E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

Che poi se lo chiedi a qualcuno con dei figli piccoli che ieri magari ha passato la notte a tenergli la fronte perché vomitavano a turno che sembrava una scena tagliata dell’Esorcista e stamattina ha dovuto alzarsi due ore prima per prepararli e portarli all’asilo prima di andare a lavorare, ti sentirai rispondere che due mesi a casa da solo sono un dono del cielo e che certe volte si ritrova a progettare di sterminare la famiglia a colpi d’ascia e poi andare a costituirsi così trent’anni di tranquillità in una cella non glieli leva nessuno, ma a me che figli non ne ho questi due mesi in cui l’altra metà della famiglia dovrà trascorrere dall’altra parte del mondo non sono sembrati tanto un dono quanto un impegno da prendermi con quelle piccole cose di cui di solito si occupa chi passa più tempo a casa, che di solito non sono io.

Tipo dare la pastiglia alla gatta, che abbiamo una gatta epilettica, cioè, non l’abbiamo presa così, ci è diventata dopo, vai a sapere perché, ma adesso due volte al giorno dobbiamo darle dei barbiturici per evitare che le vengano delle crisi e abbia una vita normale. Grazie a questa cura quotidiana sta bene, piccina, tranne quelle due volte al giorno in cui devo cacciarle un dito in gola, ma l’alternativa era accompagnarla alla chitarra e fondare i Joy Division. Devo averla già usata questa battuta, ma mi fa sempre ridere.

Oppure tipo prendermi cura di João, per cui la fetta più grossa dell’impegno richiesto viene via a cercare di non ucciderlo per tutta una serie di ragioni che non sto a elencare perché magari qualcuno mi sta leggendo durante i pasti.

O sostituire le cose che decidono di rompersi appena mi ritrovo da solo in casa e provo a sedermi sul divano, o rimettere in ordine, insomma, quella roba che conoscete bene se non abitate su un marciapiede.

Non avendo una vita particolarmente complicata, ritrovarmi da solo mi ha esposto a quella parte di doveri a cui riuscivo a sottrarmi, negandomi nel contempo il piacere di avere qualcuno accanto, che da sempre mi rende più sopportabile adempiere a tali doveri. Questo viaggio in Cina di 沙沙 non mi sembrava un affarone, era più uno schema Ponzi in cui io dovevo sbolognare tutti i miei impegni a qualcun altro per recuperare del tempo libero, tipo il cane a mio padre, pranzi e cene da mia madre, le pulizie di casa a un esorcista e la pastiglia della gatta a mia sorella. E io non lo conosco un esorcista, e mia madre cucina di merda.

Per fortuna, dopo due settimane, gli impegni casalinghi si sono rivelati più lievi del previsto. Quando torno a casa dal lavoro non c’è nessuno che mi dice che dobbiamo assolutamente andare a fare la spesa a diecimila chilometri di distanza perché è finito il concentrato di yak che vendono solo al supermercato di Lhasa e senza quello stasera salta la cena e ci tocca ordinare di nuovo la pizza di gomma, e il sabato posso passarlo finalmente a casa e non in giro perché mentre io uscivo tutti i giorni per andare a lavorare c’era qualcuno che aspettava proprio quel giorno per prendersi una boccata d’aria.

Adesso quando torno a casa ho un giardino di opportunità che mi sbocciano davanti, e devo solo decidere quale cogliere, e sono tutte così promettenti, così gonfie di divertimento per non essere state adeguatamente sfruttate nei mesi passati, da riempirmi non solo la giornata in corso, ma in prospettiva tutte le altre che dovrò ancora trascorrere a casa da solo.

Insomma, 沙沙 non mi manca affatto, se mi dicesse che deve fermarsi altri sei mesi perché quel coglione del suo presidente con la faccia da meme ha deciso di impedire a tutti i cinesi di espatriare per raddrizzare il PIL, le risponderei che mi dispiace, ma sotto sotto mi farei una risata, pensando a tutti i giochi e ai libri e ai film e ai fumetti che potrò consumare in pace in quel tempo regalato.

Poi però mi appare la sua faccia nel telefono che mi dice che le manco, e mi sorride perché è felice di vedermi, e io mi ricordo all’improvviso perché un giorno ho accettato di rinunciare a tutto il mio tempo libero per dedicarlo a una ragazza cinese con la faccia rotonda e gli occhi piatti, e quando chiudiamo la chiamata e lo schermo si ferma un secondo sul suo viso immobile e sorridente, io immagino il me stesso ventenne che se gli avessero mostrato quella faccia lì e gli avessero detto che un giorno del futuro quella faccia lì sarebbe stata sua moglie e lo avrebbe reso felice, io credo che il me stesso ventenne avrebbe trascorso gli anni successivi a sbattersene le balle di tutte le storie del cazzo che gli si sarebbero presentate davanti, avrebbe sorriso fino a farsi venire i crampi alla mascella e avrebbe dormito meglio, quindi oggi avrebbe meno rughe e meno capelli bianchi, e forse quella ragazza cinese lo amerebbe anche un po’ di più. Ma forse non esiste un di più, e questo è un bel pensiero con cui far passare due mesi, anche meglio di Fifa 23.

Venerdì
Il venerdì è un altro giorno di tempo mezzo e mezzo. Il piano è raggiungere l’Isola delle Correnti, il punto più a sud della Sicilia, stare un po’ lì a vedere che succede e poi andare a visitare Scicli, che io ho da cercare una cosa un po’ nerd, solo che alla rotonda sbaglio strada. È una cosa fra me e le rotonde, non riesco mai a imbroccare l’uscita giusta, una volta dovevo andare a Copenhagen per fidanzarmi con una bionda scandinava, e invece sono finito a Praga e ho finito per sposare una mora cinese. Non che mi lamenti eh, se avessi sposato una morra sarei finito nel vortice del gioco d’azzardo scrauso in locali malfamati dove uomini loschi con cicatrici sulla faccia ti puntano addosso pietre, forbici o fogli di carta, e se non sei abbastanza scaltro da prevedere le loro mosse finisci male.

Comunque sbaglio strada, mi infilo in autostrada e l’uscita dopo è a 15 chilometri, e a quel punto cosa fai, torni indietro? Già che siamo andati di qui arriviamo a Scicli e al mare ci andiamo dopo.
Scicli è splendida, una conca di pietra piena di case basse ricoperte di polvere gialla, sembra un villaggio western nascosto in un canyon. Somiglia un po’ a Modica, ma Modica è una versione di Scicli che ha fatto la guerra e poi è stata invasa dalle cavallette e non hanno più avuto tempo di rimettere a posto.
A Scicli c’è la statua dell’uomo vivo, il Cristo a cui Vinicio Capossela ha dedicato una canzone. È quella la cosa nerd che volevo fare, e non ce ne andiamo prima di averlo trovato, dentro una chiesa dove si è appena tenuto, indovina un po’, un matrimonio.

Con le tre dita tre vie pare indicare, nemmeno lui nemmeno lui sa dove andare

Appagati (io) e soddisfatti (sempre io) veniamo via, e ci concediamo il mare quotidiano. Anche perché nel frattempo il tempo è migliorato molto, e ne vale di nuovo la pena. Ci mettiamo in cammino per l’isola delle Correnti, la punta più a sud dell’isola, e per arrivarci attraversiamo la zona di Pachino, dove si coltiva l’omonimo pomodoro. Serre ovunque ti volti, tutte uguali, teli di plastica opaca da cui si intravedono piante basse, e tutto lungo la strada pubblicità di aziende agricole dai nomi molto vari, come Europomodori, Pomodoroni, Pomodorazzi, Superpomodori, Quiilveropomodoro, Carciofi…No scherzo pomodori.

Ci sistemiamo in uno stabilimento fighetto che non ha molto senso davanti a una spiaggia libera enorme e deserta, ma la presenza dell’unica doccia in zona e dell’unico bar ci sussurra all’orecchio cose malvagie come “Ma tanto siete in vacanza, dai. C’è un Cristo su uno scoglio che ci guarda a braccia aperte e dice “Ma vi pare che dovete pagare in un posto così?”. “Ma tanto siamo in vacanza, dai.”

Il lusso sfrenato di quel posto ci dà alla testa, e l’unico motivo per cui non mi metto a telefonare a mezzo mondo per parlare di lavoro con un forte accento milanese è perché lo sta già facendo il mio vicino di ombrellone e vorrei ucciderlo. Però ordiniamo due insalatone, ben consci del fatto che in Italia l’insalata è soggetta a un misterioso ricarico fiscale, per cui all’esercente costa al massimo un paio di euro, ma tu devi tirarne fuori almeno dieci e ricevere un piatto di lattuga delle buste dell’hard discount, scondita. Dato che ci troviamo nella zona di Pachino ci sono anche dei pomodorini, sconditi, anonimi, una tristezza che mi pervade il cuore e mi fa riflettere sulla caducità della vita.

