Piazza Tien An Men, che poi sarebbe Tiān’ānmén, che poi non sarebbe neanche il nome della piazza, ma dell’edificio che su di essa si affaccia e costituisce l’ingresso principale alla Città Proibita, è stata la piazza più grande del mondo finché non ho scoperto che ne esistono altre sei molto più grandi di cui cui ignoravo l’esistenza, ma resta una piazza molto più importante di quelle sei piazze puzzone capaci solo di allargarsi a dismisura per due ragioni storiche.

Fu qui, infatti, che il 1° ottobre 1949, Máo Zédōng si affacciò alla terrazza, e come tutti i leader che si affacciano alla terrazza diede il via a un radicale cambio di gestione: via il Guómíndǎng e la sua cricca, che si rifugiò a Taiwan da dove proclamò la Vera Repubblica Cinese Di Cui Non Frega Un Cazzo A Nessuno, dentro il Partito Comunista Cinese e la sua cricca, che da allora trattano il Paese come una cosa loro esattamente quanto quelli di prima e di prima ancora e su e su fino all’Imperatore Giallo, padre di tutto il popolo cinese.

i parrucchieri cinesi sono persone davvero bizzarre (foto wikipedia)

Mao in cinese vuol dire gatto, e quando mai si è visto un gatto fare qualcosa per gli altri?

Poi non è vero, gatto si scrive , mentre il padre della rivoluzione si scrive , che vuol dire capelli, ma il discorso vale lo stesso: avete mai visto dei capelli fare qualcosa per gli altri?

La sua salma mummificata è esposta in un edificio al centro della piazza dove non mi hanno lasciato entrare perché, in quanto blogstar internazionale, sapevano delle mie posizioni critiche verso il governo cinese, e se credete alla versione ufficiale per cui ho tentato di entrare con lo zaino, proibito dal regolamento, siete dei gonzi.

Comunque ho visto le foto, non è niente che trent’anni di chirurgia estetica sulla faccia di Berlusconi non ci abbiano già mostrato.

Del secondo episodio importante avvenuto in piazza Tiān’ānmén ho già accennato: nell’aprile del 1989, in seguito alla morte del segretario generale di partito Hu Yaobang, considerato un riformatore, gli studenti accusarono l’ex leader Deng Xiaoping di averlo deposto perché contrario alla sua politica dittatoriale, e scesero in piazza per chiedere più libertà di informazione. Nello stesso periodo, in Unione Sovietica, Gorbaciov stava dando il via a quel processo che di lì a pochissimo avrebbe fatto svanire la Cortina di Ferro. Anche gli studenti di Pechino volevano essere parte di quella rivoluzione, e con loro anche alcuni membri del Partito. Hu Yaobang era stato uno di quelli, e da Segretario Generale aveva avviato un processo di modernizzazione del Paese che comprendeva più diritti per i suoi cittadini. Nel 1987 Deng Xiaoping, che pur non ricoprendo cariche centrali restava di fatto il padrone di casa, lo destituì fra molte polemiche, lasciando chiaramente intendere che lui con le riforme tutte le mattine dopo colazione, specie se stampate su carta non troppo spessa. Alla morte dell’ex Segretario Generale non si ebbe alcuna riabilitazione da parte del Partito, e questo, oltre a un generale malcontento, suscitò la protesta degli studenti, che presero a radunarsi in piazza Tien An Men davanti al palazzo governativo, pretendendo democrazia. Le proteste si estesero in tutta la Cina, si ebbero degli scontri, che aizzarono ancora di più i manifestanti e ne fecero aumentare il numero. Durante la visita del premier sovietico la piazza era assediata al punto che la delegazione dovette entrare nel palazzo del governo da un ingresso laterale. Il 19 maggio il vertice del Partito Comunista Cinese si riunì per imporre la legge marziale in città. Prima di allora una sospensione delle garanzie costituzionali e il divieto di raduni pubblici erano stati imposti un mese prima a Lhasa, in Tibet, in seguito a disordini che provocarono la morte di numerosi manifestanti.

qui è dove a Deng ha iniziato a stringere il culo (foto Getty)

Una misura estrema non viene mai praticata nella storia di uno Stato e poi due volte di fila in un mese, di cui una nel centro della capitale. Qualcosa stava decisamente scappando di mano.

