minuti a botta.
Ma è certo il frutto della mia mente abituata a pensar male, la verità è che questi poveri schiavi del lavoro passano tutte le quattro ore giornaliere a ricucire sistemi nervosi spezzati, si sfiancano in delicati interventi a cuore aperto e i miei cinque minuti di scucitura sono l’unico svago che riescono a concedersi. Un monumento ci vorrebbe, altroché.

Esco che c’è il sole. Mi compro un panino merlino e uno alla salsiccia di cinghiale al Gran Ristoro di Sottoripa e me li vado a mangiare sugli scalini di Matteotti, ma è una sosta breve.

Nonostante il bel caldo e la posizione invidiabile sui passanti fra il figo e il bizzarro che escono dall’androne del palazzo preferisco dirigermi subito in stazione invece di provare il wifi gratuito del centro. È che non mi riesce di fermarmi a godere del presente, sono sempre proiettato verso qualcosa che deve arrivare, un posto diverso, qualcuno che non c’è. E poi dicono che viaggiare nel tempo sia impossibile. Come me lo chiamano allora questo muoversi sempre al di fuori del presente? Stamattina leggevo un articolo serio sui viaggi nel tempo, in cui si sosteneva che spostarsi all’interno della quarta dimensione crea una curva chiusa con delle sue regole precise, tipo che non puoi uccidere tuo nonno e sperare di non nascere più, o non spostare niente altrimenti Homer si troverà a vivere in una realtà paradossale che non ricordo bene, che quella puntata l’ho vista tanti anni fa. Il discorso è da ampliare, io ne sono la prova.

Sul binario di Brignole ci sono due tizie che hanno deciso di condividere il mio spazio sulla panchina, e si sono messe una sulla mia e una su quella di fronte, per potermi disturbare meglio col loro chiacchericcio. Una si chiama Celestina come non so più quale papa, ed è nata il 18 maggio come lui. L’altra raccoglie l’assist dell’amica e le racconta di aver voluto chiamare sua figlia Celeste, ma suo marito insisteva nel volerla chiamare Bianca. E lei si impuntava, Celeste! E lui Bianca! Alla fine è nato un maschio, e l’hanno chiamato..

Avrei voluto intervenire e dire “Cartazucchero!”, ma rischiavo di farmi coinvolgere in una conversazione, e non avrei più potuto raccontare questo simpatico aneddoto. E poi era una battuta un po’ stantia.

Comunque l’hanno chiamato Andrea, perciò alla fine Cartazucchero sarebbe stato anche meglio come nome.

Prima di pranzo sono passato ai Grandi Magazzini Le Predon e ho finalmente venduto il mio libro a Lucilla, dopo settimane che mi tampinava con messaggi sul cellulare, telefonate a qualunque ora del giorno e della notte, email lunghissime e alla fine anche qualche minaccia. Mi sono sentito una puttana a farmi dare i 10 euri del prezzo di copertina, nonostante sia una gran scassacazzi è pur sempre un’amica, e non mi piace prendere soldi dagli amici; oramai dovrei averci fatto l’abitudine, li ho chiesti anche a mia nonna quando gliel’ho portato all’ospedale, il giorno prima che morisse. Poverina, le tremavano le mani mentre frugava nel portafoglio, raccoglieva le monete, le sparpagliava sulle coperte cercando di contarle. E come mi guardava quando si è resa conto che mancava un euro e settanta! Le ho detto che non importava, che sarei passato il giorno dopo a prenderli, e il libro gliel’ho lasciato lo stesso.

Aver saputo che sarebbe morta il giorno dopo mi sarei portato via almeno la bottiglietta di acqua minerale.

Coi dieci euri di Lucilla invece mi sono ubriacato come un poeta maledetto, ma non trovando bar che vendono l’assenzio a due euri a bicchiere li ho spesi tutti in boeri. Non so se alla fine stavo più male per il rum del ripieno o per la cioccolata nauseante. Che vuoi farci? Non si è mai sentito di poeti maledetti che si bruciavano l’esistenza in gelati al pistacchio, ho dovuto adattarmi, e poi si sa che la strada verso il successo è irta di ostacoli come i 4000 siepi.

A casa ho aspettato l’idraulico, che doveva controllarmi la vaschetta del bagno, ma ha detto che sarebbe arrivato tardi, lasciandomi il tempo di andare a comprare per la cena.

Ho preparato una suprème di pollo, che ha un nome parecchio ridondante per essere della carne bollita con la maionese, ma in fondo è colpa mia, devo smetterla di cercare le ricette su “In cucina con Ronald McDonald”.

Per non subire gli strali della cuoca di casa ho preparato in fretta un piatto di riserva, nel caso il primo non fosse andato a buon fine, e in quel momento è arrivato l’idraulico, tutto sporco di calce. Sta costruendo l’acquedotto appena fuori del paese, un’opera colossale visibile anche dallo spazio, con ponti a sei piani di arcate, statue raffiguranti Giove Pluvio e tutte le divinità minori, che lo spazio è tanto e solo con le maggiori non lo riempiva. Dice che vuole entrare nel guinness dei primati come l’idraulico che ha costruito l’acquedotto romano più grande del mondo, ma secondo me non glielo omologano, lui mica è romano, è calabrese.