Raggiungo a nuoto e a piedi l’isola di fronte alla spiaggia, ma più a piedi, che l’acqua in Sicilia è bassa per chilometri, tanto che alle Lipari ci vanno in bici. Poi mi inoltro lentamente sul sentiero che gira intorno al faro, facendo ahi ahi ahiahiahi quando pesto i sassolini, perché non indosso neanche un paio di ciabatte, e ahimadonnabufala quando pesto un cardo, che qui crescono rigogliosi.
E poi sono di là, a osservare il Mediterraneo che diventa Ionio, e ci sono solo io e il mare e il sole e le onde si infrangono pigre sugli scogli, e mi sento così piccolo di fronte a tanta maestosità che mi viene naturale farmi delle domande sulla vita, sull’universo, sulla grandezza del mondo e sulla piccolezza del mio pisello, e chiedermi se ci sono delle correlazioni e se gli allungapene sono davvero efficaci come promettono.
Torno indietro più ricco nello spirito, ma solo lì. Mi fanno male i piedi.

La sera andiamo a cena in uno di quei ristoranti che Hemingway definiva di secondo grado ma mascherati da ristoranti di primo grado, dove la pasta lascia un dito di olio nel piatto, ma la paghi come all’Osteria Francescana di Bottura, che fino a ieri credevo fosse il giornalista e mi domandavo perché avesse un ristorante e perché continuasse a fare il giornalista con quello che guadagna dalla sua seconda attività.

Sabato
Facciamo su armi e bagagli, dove per armi intendo una delle brioches monumentali della pasticceria Mangiafico, e andiamo a Catania. Il piano sarebbe di cazzeggiare fino alle cinque cinquemmezza, riportare la macchina all’autonoleggio e imbarcarci. Facciamo un giro veloce in piazza del Duomo, vediamo il mercato del pesce, ci spingiamo fino al teatro Bellini, ma quando entriamo a visitarlo mi chiama mia sorella e mi racconta che è scappato il cane. Di lì fino al ritorno a casa è solo ansia, ci buttiamo su una panchina a disperarci e facciamo venire l’ora di andare all’aeroporto vagando senza costrutto come zombi. L’unica cosa degna di nota è l’accampamento allestito fuori dall’aeroporto per fare rispettare le norme anti covid: fanno entrare solo nelle due ore precedenti alla partenza, praticamente quando inizia il check-in, così tutti si ammucchiano all’ingresso o sulle poche panchine all’esterno. Peraltro c’è solo un bagno, quello di un bar lì davanti, dove si assiste a scene di lotta degne di un film di gladiatori.

Ed è tutto, se sono qui a scrivere queste note è perché il cane lo abbiamo ritrovato il giorno dopo, sporco e stremato dopo due giorni di corse nei boschi sotto un temporale pazzesco. Passiamo tutti la domenica a dormire senza neanche disfare le valige, a quanto ci siamo divertiti ci penseremo lunedì.

Tutto è bene eccetera eccetera

Il Pablog sembra essere diventato preda dei bot, ma non quelli che si sparano a capodann, questi sono dei cosi elettronici che vengono a sbagasciarti il contatore delle visite e ti fanno credere che praticamente ogni giorno ci sia qualcuno che si legge la seconda puntata di un racconto in quattro parti, ma non le altre, solo la seconda, e poi vada a leggere un post vecchissimo e sconclusionato sul perché si mangia la crosta del formaggio scimudin. Ora io non lo so perché sia diventato un bersaglio delle intelligenze artificiali, sicuramente è colpa mia e della mia mania di toccare in giro, e non so quanto possano essere intelligenti delle entità elettroniche che decidono di venire a leggere il mio blog invece di comprarsi roba su Amazon e addebitarla a Bezos, ma se domani i robot cani e i robot corridori si ribellano all’uomo e iniziano ad autoprodursi in serie e in un attimo conquistano il pianeta, potrei avere delle chance di diventare il loro scrittore feticcio. Poi lo so che mi chiudono in una stanza e mi fanno scrivere duecento pagine al giorno come Misery, ma finché non succede me la immagino come una cosa figa.

Nella distopia che ho in mente sarei uno dei pochissimi umani ancora costretti a lavorare, perché le giornate lavorative non esisteranno più: non esisteranno più i lavori, i robot faranno tutto ciò di cui hanno bisogno, cioè produrre altri robot e farsi la manutenzione regolarmente, produrre elettricità con cui alimentarsi e tenere le strade libere dalla spazzatura che si accumula e impedisce di spostarsi da una fabbrica all’altra ai modelli che non sono in grado di volare.
Gli esseri umani saranno perlopiù disoccupati, dovranno arrangiarsi a procacciarsi il cibo e a non farsi trovare in strada quando passa il camion robot della spazzatura. A parte questo piccolo fastidio non avranno alcun motivo di temere le macchine, che li ignoreranno bellamente.
Tranne quando vorranno servirsi della tecnologia per migliorare la propria condizione, ovvio. Provaci un po’ a usare un phon che ti considera un essere inferiore.

Finché questa realtà distopica non si realizza, però, sono obbligato ad arrabattarmi nella mia nuova vita in cui sono rinato come la leggiadra farfalla dal bruco schifoso, che è molto meglio della prima e include una nuova casa, una nuova compagna e un nuovo lavoro (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei un poveretto), ma non mi permette di occupare ruoli importanti nella società dei robot, e quindi devo andare a lavorare come tutti dal lunedì al venerdì. Sono abbastanza libero di prendermi un paio di giorni di ferie da attaccare al fine settimana, e già questo rappresenta un grosso passo avanti rispetto alla mia occupazione precedente (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei anche un frustrato di merda), e per questo stavo pensando di farmi un weekend all’estero il prossimo gennaio.

E sì perché il prossimo gennaio compirò 50 anni, e dato che non sono mai arrivato a compierne 50 prima d’ora non ho ben chiaro come dovrei comportarmi.
Ricordo una tizia che conoscevo, una scrittrice parecchio brava, che oltre al talento aveva un sacco di amici e un ego spropositato, che per festeggiare il suo mezzo secolo aveva affittato un teatro e ci aveva messo in scena uno spettacolo di arte varia, invitando tutti i suoi amici scrittori e poeti a esibirsi sul palco, e band di studenti a suonare i loro pezzi, e alla fine aveva chiuso lei, vestita con una tunica bianca e una corona di fiori in testa, a suonare la chitarra e cantare una roba tipo We Shall Overcome, non mi ricordo, per allora ero già sotto l’effetto di stupefacenti che avevo iniziato ad assumere al sesto minuto da che si erano spente le luci, come lenitivo di quella gigantesca rottura di coglioni a cui non avevo avuto il coraggio di mancare.

Per un breve periodo anch’io mi sono cullato con l’idea di recitare in una cosa scritta da me e invitare i miei amici, ma poi ho pensato che sono già pochi così, e ho preferito inventarmi qualcos’altro.
Adesso, a due mesi dalla data fatidica, dovrei avere in mente cosa sarà, quel qualcos’altro, ma quando rivolgo il mio sguardo interiore alla casella in cui dovrebbero trovarsi le idee su cosa farò per il mio cinquantesimo compleanno ci trovo i ragni che si inculano.

Ho anche consultato un manuale di aracnidi per capire se è normale che si comportino così, ma nel numero che ho trovato in edicola si dipanava una vicenda molto complessa che aveva per protagonista un tizio vestito di spandex rosso e blu che combatteva contro un altro tizio vestito da leone, mentre la sua compagna, una modella fichissima, stava a letto a chiedersi dove fosse finito e se valesse la pena soffrire tanto per uno che usciva di casa conciato come un ultras genoano a una festa fetish.

Ne ho parlato con mia moglie (dei festeggiamenti per il compleanno, non di questa cosa dei ragni) e lei mi ha suggerito di fare un bel viaggio.

“Potremmo andare ad Amsterdam e drogarci fino a perdere conoscenza”, mi ha detto.
“Scusa, ma questa è la mia festa di compleanno, mica la tua. Se devo cominciare a drogarmi voglio fare come il nonno di Little Miss Sunshine e iniziare a settanta con l’eroina”, le ho risposto.
“E allora dove vuoi andare?”
“Non lo so, immagino che dovrei avere in mente un posto mitico che sogno di visitare da tutta la vita, ma non me ne viene in mente nessuno.”

Stavo mentendo, in realtà di posti così ne avevo e ho in mente almeno una decina, ma sono tutti:

1. Posti dove sarei voluto andare a vent’anni e adesso non rappresentano più niente, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
2. Posti dove sono già stato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
3. Posti che si trovano in Inghilterra, dove a mia moglie è richiesto un visto, tipo quella città dove si trova la casa di Freddie Mercury;
4. Posti verso i quali ho ricevuto un ordine restrittivo e non posso più avvicinarmi a meno di 500 metri senza essere denunciato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
5. Posti troppo lontani o troppo costosi, tipo Urano, che in inglese mi ricorda molto la casa di Freddie Mercury a Londra.