L’allora segretario generale Zhao Ziyang, appartenente all’ala riformista del Partito, tentò di evitare che la situazione degenerasse, arrivando a incontrarsi con gli studenti e chiedendo loro di andarsene per la loro sicurezza, ma non venne ascoltato.

Era in corso una spaccatura ai vertici, e questa indecisione si rifletteva all’esterno: l’esercito era stato mobilitato, ma non sembrava intenzionato ad agire; stava in periferia, bloccato da più di un milione di cittadini che erano scesi in strada per manifestare il loro sostegno agli studenti in piazza. Pechino, in quei dodici giorni che seguirono la proclamazione della legge marziale, non sembrava più avere un leader.

Alla fine vinsero i falchi. Zhao Ziyang venne condannato agli arresti domiciliari a vita, e con lui tutti i riformisti del partito. Il 3 giugno l’esercito si fece strada con la forza e si presentò in piazza Tien An Men. Il resto lo sapete, ma se dovesse servire un ripasso questa è la testimonianza di uno studente la sera che i carri armati entrarono in piazza.

Per scrivere questo paragrafo mi sono letto un bel po’ di articoli dall’archivio di Repubblica di quei giorni. È un po’ triste notare come tutti i giornalisti di allora vedessero come inevitabile la vittoria della democrazia, magari a lungo termine. A trent’anni da quegli eventi, all’ultimo congresso del Partito, il “pensiero di Xi Jinping”, l’attuale presidente, entra di fatto nella Costituzione. Le sue teorie e i suoi progetti per il futuro sviluppo del Paese sono state inserite nella carta costituzionale come già avvenne per Mao e per Deng Xiaoping (ma per lui l’inserimento avvenne dopo la sua morte). Questo significa, fra le altre cose, che la sua posizione al governo si fa ancora più potente, che opporsi al suo pensiero significa andare contro la Costituzione e quindi contro il Paese, e che nessuno crede davvero che se ne andrà alla fine del suo mandato, come fecero i suoi predecessori, quando questo avverrà nel 2022.

Intanto l’anno scorso l’ultimo cinese a ricevere il Nobel per la Pace è morto in carcere, cosa che non succedeva dai tempi del nazismo.

cambio della guardia

Per entrare in piazza Tien An Men bisogna superare un controllo: c’è un gabbiotto in cui si entra a due per volta, ti controllano i documenti, ti fanno mettere lo zaino sul nastro e ti fanno passare. Quando ci sono arrivato io il giorno di Natale era pomeriggio, faceva molto freddo e iniziava a fare buio. Saremo stati quattro o cinque a superare il controllo, e a me è toccato un tizio giovane con la faccia simpatica che non indossava neanche la divisa. Mi ha chiesto qualcosa in cinese, gli ho risposto in inglese che non capivo, si è messo a ridere e mi ha lasciato passare. Ho notato spesso questa tendenza a liberarsi del problema facendo finta di non vedere, ma anche quando entri in metropolitana e c’è un funzionario con la paletta che dovrebbe perquisirti lo fa in maniera estremamente sommaria, e il suo collega allo scanner dei bagagli spesso dorme.

Verrebbe da chiedersi che senso ha mettere su un sistema di controllo così capillare se poi è solo di facciata, ma anche da noi la sicurezza viene sbandierata soprattutto a destra, e ormai la Cina di comunista ha solo il nome.

Peraltro il gabbiotto in cui avvengono i controlli si trova alla medesima altezza del punto in cui il rivoltoso misterioso fermò la colonna di carri armati, quel giorno là. Fa un casino contrappasso dantesco.

Essendo un luogo molto vicino a dove lavora la mia ragazza, e di conseguenza a quel regno del cibo di cui ho parlato la volta scorsa, la piazza è diventata una meta abituale. Ci sono tornato per visitare il Museo Nazionale, per entrare nella Città Proibita, e sopratutto per farmi i selfie stufi: in pratica mi metto davanti a un punto riconoscibile e mi faccio una foto mentre sbuffo o mi caccio due dita in gola. Manifestare il proprio disappunto in vacanza è sempre un momento di grasse soddisfazioni.

viva la revolución,
più o meno

In piazza Tien An Men c’è poco da scegliere, il punto più interessante è l’oleografia di Mao appesa alla Porta.

Quello che non mi aspettavo era che il mio gesto mi avrebbe fatto diventare una celebrità. I cinesi si fermavano a guardarmi, qualcuno mi indicava agli amici, qualcuno rideva. Diversi mi hanno fatto la foto. Se fra questi ci fosse qualche agente in borghese lo scoprirò quando andrò a richiedere il visto per tornare a Pechino, il prossimo agosto.

Lo so, avrei dovuto aspettarmelo, d’altronde sono una blogstar internazionale che ha preso posizioni durissime contro il governo cinese, e vedermi lì a sbuffare in faccia al simbolo stesso del Partito non poteva che essere interpretato come un gesto di sfida all’ordine costituito.

Li ho sentiti borbottare frasi di stima, chi elogiava la mia audacia, chi l’irriverenza.

“Oh, l’intrepido!”, dicevano. “Oh, il monello!”, “Oh, lanciostory!”. Questi ultimi non ho capito bene a cosa si riferissero, forse è un termine cinese per i dissidenti che hanno un blog su cui ogni tanto postano anche racconti di fantasia.

Il mio gesto di sfida avrebbe avuto un seguito? Sarei stato io la miccia che avrebbe fatto esplodere la nuova Primavera Cinese?

Dopo dieci minuti che non era ancora scoppiato niente mi ha pigliato freddo e me ne sono andato.

Passando nuovamente davanti al gabbiotto del controllo ho ritrovato il tizio di prima, che stava fumando una sigaretta. Mi ha salutato con un cenno della mano.

Un post condiviso da Pablo Renzi (@grugef) in data:


(continua)

Prima di partire mi sono documentato un minimo, ho comprato una Lonely Planet e fatto una lista delle cose che avrei voluto vedere, ma devo ammettere che non ci ho trovato niente di irrinunciabile, l’arte orientale non mi ha mai preso più di tanto. Quello che mi affascinava era la gente, come vive in una città che da sola è grande quasi come il Lazio (16.808 km² contro 17.232), governato da quella che di fatto è una dittatura. Ho letto un po’ di articoli per niente rassicuranti su quartieri demoliti dall’oggi al domani, persone arrestate, inquinamento feroce, temperature polari.

Quando sono arrivato alla fila per il controllo passaporti avevo in mente tutte queste cose, mi sono sentito indifeso, come se fosse bastato uno scazzo dell’addetto alla dogana per farmi chiudere in uno stanzino in attesa del volo di ritorno. E poi avevo mal di testa, il telefono inutilizzabile, un panino mangiato a bordo così cattivo che capisco quando la Russia cerca di abbatterli, gli aerei ucraini.

Dopo quella che mi è sembrata un’eternità la signora che mi ha controllato il passaporto è stata gentile, mi ha sorriso e liquidato in un attimo. Sotto la sua postazione cinque bottoni con le faccine mi permettevano di assegnare un giudizio al servizio ricevuto. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo a pigiare la faccia triste, forse mi avrebbero deportato? O avrebbero deportato lei? Nel dubbio ho scelto quella sorridente, e sono entrato in Cina.