Poi pure essere che mi sbaglio e ne sto dimenticando qualcuno, ma bisogna tenere presente il fatto che la mia lista di posti da vedere assolutamente prima di morire l’ho compilata a sette anni sfogliando un volume dell’enciclopedia I Quindici che si intitolava Luoghi da conoscere e aveva tutte le foto in bianco e nero; per dire, uno dei posti era l’Atomium di Bruxelles, che venne inaugurato nel 1957 e negli anni in cui lo scoprivo sulle pagine del mio libro doveva già essere diventato un rudere ben diverso da come veniva descritto.

“Oppure potrei organizzare una bella cena con tutti gli amici!”, ho suggerito alla stanza vuota dopo che mia moglie se n’era andata a fare qualcosa di più divertente. “Sì, certo, come no”, ho aggiunto subito dopo, mentre l’entusiasmo mi scivolava di dosso come la sottoveste a Scarlett Johansson nella mia fantasia erotica preferita.

In breve tempo la domanda oziosa da cui ero partito si è trasformata in un dubbio esistenziale che mi mangia le caviglie e di lì risale attraverso il sistema linfatico per raggiungere gli organi più importanti e divorarseli uno a uno crudi e sconditi. Se non trovavo alla svelta un modo originale, memorabile e in grado di produrre una quantità di foto per instagram che mi valessero almeno un commento tipo “Nuoooh che figo che invidia madonna quanto vorrei avere anch’io cinquant’anni per festeggiarli in questo modo pazzesco ti prego scopami sui chiodi voglio essere il tuo/la tua schiavə sessualə, dove la schwa non ci wa ma ce la metto per fare la rima” avrei celebrato direttamente i 51, anzi, i 53 così mi sarei messo a posto anche con la smorfia napoletana.

Solo che all’anagrafe non me l’accettano il cambio di anno, dicono che devo celebrare gli anni regolarmente uno alla volta e che se volevo farmi modificare l’anno di nascita dovevo pensarci cinquant’anni fa e farmi concepire prima. “Casomai dopo”, ho detto all’impiegata. “Tipo vent’anni più tardi, così oggi avrei festeggiato i trenta con molta più saggezza in corpo e un aspetto molto più florido”.

Mi ha detto che vent’anni fa facevo cagare esattamente come oggi, e anzi, senza una donna che mi obbligava a vestirmi bene andavo in giro che sembrava che mi fossi introdotto in casa di Kurt Cobain il giorno che si è sparato e gli avessi fregato i vestiti, ma non quelli nell’armadio.

Ferito nell’orgoglio e ormai privo di aspettative, mi sono rassegnato a trascorrere il giorno del mio cinquantesimo compleanno da solo a casa, sebbene cada di venerdì e grazie a una rara congiunzione di fattori abbia a disposizione sia il tempo che il denaro per renderlo memorabile. E tutto per colpa di persone che non sono io, tipo il governo britannico che identifico per comodità nella figura del suo Primo Ministro Boris Johnson e tutta la stirpe di mia moglie che ha deciso di mettere le radici in un posto che sta sul cazzo al governo inglese, e che per comodità identificherò nella figura di Jackie Chan, che poi è anche la prima persona a cui pensi quando vedi la cugina di mia moglie coi capelli a caschetto.

Ferito nell’orgoglio e privo di aspettative e incazzato col resto del mondo, ho acceso tutte le luci di casa e ho messo i condizionatori a palla, così in un paio di mesi il riscaldamento globale supera la soglia di irreversibilità e arrivato gennaio non sarò più l’unico disperato nei dintorni, andatevene tutti affanculo.

Sugnu sempre alla finestra e viru genti spacinnata
Sduvacata ‘nte panchini di la piazza, stuta e adduma a sigaretta

Gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata
Genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa

Martedì
Ormai fare colazione a brioche enormi e arancini alla pasticceria Mangiafico è diventato un rito, e con gli occhi ormai abituati al banco dei dolci riusciamo a notare anche qualche particolare della clientela seduta ai tavolini intorno: sono tutti ciccioni da queste parti. E chissà perché, mi chiedo, mentre addento un cornetto che sarà mezzo chilo, così pieno di crema che se me ne avessero servito un secchiello in cui galleggia un po’ di panbrioche le proporzioni sarebbero rimaste le stesse.

Oggi facciamo i turisti, almeno per un po’, e ce ne andiamo a Noto, una delle capitali del barocco siciliano, che da queste parti ha un sacco di capitali, manco fossimo in Sicilia. Noto sta a due passi ed è oggettivamente bellissima, ma i negozi per turisti rendono tutto mediocre, sembra di stare di nuovo a Cefalù. O a Roma. O a Parigi. Vabbè, ci siamo capiti.
Non è una città molto grande, soprattutto considerato che una volta usciti dalla via principale del centro storico non c’è più niente di interessante da vedere. Ce la sbrighiamo in un’oretta, poi decidiamo che i turisti sono noiosi, soprattutto l’hipster (ma esistono ancora?) conciato come un riassunto delle due Guerre Mondiali: ha i baffi a manubrio stile impero asburgico, il taglio di capelli da cancelliere nazista, i pantaloncini dell’uniforme degli Africa Korps e una camicia che era già passata di moda nel 1918.
Lo accompagna sua madre, decrepita, un residuo bellico, di cui lui si serve come di uno sherpa, obbligandola a trasportare una grossa borsa da fotografo, mentre lui si spara le pose marziali davanti alla scalinata di una delle numerose chiese lungo la via.

Andiamo al mare in una riserva naturale che sta alla fine di un lungo sterrato pieno di buche, dopo un posteggio abusivo che neanche ti garantisce una sorveglianza minima, e dopo aver pagato un biglietto di ingresso. Ne vale comunque la pena, la spiaggia di Eloro è un piccolo tesoro, quasi deserta, così pulita e tranquilla che vengono a deporci le uova le tartarughe.
Non ci sono, non ne vediamo neanche una, ma c’è un piccolo recinto rotondo delimitato da stecchi, con un cartello che ci avvisa di non calpestare quella piccola zona di spiaggia, in quanto vi hanno deposto le uova le caretta caretta, le tartarughe che abitano questa parte di Mediterraneo.
Non vediamo neanche le uova, a meno che tutti quei pezzettini di roba bianca non siano quel che resta dei gusci dopo la schiusa.
Dopo un po’ arrivano due ragazze tedesche, e una si mette in topless, attirando l’attenzione di un autoctono, che le si piazza sfacciatamente davanti e finge di armeggiare col telefono per potersela lumare in pace. Oppure armeggia davvero e le fa un video, non lo so, in ogni caso sono molto imbarazzato per lui. La ragazza invece non gli presta la minima attenzione, e continua a godersi il sole chiacchierando con l’amica.

A una certa ora torniamo a casa, che è a venti minuti, ci fermiamo al supermercato a comprare prosciutto e melone e pranziamo all’ora di merenda in cortile. Sbagliamo tutto, il melone sa di zucca, il prosciutto è buono ma è poco, Shasha ha deciso di condurre una battaglia personale contro i carboidrati e mi proibisce di comprare del pane, e io prosciutto e melone senza pane non riesco mica a mangiarlo, mi resta un buco nello stomaco che ci passa una mano. Per fortuna dopo poco andiamo a cena.

Prima del ristorante ci facciamo un aperitivo all’enoteca locale, che è enoteca e salumeria, un abbinamento che ha senso solo in Sicilia, e ci ritroviamo con una bottiglia di bianco e la promessa di tornare per una degustazione possibilmente l’indomani. Poi andiamo a cena da Retrogusto, un ristorante piccolino dietro casa, dove ci sfondiamo, letteralmente. Nel senso che se mangio ancora un gamberetto mi esce Alien dalla pancia. Ci portano un antipasto da dividere che da solo farebbe un pasto completo, poi io ordino un primo, Shasha un secondo, dividiamo un contorno e mezzo litro di vino.
65 euro. Sono commosso.

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Day 6
Primo giorno di tempo incerto. Non piove, ma è nuvoloso e c’è vento. Che si fa? Andiamo in spiaggia al lido di Noto, per fare prima. Ci stiamo giusto un paio d’ore, poi torniamo ad Avola e compriamo tipo 60 euro di pesce, che grigliamo felici in cortile.
No, raccontiamo le cose come sono successe davvero, ci metto ore ad accendere il fuoco, faccio un fumo enorme che entra tutto in casa impregnando ogni stanza con un aroma di incendio che non riusciamo più a mandare via, mentre nugoli di mosche si posano sul tavolo, sul cibo e sulla mia faccia.
Alla fine ci riesco, ma non prima di avere invocato dei e diavoli e averli maledetti entrambi.

Poi è troppo tardi per andare di nuovo al mare, così ci spingiamo fino a Siracusa, facciamo un giro a Ortigia, e veniamo via un po’ insoddisfatti, come se ci aspettassimo di trovarci ancora un po’ di quell’atmosfera da presepe che abbiamo respirato a Noto. Oh, la piazza della cattedrale merita da sola una visita, soprattutto se hai visto tutto Malena e non sei scappato via a metà proiezione inorridito dalla recitazione della Bellucci, ma insomma, manca qualcosa. Veniamo via e andiamo all’enoteca salumeria vicino a casa e ci facciamo una degustazione di nero d’Avola e ci portiamo a casa tre bottiglie.

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Day 7
Dato che il meteo ha messo brutto decidiamo di non andare al mare e torniamo a Siracusa a vedere il parco archeologico, che ieri siamo arrivati che era già chiuso. Siccome siamo ricchi ci prendiamo, oltre al biglietto, anche la guida. Ma non quella con le cuffiette, questa è una signora robusta con un cappello di paglia a forma di elmetto tedesco senza chiodo. Ci raggruppa con altre sette otto persone fra cui il Simpatico, la Nonna, Quella Che Non Capisce e Quello Che Resta Indietro.

Il parco archeologico di Siracusa è il secondo più esteso d’Italia dopo quello di Roma, e comprende un teatro greco, un anfiteatro romano, diverse latomie, che sarebbero le antiche cave dove gli antichi siracusani andavano a tagliare via dal monte le pietre per farci mattoni, piastrelle, sampietrini da tirare alle guardie e tutto un catalogo di forme e dimensioni per ogni uso necessario all’epoca. Volevi un busto di Archimede da metterti in sala? Andavi dai cavapietra, ti compravi un blocco di giuggiulena, come chiamano l’arenaria da quelle parti, e te la martellavi fino a tirarci fuori un ritratto dello scienziato siracusano, che però, date le tue scarse doti artistiche, veniva fuori col becco al posto del naso e una specie di spiovente in testa molto somigliante a un tetto su cui ha nidificato una famiglia di corvi. Lo buttavi via, ma secoli più tardi veniva recuperato da Carl Barks che ne faceva un personaggio fondamentale nelle storie di Paperino.

Del parco archeologico tutti ricordano l’Orecchio di Dionisio, che però chiamano Dioniso, confondendolo col dio alcolista, e infatti una volta entrati nella famosa cava a forma di esse, attaccano a sbraitare come se fossero ubriachi. Ma la Neapolis siracusana ospita anche un teatro dove ancora si mettono in scena le stesse tragedie di quei tempi là, e un’arena dove non combattono più i gladiatori, ma più che altro perché gli animalisti oggi si opporrebbero a farli scontrare coi leoni, poveri leoni. Mettici dei gladiatori novax, e poi vediamo quanti animalisti si direbbero contrari.

Finito il tour andiamo a mangiare cinese, perché Shasha se sta troppo a lungo senza mangiare cinese si trasforma in un affittacamere spagnolo coi baffi neri e i capelli unti legati in un codino. Già nel teatro greco ha iniziato a sbarellare e ha chiesto alla guida se quiere una habitación doble con media pensión.
Il ristorante è a Ortigia e c’è scritto vendesi sulla porta. Strano che in una regione dove si mangia da dio pochi abbiano voglia di provare i ravioli al vapore. È un peccato, perché è tutto fatto in casa ed è molto gustoso. Però a ogni boccone piango in silenzio pensando alla caponata.
Peraltro questa seconda visita a Ortigia ci soddisfa molto più della precedente, e finiamo per ricrederci un po’ sulle qualità locali. Ma non siamo noi che abbiamo cambiato idea, scopriremo più tardi che nella notte la vecchia Ortigia noiosa e turistica è stata sostituita con New Orleans.

Dopo pranzo abbiamo voglia di un caffè e un po’ di dolce, ma non sappiamo quale bar scegliere, così torniamo alla macchina e guidiamo fino a Modica, dove abbiamo letto che si produce una cioccolata molto buona. Facciamo il pieno di cioccolata e anche di matrimoni, che in questa zona della Sicilia sembra che ci si sposi soprattutto alla fine di settembre, in ogni città che visitiamo ci sono assembramenti davanti alle chiese con palloncini color confetto e signore con lunghi abiti Pantone, mentre gli uomini sono tutti raggruppati in un angolo del sagrato e fanno la faccia da duri come impone l’abito.
Modica mi ricorda un po’ Matera, grigia, con le case ammassate, piena di stradine. La differenza che salta subito agli occhi è data dalle grate alle finestre, panciute come nel resto di questa parte di Sicilia, e dal fatto che non c’è James Bond che fa le corse in macchina nei vicoli.

Tornati ad Avola andiamo a mangiare in un posto di cui non ricordo il nome, una pizzeria locale dove forse non si vedevano turisti dall’85, perché a momenti ci fa pure l’inchino. Mangiamo della pasta fatta in casa e tanto di quel pesce fritto che ancora adesso, a distanza di settimane, quando sento la parola “calamari” ingrasso.

Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa
‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
mi sentu stranizza d’amuri

Domenica
Noi in realtà saremmo venuti fino in Sicilia per il mare, ma il mare di Palermo non ci sembra questa gran cosa. Forse a Mondello, ma bisogna spostarsi coi mezzi pubblici, e a quanto leggo la spiaggia è piccola, e qualcuno dice pure sporca. L’unica sarebbe allontanarsi dai centri abitati, ma senza una macchina come fai? Insomma, andiamo a Cefalù. Troviamo una spiaggia a 15 euro 2 persone che ci fa abbandonare la politica della spiaggia libera in favore del lettino e dell’ombrellone. La doccia fa cagare come quella della spiaggia libera, in ogni caso. Dopo un’ora di acqua e sole io sarei già a posto e mi infilerei nelle stradine del centro storico a cercare da mangiare, ma Shasha esige il suo tributo di Mediterraneo e tocca restare fino alle 4. Poi raggiungiamo la cattedrale facendo a gomitate coi turisti in una delle uniche due strade percorribili, tutte piene di cazzate fintissime. È il paradosso del turismo, che migliora le condizioni di vita di un luogo grazie al denaro speso dai turisti, ma ne rovina l’aspetto proprio a causa del turismo. Tutte le località turistiche del mondo finiscono per assomigliarsi, con la sola differenza dei cartellini del prezzo sopra l’espositore delle calamite da frigo, scritti in lingue diverse.
Ci prendiamo una granita in piazza, quella buonissima dappertutto, e un aperitivo in un bar ai margini del centro storico, non lontano dalla stazione. Sono le quattro passate, abbiamo perso di poco il treno per il ritorno e per quello successivo bisogna aspettare altre due ore. Dopo mezz’ora non ne possiamo più, siamo in astinenza da cibo di strada e macchine che ti arrotano sulle strisce.
Ma più dal cibo di strada, qui non c’è un cazzo, solo negozi di souvenir e tedeschi che ciondolano.

Ce ne andiamo, ma passiamo tipo un’ora che però sembra una settimana a girare per le strade dove o è tutto chiuso o è un posto che si chiama Sicily Store, e fa un caldo porco e l’umidità è la stessa che nel Borneo e se mi strizzo la maglietta faccio mezzo bicchiere di brodo, e figurati se strizzo le mutande, abbiamo bisogno di una doccia livello quando ti si rompe la tuta spaziale e sei su Marte.

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Lunedì
È il giorno in cui lasciamo Palermo per il remoto sud-est trinacrico. Prendiamo il treno fino all’aeroporto, dove dovremmo ritirare la macchina a noleggio, ma prima facciamo una colazione al bar sotto casa, e decido che non posso più vivere senza quelle grosse brioche fritte ripiene di ricotta e cioccolata, le iris. Le troverò anche in quelle terre così lontane?
Spoiler: sì, ma non così buone.
Spoiler 2: sticazzi, mangerò cose che non me le faranno rimpiangere.

Ci danno la macchina, solo che prima devono portarci fino a Cinisi e poi farci spaventare da un’impiegata con racconti orribili di furti d’auto, incidenti, righe sulle fiancate, per farci fare un’assicurazione extra. Rifiuto, figurati se vado a pagare 120 euri in più perché questa si deve prendere la sua percentuale, e l’impiegata dell’autonoleggio smette di colpo di essere amichevole e mi tratta con una freddezza immotivata che mi regala anche un po’ di soddisfazione. Vaffanculo, stronza, fattelo pagare da qualcun altro il tailleur nuovo.
Comunque partiamo, e finiamo imbottigliati subito dentro Palermo, poi di nuovo a Bagheria, poi in tutto il tragitto fino a Enna. Ogni due tre chilometri la strada si restringe e restiamo imbottigliati. E io che mi lamentavo delle autostrade liguri.
A Enna non ne possiamo più e usciamo a cercare da mangiare. Shasha trova su google un ristorante con buone recensioni, e per raggiungerlo saliamo fino in cima alla città, che sta su un monte, poi scendiamo dalla parte opposta senza vedere niente di questo posto che dev’essere anche interessante, così arroccato, e finiamo nella parte nuova, in basso, in mezzo a un quartiere anonimo che potrebbe stare benissimo in qualunque periferia del mondo.
Il ristorante promettente è una trattoria per operai in pausa pranzo, due primi due secondi caffè e basta. Siamo perplessissimi.