Pablo Polo raggiunse il Catai dopo un viaggio assai avventuroso attraverso l’Ucraina e un sacco di paesi che finiscono in -stan.
Appena giunto chiese udienza all’Imperatore, che viveva a Pechino nella Città Proibita, ma la lista di attesa era lunga, e venne alloggiato presso la dimora di uno degli uomini più influenti del Paese, il Mandarino Yu.
Costui era un funzionario di grande potere e capacità, tanto che l’Imperatore gli aveva assegnato l’amministrazione di Shanghai, il porto più importante del regno, e lì si era trasferito.
Nella dimora pechinese stava sua nipote, la Clementina Yu, che si prese in carico l’ospite.

Il giorno di Natale mi sono svegliato da solo. Fuori, in cucina, stazionava il Coinquilino, una creatura mezza umana e mezza turca trasformata in statua di cera mentre cazzeggiava su youtube. È così da allora, occupa mezzo tavolo col suo portatile e fuma una sigaretta dietro l’altra per fedeltà al detto “fumare come un turco”. Quando ti serve il tavolo devi solo spostarlo un po’ più in là, lui non si oppone.
Comunicare non è stato facile, quando mi sono presentato mi ha risposto Yup, come Pippo. Ho pensato che fosse il suo modo di dire “sì vabbè, mollami che ho da fare” e non ho insistito. Inoltre Shasha mi aveva disegnato una piantina con le indicazioni per raggiungere la metropolitana, e in tasca avevo la mappa e la guida. Stavo in una botte di ferro.
Avevo anche solo venti euri nel portafoglio e ignoravo se il mio bancomat potesse funzionare in quella parte di mondo, ma avevo anche la carta di credito, e quella sono sempre tutti felici di prendertela e clonarla con comodo nel retrobottega.
Insomma, sono uscito, intrepido come Saturnino Farandola.

Alla luce del giorno il quartiere non sembrava male: vecchi palazzi, qualche edificio basso, un po’ di verde. Una scuola, una stazione della polizia, un supermercato, tutti collegati fra loro da un intrico di cavi rivestiti di gomma nera che un po’ seguivano la strada e un po’ la scavalcavano, raggomitolandosi contro le pareti come bisce. Non sapevo cosa ci passasse dentro, se elettricità o fili del telefono, ma facevano un bel po’ impressione.

Il palazzo dove abita Shasha è in centro, ma parlare di centro in una città così grande è un po’ vago.
Pechino si è estesa in cerchi concentrici intorno alla Città Proibita, che di fatto è il centro della città, la Zona 1. Tutto quello che ci sta intorno è diviso in aree più o meno circolari, delimitate da strade a scorrimento veloce del tutto simili ai raccordi anulari che circondano Roma.
La mia ospite vive nei paraggi di uno di questi stradoni, a ridosso della Zona 2. Da casa sua a Piazza Tien An Men ci vogliono 40 minuti a piedi, ma buona parte del percorso la impieghi per passare sotto lo svincolo e girare intorno alla “Torretta d’angolo sudorientale della città di Pechino” (北京城东南角楼), traduzione offertami da Google Traduttore quando ho cercato di capire cosa fosse quell’edificio che mi si stagliava davanti e mi ostruiva il passaggio.

tipo la casetta giocattolo che tuo nipote tiene in giardino, ma grande come il palazzo dove abita tuo cugino, ma non quello scemo, l’altro

Torretta, me la chiama. Ho visto caserme più piccole. Ma Pechino è un po’ tutta così, le dimensioni delle strade ti fanno sempre pensare a parate militari, le parate militari mi riportano sempre a Tank Man, lo sconosciuto in camicia bianca che il 5 giugno del 1989 fermò una colonna di carri armati lungo il Viale della Pace Eterna, come venne tradotto dai giornalisti. Il nome vero non so quale sia, ma era dove stavo cercando di arrivare quel pomeriggio di sole, ci lavorava la mia ragazza e avevamo una cena prenotata nel suo hotel.

Superata la Torretta mi si è aperta una strada piena di negozietti che vendevano cibo, fra cui uno con la stessa insegna bianca e rossa di KFC, ma al posto del colonnello Sanders c’era il Signor Lee, che vendeva noodles. Sul lato dove camminavo io, invece, due grossi alberghi internazionali.