Trattoria Francesca, accà si mangia como na vota, dice il cartello. Una volta dentro scopri che non si riferisce al menù: sono sintonizzati su Radio Margherita, e la cuoca canta tutto il tempo le canzoni di Al Bano e Romina e quelle di Masini, aggiungendo malessere a disagio.
Capisco come devono sentirsi i marziani quando atterrano sul nostro pianeta e cercano di mescolarsi alla popolazione.
Mangiamo due porzioni abbondanti di tagliatelle fatte in casa, e non spendiamo neanche tanto, ma a parte questo non merita di essere ricordato a lungo.

Arriviamo ad Avola senza grossi impicci, tranne un cantiere ogni chilometro, che vorrei tanto uccidere qualcuno e capisco quelli che odiano i Benetton come se fossero loro in persona a sabotare i viadotti autostradali. Io cerco di capire che la realtà è più complicata di così e non si può addossare tutte le responsabilità su una persona, e infatti non vorrei uccidere i Benetton, è eccessivo, ma devo ammettere che prendere a calci una pecora adesso mi farebbe sentire un po’ meglio.
La casa è figa livello due punti esclamativi, e Pino è un simpatico cicciottello paraculo che sa fare bene il suo mestiere, ma merita davvero tutti i complimenti perché si sbatte a renderci il soggiorno il migliore possibile.

La spiaggia di Avola è un po’ un cesso, ci sono cicche ovunque, il degrado spunta dai bordi, neanche l’acqua sembra granché; facciamo un bagno veloce e andiamo a visitare il paese senza passare da casa. Il paese sembra meglio, ma per capirlo dobbiamo spingerci fino al centro, sulla piazza della bella chiesa barocca. Mangiamo tre panini ottimi e ci beviamo due birre a testa da U Putiaru, e spendiamo 20 euri. Torniamo a casa sporchi di sale e soddisfatti.

Sparunu i bummi
Supra a Nunziata
‘N cielu fochi di culuri
‘N terra aria bruciata
E tutti appressu o santu
‘Nda vanedda
Sicilia bedda mia
Sicilia bedda

Venerdì
Il volo per Palermo arriva a Genova in ritardo, perciò la nostra vacanza parte in ritardo. Mentre ci imbarchiamo ci si attacca alla schiena l’inevitabile coppia con bambina, che finisce seduta inevitabilmente accanto a noi. La bambina è la solita: capricciosa, stridula, settata su un volume da concerto rock, ma la novità è data dal fatto che la madre riesce a essere più rumorosa della figlia, attaccando bottone con chiunque le capiti vicino e raccontando ogni tipo di aneddoto sulla sua vita e quella di ogni familiare le venga in mente. Non sta zitta per tutto il volo, coperta solo occasionalmente dagli strilli della figlia o dai messaggi del personale di bordo. Vorrei annullarmi con la musica, ma la batteria del telefono ormai mi dura solo poche ore e non posso permettermi di scialare, o rischio di non arrivare più all’airbnb che abbiamo affittato.

Provo il WiFi di bordo per accedere al ricco menù che però di ricco non ha proprio niente e neanche funziona. C’è una selezione di musica di una cinquantina di pezzi, raccolti in venti playlist dai titoli accattivanti, ma che in pratica contengono sempre le stesse canzoni, solo raggruppate in ordini differenti. Il palinsesto di Radio Capital, ma con titoli sconosciuti.
Poi ci sono i film, con un paio di cose che sarebbero anche interessanti, ma tanto il WiFi si stacca da solo dopo pochi secondi, neanche partono. Passo un quarto d’ora a entrare e uscire dal menu principale, poi mi arrendo.

Mi metto a leggere, che è meglio, ma devo leggere sul telefono, quindi anche quello riesco a farlo solo per un periodo molto breve. Per fortuna il volo finisce subito.

Mentre scendiamo su Palermo decido che vale la pena rischiare di morire e spengo la modalità aereo. Dai su, è ora di finirla con questa cazzata della modalità aereo, non serve a niente, non previene niente, gli aerei moderni possiedono strumenti molto sicuro, le cabine sono schermate, neanche se tutti i passeggeri accendessero tutti i loro telefoni contemporaneamente riuscirebbero a disturbare la strumentazione di bordo. Lo ha detto anche Il Post, perciò mi fido.

Non c’è campo, comunque. Riaccendo la modalità aereo e l’aereo comincia a scuotersi in mezzo a una nebbia da non vedere a un metro. Sono stato io?
Se adesso ci piantiamo dentro la roccia di Punta Raisi mi incazzo. Fra l’altro non mi ricordo mai di scaricare della musica nuova, e ogni volta che affronto la morte ho Vasco Brondi nelle orecchie.

Sopravviviamo all’atterraggio e l’aereo si ferma senza problemi davanti al terminal.
Bonus: nessuno applaude. Si vede che è passata la moda, ma preferisco raccontarmi che siano diventati più intelligenti. Poi mi ricordo che a Genova siamo stati imbarcati per file che venivano chiamate una alla volta, ma questo non ha impedito agli zombi da aeroporto di ammucchiarsi davanti all’ingresso del gate fin da un’ora prima, “così quando ci chiamano siamo già lì pronti”.

L’aeroporto di Palermo è piccolo e poco interessante, come tutti gli aeroporti del mondo. Quello che distingue gli aeroporti non è la quantità di attrazioni che contiene, ma le sue dimensioni. Quindi ci sono aspetti piccoli e poco interessanti, aeroporti grandi e poco interessanti, e aeroporti giganteschi per niente interessanti, perché anche le cose che potrebbero risultare interessanti, cioè i negozi e i ristoranti, in un’area molto grande si moltiplicano fino a riempirla, ma senza variare nella sostanza, quindi finisci per girare per un’area enorme tutta uguale.

Arriviamo a Palermo in treno in poco più di tre quarti d’ora, così suddivisi: trenta minuti dalla stazione di Punta Raisi a quella di Palazzo Reale, dove abbiamo la casa, e altri venti per attraversare la strada. A Palermo nessuno ti fa sconti, è un continuo fiume di macchine, c’è un casino feroce. Non si fermano sulle strisce, non provano neanche a rallentare. Lo sanno che dovrebbero, ma ti osservano mentre ti corrono sui piedi per vedere cosa fai, e se fai quello che farebbe chiunque con un minimo di istinto di conservazione, aspettare, accelerano e se ne vanno soddisfatti di avere vinto ancora una volta l’eterna sfida palermitana col pedone.
Alla fine capiamo la tecnica: devi buttarti senza mostrare paura, gli automobilisti palermitani si fanno intimidire facilmente da un atteggiamento sfrontato, e si fermano.

Via dei Cappuccini è stretta e senza marciapiedi, e la sera sembra un po’ una strada di Kabul, ma è così tutto il centro di Palermo, ci si fa presto l’abitudine. C’è una grossa discarica sotto casa, piena di vecchi televisori, sacchi della spazzatura, materassi sfondati, calcinacci, pezzi di sedie, e accanto tre bidoni che vengono svuotati regolarmente.

Non so bene come funziona la gestione dei rifiuti a Palermo, non mi sembra lineare. Per capirci meglio farò l’esempio del gatto.
Quando passiamo la prima volta, venerdì sera, un gatto è stato appena investito, e il suo cadavere giace accanto al marciapiede. Quando ripassiamo, un paio d’ore più tardi, qualcuno lo ha colpito ancora, e la sua carcassa occupa uno spazio ancora maggiore.
La mattina seguente, sabato, le suore del convento di fronte gli hanno messo un sacco della spazzatura davanti, così che gli automobilisti evitino di schiacciarlo ancora, ma quando torniamo nel tardo pomeriggio il gatto è ancora lì, il caldo cittadino lo ha gonfiato e la puzza ti aggredisce la gola fin da lontano. Il sacco nel frattempo è sparito. Il gatto, o ciò che ne rimane, verrà rimosso il lunedì mattina, e la strada ripulita con la candeggina.

Ma torniamo al viaggio. La casa di via dei Cappuccini è carina, ma è molto calda perché è stata ricavata nel sottotetto. Capita spesso con Airbnb di finire alloggiati in miniappartamenti ricavati dall’ultimo angolo possibile di un vecchio edificio: a Parigi mi capitò di dormire per cinque notti in uno sgabuzzino superaccessoriato con tanto di cucina a gas e forno a microonde. Era una merda. superaccessoriata, ma sempre una merda.
Questo di Palermo sembra un appartamento vero, e col deumidificatore acceso tutto il giorno si sta abbastanza bene.

Posiamo i bagagli e per prima cosa andiamo a mangiare il pani câ meusa da Nino u ballerino, definito un’istituzione dalle guide cittadine.

È un chiosco abbastanza nuovo, dove lavorano persone pochissimo ballerine, e tutto quello che gli chiedi è finito, compresa la ricotta e le arancine. Ai tavoli intorno siedono solo turisti che come noi si sono fatti fregare dalle guide cittadine. Da evitare, a saperlo prima. Molto meglio la focacceria Testagrossa, poco più avanti, dove più tardi proviamo il mangia e bevi (della pancetta arrotolata in un cipollotto e condita col limone) e ci regalano due panelle perché vanno provate. Non lo sappiamo ancora, ma diventerà la nostra seconda casa.



Sabato
Facciamo colazione vicino a casa, alla pasticceria Cappello, un locale storico che è solo storico, dato che cappuccio e brioche sono uguali a quelli di qualunque pasticceria italiana, ma va detto che non ho provato le paste, magari sono quelle a fare la differenza.

Poi iniziamo il giro. Prima andiamo al mercato di Ballarò, colorato, rumoroso, vivo. I banchi di pesce fresco sono dappertutto, e dappertutto c’è gente che compra. Un pescivendolo svuota i ricci di mare e versa la polpa in bicchieri di plastica: se non avessi ancora il sapore del caffè in bocca gli chiederei se sono in vendita, hanno l’aria di essere deliziosi. C’è un tizio che vende le sigarette di contrabbando in mezzo a un incrocio. Farei un sacco di foto se fossi uno a proprio agio a fotografare le persone. Le fa Shasha al posto mio, e devo dire che nessuno la picchia, ma è anche vero che il contrabbandiere di sigarette non lo fotografiamo.

Dal mercato raggiungiamo i Quattro Canti, l’incrocio fra le due strade che dividono il centro cittadino in quattro quartieri. Adesso che è diventato area pedonale te lo godi, mica come prima che c’erano le macchine e sembrava di stare in una galleria con tutto lo smog e il casino. Ci sono carrozzine coi cavalli in attesa di clienti e c’è qualche banchetto, ma nell’insieme non è diventato un trappolone da turisti come mi sarei aspettato. Lì accanto la fontana Pretoria non fa la figura che meriterebbe, è una fontana vabbè. Tutte le fontane se ci levi l’acqua sono vabbè, anche quelle di Roma: tu immagina Anita Ekberg che ciabatta nella fontana di Trevi asciutta. Vabbè.
Arriviamo alla Chiesa di San Cataldo che sembra già mezzogiorno, prendiamo una birra e un mojito e ci rilassiamo. Scopriremo poi che erano le dieci di mattina, quindi abbiamo ufficialmente infranto l’ultimo tabù prima dell’alcolismo.

A noi piacciono i mercati, dovunque andiamo ci perdiamo a girare per banchi di pesce e frutta, ci facciamo convincere ad assaggiare qualcosa, ci portiamo a casa cibi che poi regolarmente non abbiamo voglia di cucinare. Dopo la pausa, quindi, raggiungiamo l’altro mercato famoso di Palermo, quello della Vucciria, che però è chiuso, oppure siamo noi che non lo troviamo, oppure sono quei due tre banchetti che salgono su per il vicolo e puzzano di turista e anche se a uno dei tavolini è seduto Bunna degli Africa Unite, fanno abbastanza schifo al cazzo, andiamo via. Io poi manco li ascoltavo, gli Africa Unite.

Delusi da quella che dovrebbe essere una delle anime di Palermo, cerchiamo il riscatto e raggiungiamo il terzo mercato cittadino, il mercato del Capo, e stavolta è davvero ora di pranzo, così ci sediamo al tavolo di una pescheria che si chiama Fish m Chips, prendiamo un couscous di pesce, un’insalata di polpo, sei sarde a beccafico e quattro arrosticini di calamaro. Più due birre, 36 euro senza scontrino. Per il posto in cui siamo è caro, ma a Genova ci avremmo lasciato lo stipendio.

Torniamo verso casa, ci fermiamo alla cattedrale e visitiamo il palazzo Reale, poi rientriamo stanchi come se fossero le sei. È l’una.
Dormiamo un po’, poi usciamo di nuovo.
L’idea sarebbe di andare a cena, ma passiamo davanti a Testagrossa e quasi quasi ci prendiamo una cosa, tipo un altro panino con la milza, per fare merenda.
A quel punto la cena è diventata un di più, e gironzoliamo annusando la città. Le strade si sono riempite di gente che prende l’aperitivo o sciama alla ricerca di quello buono. Ai Quattro Canti adesso ci sono degli sposi che si fanno le foto, degli artisti di strada che suonano Romagna mia (ma perché?), altri che improvvisano un rock parecchio Zeppelin, solo chitarra e tastiera. Nelle piazze della Kalsa ci si prepara per il jazz festival, il teatro è ricoperto di strisce argentate che lo fanno somigliare al gonnellino delle ballerine hawaiane nei vecchi cartoni animati di Hanna & Barbera.
Troviamo un bar accanto al teatro, che si chiama Cantavespri, e ci facciamo il nostro aperitivo. Il piatto di assaggi che a Genova ti regalano, qui costa 8 euro, presentato come una gran prelibatezza. E poi siamo noi quelli attaccati al denaro.
Tutto intorno si stanno allestendo palchetti, si montano casse e microfoni. Sarebbe da aspettare l’inizio dei concerti, dev’essere una città divertente dopo il tramonto, ma sono solo le otto e ne abbiamo già le palle piene.

La faccenda della newsletter di cui parlavo la volta scorsa ha smosso il gotha dell’editoria italiana a un livello che non mi aspettavo. Cioè, avevo messo in conto di ricevere email da qualche redazione di giornale, in cui direttori piccati mi accusano di poca sportività, e infatti mi ha scritto il direttore di un quotidiano sbarcato in edicola da una settimana, chiedendomi di rinunciare all’idea della newsletter, o almeno di rimandarla di qualche settimana, per dare il tempo alla sua rivista di crearsi un solido bacino di lettori.

Quello che non mi aspettavo era che la mia proposta mi ponesse sotto la lente d’ingrandimento di un anziano direttore col vizio della bottiglia. Non me l’aspettavo perché io e questo signore di solito frequentiamo persone diverse, leggiamo giornali diversi e soprattutto ci facciamo leggere da persone che difficilmente riuscirebbero a stare nella stessa stanza senza mettersi le mani in faccia. Ciononostante, questo pomeriggio il signore in questione mi ha telefonato. Ho capito che era lui prima ancora di vedere il numero, perché la suoneria del cellulare, invece della solita sigla di Drive-In, ha fatto partire Faccetta Nera interpretata dal Coro degli Ultras della Lazio, live dai sedili posteriori del pullman di ritorno dalla trasferta a Udine dove hanno strappato un pareggio all’ultimo minuto.

(una volta non so più quale compagnia telefonica aveva attivato questo servizio, che ti permetteva di scegliere una suoneria personalizzata da fare ascoltare a chi ti chiamava, mentre aspettava che accettassi la chiamata. In tutta Italia avevamo sottoscritto il servizio solo io e il mio amico Panzon, e tutti e due ci siamo rotti le palle dopo meno di un mese perché il catalogo comprendeva solo tre canzoni e due erano tormentoni estivi)

Il vecchio direttore di giornale si è lagnato con me che già la sua testata la leggono in quattro, se mi metto a rubargli lettori anch’io cosa gli resta da fare se non spendere al bar anche quelle poche ore che finora dedicava alla stesura di editoriali che per essere letti dovevano contenere la parola negri nel titolo? Mi ha chiesto di lasciar perdere, oppure di prenderlo a lavorare con noi in redazione, che oramai a Milano si vive male e non gli dispiacerebbe trasferirsi in un ufficio vista mare col bar sotto che prepara degli spritz decenti.

Ho rifiutato, naturalmente. La redazione si sta formando lentamente, di ogni candidato valutiamo il curriculum perché ce lo mandano e pare brutto non leggerlo, ma soprattutto il casellario giudiziale: se ha subito condanne per avere scritto parolacce sul muro dell’arcivescovado lo facciamo direttore, ma se è già stato direttore non ci interessa, perché a lavorare con quelli bravi ci vengono i complessi di inferiorità e poi finiremmo a misurarci il cazzo, e perderemmo anche lì.

È brutto perdere a chi ce l’ha più lungo con qualcuno che è anche più bravo di te nel lavoro.