Non era facile camminare così fuori dalla mia comfort zone: fermare sconosciuti, comunicare a gesti era qualcosa di cui avrei fatto volentieri a meno, ma c’ero costretto, non ero sicuro di trovarmi sulla strada giusta, e quando sei povero e impossibilitato a chiedere aiuto approcciare un passante e mostrargli la cartina diventa di colpo facilissimo. Mi stava anche venendo fame, ma non abbastanza da entrare in un ristorante e violentarmi così a fondo da dover gesticolare frasi come “cosa posso mangiare?”, “accettate il mio bancomat?”, “non so come altro pagare”, “la prego non chiami la polizia!”, “non è colpa mia, ho mangiato a mia insaputa”.

Fuori dalla stazione ho incontrato tre ragazze che parlavano italiano. Sembravano più perse di me, così mi sono avvicinato. Una viveva lì, stava accompagnando le sue amiche all’hotel, e quando le ho raccontato cosa stavo facendo mi ha offerto il suo telefono per chiamare Shasha. Ho rifiutato, volevo cavarmela da solo, dopotutto si trattava soltanto di camminare nella giusta direzione per mezz’ora, ma la verità è che mi faceva sentire come entrare in un ristorante e tentare una conversazione di cui sopra. Qualcosa di troppo difficile, o troppo esposto, o non lo so. Se lo sapessi non me lo porterei dietro da quando sono nato, credo.

Ho ripreso a camminare, e dopo poco ho trovato un bancomat, ci ho infilato la tessera dentro e quello me l’ha restituita dicendo sorry. E lì mi sono un po’ preoccupato.

mi spiace,
il pollo flitto è finito

Ma la cartina parlava chiaro, dalla stazione vai dritto fino a incontrare il grosso viale che ti porta a piazza Tien An Men, non puoi sbagliare. Dovevo solo fermarmi prima.
Ho ripreso la marcia, e dopo poco sono arrivato all’incrocio. C’era un vigile, gli ho mostrato la mappa, gli ho indicato il punto in cui pensavo di trovarmi, gli ho indicato me e lui. Ha capito e fatto di sì con la testa. Gli ho indicato dove dovevo andare, ha alzato un braccio e borbottato qualcosa mentre lo puntava di là. Perfetto.

Mentre camminavo sotto dei palazzi che per forma e dimensioni somigliavano a castelli futuristi osservavo le macchine che mi sfilavano accanto, lungo il viale a venticinque corsie che arriva in piazza Tien An Men e che onestamente non ho voglia di vedere come si chiama. A Pechino hanno tutti auto di grosse dimensioni, tre volumi, nessuna utilitaria, nessun fuoristrada. Non sono tutte berline lussuose, la maggior parte sembrano avere già una decina d’anni e appartenere a una fascia economica, ma a quanto pare non ci sono problemi di posteggio in questa città.
Oltre alle macchine un casino di scooter elettrici che ti arrivano dietro e non li senti, e vabbè, le bici. Le bici sono ovunque, le raccogli da terra o appoggiate ai muri, ci sblocchi il lucchetto col codice che ottieni via telefono e te la usi finché ti serve, poi la riblocchi e la molli dove capita; se c’è posto in uno dei portabici che trovi ovunque, o in un posteggio apposito, sennò contro un muro o in un’aiuola.
Lungo il mio avvicinamento alla stazione ne ho scavalcate diverse, mollate sotto la superstrada che ho dovuto aggirare, vicino a casa.

Alla metro di Dongdan ho trovato un’altra banca, e stavolta mi sono avvicinato alla macchinetta con fare meno smargiasso, per non intimorirla. Ha funzionato, sono riuscito a ritirare 1000 yuan, pagando per commissione solo un rene. 1000 yuan sono 128 euri, grossomodo.
Col cuore leggero di chi apre il bigliettino sotto il tergicristalli e scopre che è la pubblicità di un’immobiliare, mi sono arrampicato su per le scale dell’hotel dove lavora Shasha, un edificio gigante in vetro e acciaio con una grossa fontana davanti all’ingresso.