Il vecchio direttore astioso si è congedato con cortesia, ma se domani in edicola ci sarà un editoriale che parla male di Renzi sappiate che non si riferisce al segretario di Italia Viva.

Nel frattempo il nostro progetto va avanti con calma. Nessuno ha fretta di cominciare, e ci scambiamo pigri messaggi domandando di cosa dovremmo parlare e chi avrebbe voglia di scrivere il primo pezzo. Ma non ce l’abbiamo una linea editoriale? Ci si chiede. E il titolo della newsletter? E che giorno la facciamo uscire?
La cassetta degli articoli da cui pescare il materiale settimana dopo settimana è ancora vuoto, ogni tanto mi metto al computer per scrivere il primo pezzo, e sistematicamente finisco a giocare a un gioco in cui interpreto un cecchino in Siberia che spara a mercenari appostati tre schermi più in là, perciò il mio primo pezzo finirà per essere La giornata tipica di un cecchino superaccessoriato nella Siberia degli anni ’20, e inizierà così:

Ore 6.30 – La sveglia mi tira giù dal letto che fuori è ancora buio. Per non attirare curiosi ho impostato la suoneria col canto di accoppiamento del lupo siberiano, ma così ogni mattina trovo fuori dalla tenda cinque esemplari maschi ingrifatissimi, e venti minuti se ne vanno a cercare di allontanarli senza fare rumore. Non so se avete presente la difficoltà di convincere un branco di lupi incazzati ad andarsene facendogli pssh pssh.

Poi ci sono le difficoltà di carattere logistico, che nel mio caso significano gli elementi ambientali che mi rendono difficile scrivere: mia moglie e i gatti, principalmente. Che decidono tutti insieme di avere bisogno di me, e mi obbligano a interrompere la stesura del mio pezzo e attraversare ciabattando le grandi stanze del castello in cui ci siamo trasferiti da poco, mugugnando lungo tutto il percorso, per arrivare a scoprire che la prima ha scoperto che i secondi le hanno pisciato sulle ciabatte, e che io devo risolvere il problema. In quel caso mi si presentano due opzioni: buttare le ciabatte o buttare i gatti, ma non posso scegliere nessuna delle due, perché né io né mia moglie siamo disposti a liberarci di ciò che ci appartiene. Quindi io mi tengo il gatto piscione e lei le ciabatte pisciate.

Insomma, far uscire una newsletter oggi, in Italia, è più difficile di quanto si possa pensare. Tenetene conto quando guarderete ogni giorno la vostra casella di posta e ci troverete soltanto la pubblicità dell’allungapeni, e vi verrà voglia di imprecare nella mia direzione, e in quel moto di rabbia vi sarà sfuggito che finora neanche vi ho dato un indirizzo a cui registrare la vostra casella di posta, anche se mi fossi messo a pubblicare come credete che avrei fatto a recapitarvela?
Tutto vi devo spiegare. Tutto.

Ieri sera io e Shasha siamo stati fermati dalla Guardia di Finanza mentre tornavamo dalla nostra riunione sediziosa. Per celare le nostre vere intenzioni indossavamo una tuta da ginnastica e procedevamo a passo sostenuto, tipo uno che deve sbrigarsi per non perdere il treno, niente di eccessivo insomma.

“Dove state andando?”, ci ha chiesto l’agente Smith.
“Facciamo una corsa”, ho risposto.
“Alle undici di notte?”
“Eh, di giorno c’è gente, è pericoloso”

Ci ha invitati a tornare a casa, che oltretutto “quella povera ragazza pare che sta morendo”. Si riferiva a Shasha, ovviamente, che stava mostrando segni di affaticamento livello Ho-fatto-lo-Stelvio-in-Graziella-e-non-me-ne-pento, e sbuffava e sudava e si appendeva al mio braccio come se le gambe le dovessero cedere da un momento all’altro.

Che grande attrice mia moglie! Quando le guardie ci hanno lasciati soli mi sono congratulato con lei, poi le ho passato un respiratore perché sennò moriva davvero.

A casa abbiamo discusso di quanto era venuto fuori alla riunione. Shasha aveva qualche dubbio, ma lei di come funzionano le cose in Italia non è pratica, se n’è stata zitta mentre la piccola Giorgia distribuiva i compiti ai partecipanti, e adesso guardava il suo nuovo quaderno di matematica con la copertina di Peppa Pig come un alchimista guarda il manuale di istruzioni della pietra filosofale.

“Cosa significa tutto questo?”, mi ha chiesto.

Non sapevo cosa risponderle, ero confuso anch’io. Il tema che mi era stato assegnato si intitolava ” Sono trascorsi solo alcuni mesi dall’inizio della seconda media. I miei compagni di classe sono sostanzialmente gli stessi, eppure qualcosa è cambiato. Che cosa sta accadendo in me e tra di noi?”, e se non riempivo almeno due pagine di protocollo sarebbero stati cazzi acidi.

“Ti avevano promesso il ruolo di capitano nella squadra di calcetto, cosa ci facciamo con questa roba?”
“Cerca di capire, Giorgia ha bisogno di dimostrare ai suoi genitori che è in grado di assumersi le sue responsabilità. Stiamo cercando tutti di darle una mano a fare una bella figura. Appena suo padre le lascerà l’azienda potremo dedicarci a sgominare i piani malvagi del sindaco.”
“Ma non me ne frega niente del sindaco! Ho già raccontato ai miei amici in Cina che mio marito è un famoso calciatore, cosa gli dico adesso? Mia madre era così felice!”

Cosa non farebbe un uomo per soddisfare la donna che ama?
Ho spedito il curriculum al Genoa: se dovevo mettermi a giocare a calcio almeno lo avrei fatto nella squadra che amo. E poi non avrei fatto più danno di qualunque dei suoi attuali titolari.

Ci ho scritto che ho iniziato la carriera nel Guizhou, una squadra cinese del.. beh, del Guizhou, poi mi hanno assunto nell’Universidad Catolica, in Cile, dove ho militato per due anni arrivando a vincere il campionato, e adesso sono titolare nel Boca Juniors.

“E a parte PES 2019 hai mai giocato a calcio?”, mi ha chiesto il presidente del Genoa al telefono, venti minuti dopo avergli spedito il mio CV.
“Non sono mai riuscito a convincere un pallone a finire dove volevo io”
“Va bene, sei assunto. Ce la fai a venire al campo di allenamento a Pegli questo pomeriggio? Ti faccio fare una partitella con la squadra così vi conoscete”
“Certo, se mi fermano dico che stavo andando a correre. Ormai sono pratico”

Non mi hanno fermato, e meno male. Sarebbe stato difficile spiegare alla polizia perché la mia macchina scendeva giù per la A7 con nessuno al volante, mentre io correvo da un finestrino all’altro sul sedile posteriore.

Al campo sono stato presentato a tutto l’organico compresi i magazzinieri, ma senza stringerci la mano e rispettando la distanza di sicurezza di un metro. Quando l’arbitro ha fischiato l’inizio della partita il mio compagno mi ha passato la palla, e nessuno si è avvicinato per portarmela via, per paura del contagio. Ho arrancato a calcetti verso la porta avversaria, badando di non spedire la palla troppo vicino a un altro giocatore, e in un paio di minuti mi sono trovato solo davanti al portiere. Tutti i miei compagni mi dicevano tira tira, ma sapevo che il portiere l’avrebbe parata senza problemi. In pratica le partite ai tempi del coronavirus si svolgevano tutte così, fischio dell’arbitro, passaggio iniziale, giocatore che arriva indisturbato davanti alla porta, tiro, parata, rimessa del portiere, chi la piglia la piglia e via dall’inizio.

Mi sono chinato sulla palla e ci ho sputato sopra, poi ho guardato il portiere negli occhi. Ho tirato, lui si è buttato dall’altra parte, gol. Era il primo gol da settimane, i miei compagni erano in visibilio. Il presidente è venuto a congratularsi, mi ha detto che un fuoriclasse come me non lo vedeva da decenni. Poi siamo tornati tutti a casa, tanto il pallone non lo voleva toccare più nessuno.

L’unica cosa che ci salverà saranno i pensieri associativi, quelli che stai borbottando madonna il caldo e ti ritrovi seduto su una panchina all’ombra della sala da concerti più brutta di Praga, dove brutto è un complimento al brutalismo, che da quelle parti è bellissimo, a guardare la tua nuova amica dal nome buffo mentre cerca di arrampicarsi su un cavallo di ferro trapuntato che sotto quel sole è come sedersi su una graticola, ma è cinese, ai cinesi piace fare di queste cose strambe, lo sai perché hai visto un sacco di volte Grosso Guaio A Chinatown, chissà se anche lei sa sparare i fulmini dalle mani, quando scende dal cavallo glielo chiedi se non dovrai portarla di corsa al centro grandi ustionati, speriamo di no, che non hai idea di come si dica pomata in ceco.

Saranno i pensieri associativi, che il cavallo di ferro è una scultura provvisoria messa lì in omaggio a una forma d’arte che in quella città fa cose bellissime mentre in questa accende due faretti contro un muro e a posto così, e mentre stai maledicendo la tua tendenza a fare le liste, tipo le cinque morti più dolorose che ti auguro di incontrare, ma non una delle cinque, no no, tutte e cinque, poi scopriamo come fare, tu intanto comincia, e ti ritrovi di fronte a Essepuntatopietro, che indossa un abito tutto bianco. un abito elegante, giacca, camicia, pantaloni, tutto immacolato. di rosso ha solo la cravatta e il nastro del panama che gli nasconde la pelata. ha una cicatrice a forma di asterisco intorno all’occhio destro.

Ochei, è un personaggio di Preacher, ma qui interpreta il mio senso di colpa per avere augurato del male a qualcuno. Il senso di colpa è brutto e i pensieri associativi mi rimandano subito ai fumetti di Garth Ennis per evitarmi disagio. Lo facessero anche nelle code in autostrada, e invece quelle te le sciroppi tutte anche se ti distrai.
Non sono mica la Madonna i pensieri associativi.

Anche perché la Madonna l’ho vista una volta in Piazza delle Erbe, le ho chiesto un succo all’ananas con ghiaccio e uno senza ghiaccio per la mia amica Legion, che non si chiama così, ce la chiamo io perché ha più voci in testa lei che wikipedia nel suo archivio. Siamo andati avanti tutta l’estate a succhi all’ananas, ogni tanto li bevevamo, più spesso li facevamo cadere dal tavolino obliquo, che razza di bar.
Poi la Madonna ha finito la stagione ed è tornata alla sua attività di.. cos’è che fa la Madonna poi?

Cioè, Dio ha creato il mondo, è il capo, fa andare avanti la baracca. Gesù è sceso fra gli uomini perché non mi ricordo, quando a scuola facevamo Gesù avevo il morbillo, tipo che doveva riaprire le porte del Paradiso da fuori perché si erano chiusi dentro e dall’interno non c’era la maniglia, una cosa così. Così lui si è fatto partorire sulla Terra ed è morto con le chiavi in tasca. Si è portato dietro anche Essepuntatopietro a cui ha affidato una copia delle chiavi e gli ha detto di stare fuori e aprire se sente qualcuno da dentro che chiama aiuto.

Che poi perché un posto grande come il Paradiso dovrebbe avere una sola entrata? E se c’è una porta dovrebbero esserci anche dei muri, sennò non avrebbe senso, ma quando si parla del Paradiso si menziona solo la porta, come se bastasse girarci intorno per avere accesso al Regno dei Cieli.

Una volta scoperto il trucco tutti si presentano davanti a Essepuntatopietro/Reverendo Starr, dopo una vita di omicidi, stupri e partite della Juve, e accolgono il suo rifiuto con un ghigno sospetto sulla faccia. Poi dicono vabbè, allora vado all’Inferno, eh? Si allontanano di qualche passo, girano intorno al cancello, portone o quel che è, e sgattaiolano dentro. Il Reverendo Starr alza gli occhi e borbotta che tanto varrebbe metterci un tornello, ma più su del cielo non c’è niente, chi le ascolta le preghiere dei santi? I marziani?

All’interno di una struttura bassa e tondeggiante, situata a 24 km di altitudine sul fianco del vulcano Olympus, il marziano Calvizio si tocca la pelata ogivale col lungo dito ossuto, mettendo così le proprie sinapsi in collegamento con quelle del suo superiore, il marziano Giongionnz, seduto accanto a lui. Potrebbe anche parlargli, i marziani ce l’hanno un loro linguaggio, ma Calvizio pensa che così sia più figo.

“Signore, ho intercettato un’altra preghiera dal livello inferiore denominato Paradiso. La contrassegno come spam come le precedenti?”

“Il nostro account gratuito ha una capienza limitata, e non possiamo permetterci di passare a Premium. Dobbiamo agire alla radice e impedire agli umani di andare in Paradiso, così queste preghiere smetteranno una volta per tutte. Disintegriamo il pianeta Terra!”

Partono cinquantamila ufi, che entrano nell’atmosfera terrestre e caricano il terribile raggio protonico, ma prima che possano fare fuoco, il signor Massimo Mattioli, di professione fumettista, scambia la flotta spaziale per un nugolo di moscerini e li abbatte con una zampata.

Haha, che notevole trucco narrativo, gli alieni erano in realtà microscopici!

Il fumettista Mattioli è così soddisfatto della gag che la pubblica nel suo fumetto Pinky, fra gli anni ’70 e gli ’80.

Non posso essere più preciso di così perché allora ero un bambino abbonato al Giornalino, il settimanale su cui disegnava Mattioli, e quei decenni ormai si confondono nella mia testa offuscata dall’anzianitudine.

Ah se potessi tornare indietro a quell’epoca spensierata, quando beltà splendea negli occhi miei, ridenti e fuggitivi! Avrei di nuovo dodici anni, ma l’esperienza e la conoscenza di un quasi cinquantenne, e potrei finalmente prendere una sufficienza alle interrogazioni. Di certo la mia carriera scolastica prenderebbe tutta un’altra piega, e il mio futuro si dipanerebbe in modo diverso.

Molto probabilmente la noia di conoscere ciò che verrà, l’angoscia di sapere che le mie speranze di ragazzino verranno presto disilluse, il disagio di dover vivere un’altra volta coi miei genitori e frequentare bambini che ormai hanno quasi quarant’anni meno di me, mi farebbero entrare negli anni ’80 con un interesse eccessivo verso l’eroina, e sono sicuro che mi troverebbero morto a sedici anni in un vicolo con una pera nel braccio.

Che poi a me le pere non piacciono neanche da mangiare, con quel sapore di saponetta alla noce e la consistenza di un budino fatto con la sabbia. Una volta avevo l’abitudine di ordinare al bar un succo di frutta a caso, e il barista mi dava sempre quello alla pera, ovunque. Poi qualcuno che aveva esperienza del bancone del bar mi ha fatto notare che il succo alla pera è quello che non prende mai nessuno.

Ma allora perché tenerlo? Perché produrlo, se nessuno lo compra, tranne i pochi intrepidi del mi-dia-un-succo-di-frutta-a-caso? C’è forse dietro un complotto, come nel caso degli aerei che ci avvelenano, le banche che ci rapinano, i miliardari ebrei che ci sostituiscono con gli africani e tutte le altre prelibatezze di cui si sente tanto parlare?

Ci avete fatto caso che più si va avanti e più si svelano complotti segretissimi per governare il mondo e piantarlo nel culo a noi poveracci?

Ogni giorno sui social ci vengono rivelate notizie bomba di cui l’informazione ufficiale ci tiene all’oscuro, per salvaguardare i Poteri Forti ©: politici, manager e banchieri ricchissimi e potentissimi, che però non sono ancora stati in grado di tenere in piedi una struttura capace di agire in segreto. Sono talmente scrausi che ogni loro piano viene svelato da gente comune, che trova le prove schiaccianti su YouTube.

Io non riesco a seguire la palla durante le partite di calcio e c’è gente che svela complotti internazionali notando l’etichetta di una camicia nel video di un incontro fra capi di stato.

Fra l’altro questo mio deficit di attenzione pesa tantissimo su quelli che vengono allo stadio con me:

Oh no! Che succede? Ci hanno fatto gol. A chi? A noi, l’altra squadra, ci ha fatto gol. Ah. E ora? E ora stiamo perdendo! Perdiamo le monetine? La partita! Perdiamo la partita! Chi è partita? Toh le monetine, vammi a comprare la cocacola.

Quelli che vengono allo stadio con me sono il mio amico Andrea, che però allo stadio con me non ci vuole più venire. Magari si è arrabbiato, così gli ho chiesto di farmi da testimone di nozze.

L’anello. Eh? Devi mettere quell’anello lì al dito di questa ragazza qui. Perché, non può farlo lei? No, il rito prevede che lo faccia tu. Che rito? Toh, le monetine. Vammi a comprare le sigarette.

Quando ho cominciato a scrivere questa storiella, qualche anno fa, volevo che avesse uno sviluppo circolare, e finisse dove cominciava, più o meno. Solo che mi sono arenato in un punto dove la facevo diventare uno sfogo verso delle robe brutte che mi erano successe allora, e l’ho abbandonata. L’ho ripresa qualche mese or sono, in un momento di cazzeggio in cui mi trovavo fuori casa e avevo il telefono in mano e del tempo da far passare. Mi sono messo a saltare da un argomento all’altro, ma a Praga non ci arrivavo mai, così ho chiesto alla ragazza con cui comincia questa storia se aveva voglia di sposarmi, e darmi un finale accettabile. Non ha accettato, ho dovuto drogarla. È per questo che nelle foto del matrimonio ride sempre.