Lei era sulla porta, preoccupata come una mamma il primo giorno di scuola di suo figlio. Di più, come se la scuola fosse a dieci chilometri di distanza, raggiungibile solo a piedi attraverso un territorio soggetto a bufere di neve e abitato solo da lupi. Lupi stupratori, oltretutto. E malati di aids.

Quando mi ha visto ha detto “Ah, eccoti, ho telefonato a Eyup e mi ha detto che eri già uscito”.
Ah, quindi è il suo nome, non stava facendo dei versi.
Ci sono rimasto anche un po’ male, ma poi mi ha fatto cenno di seguirla nella food court.

L’hotel si trova in un edificio molto molto grande in cui è situato anche un centro commerciale lussuoso, suddiviso in tre piani. A quello inferiore, sotto il livello stradale, si trova la food court: un intero piano dedicato esclusivamente a ristoranti e take away. Considerato che l’edificio è 100.000 metri quadrati è come entrare in un ristorante grande un quarto della Città del Vaticano.

“Cosa vuoi mangiare?”, mi ha chiesto mentre entravamo in un recinto di banchetti fumanti.
“Qualsiasi cosa”, le ho risposto. Nel senso che volevo mangiare ogni piatto, assaggiare ogni pietanza, riempirmi ogni centimetro quadrato di stomaco con alimenti il più lontani possibile da quelli con cui mi nutro di solito. Mi sono guardato intorno con avidità, cercando una rivendita di esotismo, ma la mia ospite aveva già deciso dove portarmi, e mi ha fatto sedere a un tavolino appartato. Mi sono trovato davanti una zuppa con gli spaghetti, (汤面- tāngmiàn) in Oriente esistono migliaia di ricette per fare la zuppa con gli spaghetti, se non parli la lingua capisci di quale zuppa si tratta solo quando ci infili le bacchette dentro e tiri su qualcosa di solido. Può essere un pezzo di carne, una rana, un piede umano, la figurina di Bistazzoni che ti mancava per finire l’album. Insieme alle bacchette ti danno anche un cucchiaio, per il brodo e per aiutarti a tirare su meglio gli spaghetti, nel caso non fossi un mago con le bacchette.
“Scusate, ma io e le bacchette ci frequentiamo da anni, potrei eseguire un’operazione chirurgica a cuore aperto usando solo un paio di bacchette, la serie tv McGyver si è ispirata a me per la mia eccellente manualità, grazie”, ho sogghignato allontanando il cucchiaio, e mi sono lanciato sugli spaghetti come uno che ha appena fatto Milano-Pechino però a piedi e digiuno.

“Ehi guarda, c’è anche il mio bar preferito!”

Quando ho finito la cameriera ci ha sostituito il tavolo perché il nostro era da strizzare.

Anche la mia ragazza era fradicia, e puzzava di brodo. Oltretutto era in pausa pranzo, avrebbe dovuto tornare a lavorare e incontrare un ospite importante tipo il presidente dell’associazione Nemici Di Quelli Che Mangiano Il Brodo, e per questo era così incazzata che mi ha lasciato.

Per fortuna i camerieri cinesi, a differenza dei loro pari portoghesi, sono estremamente servizievoli, e appena la mia ormai ex ragazza ha lasciato il locale si sono presentati in due con una nuova ragazza sottobraccio e me l’hanno fatta sedere davanti.
“Questa è la sua nuova ragazza, signore”, mi ha spiegato la cameriera. “Per evitarle correzioni ai post precedenti gliene abbiamo trovata una con lo stesso nome, solo scritto diverso. Quella di prima si scriveva 沙沙, e indicava il suono che fa la pioggia quando cade, questo si scrive 杀杀 e vuol dire uccidi uccidi”.
Avrei dovuto stare più attento.

(continua)