Rinnovare il permesso di soggiorno è un po’ come andare dal dottore di famiglia per farti curare una malattia mortale: ti metti nelle mani di chiunque sperando di cavartela, covando la certezza che molto probabilmente morirai.

Il permesso di Shasha scade tipo dopodomani, ma fra l’organizzazione del matrimonio, l’acquisto del pacchetto di maggioranza della Società Acqua Potabile del Monopoli, e il paraponzi che ancora affligge le mie povere membra, ci siamo ricordati solo oggi di rinnovarlo. Naturalmente per fare le cose in tempo avremmo dovuto muoverci prima, e adesso il comune non ci fa il certificato di residenza se prima non rinnoviamo il permesso di soggiorno, che non ci rinnovano senza certificato di residenza. Sto pensando di cambiare il mio nome in Akakij Akakievic, per coerenza.

Al patronato Cisl di Silent Hill, dove ci siamo rivolti in cerca di aiuto, che compilare un modulo del genere è più difficile delle parole crociate senza schema, l’atmosfera è assurdamente tranquilla. L’impiegata ci consegna un pezzetto quadrato di legno col numero 6 inciso sopra e ci lascia sprofondare nel silenzio irreale della sala d’attesa. Ci sono altre tre persone prima di noi, due donne in età pensionabile e un operaio appena smontato dal turno. Nessuno parla, nessuno si muove. Con noi ci sono la mamma e la nonna di Shasha, a cui avevamo promesso una gita all’outlet, e adesso si guardano intorno spaesate. Erano venute in Italia attratte dalla vita pazzesca che ci vedevano condurre attraverso Instagram, fatta di cene in ristoranti di lusso, aperitivi al mare, lotta nel fango e grigliate di opossum, e invece cos’è questo posto? Un ufficio sonnolento dove non ti offrono neanche del crack? Averlo saputo prima stavano a casa, là i lavoratori non hanno un sindacato e non corri il rischio di trovarti in queste situazioni.

L’impiegata che ci spiega come compilare il modulo è paziente, ma si vede che vorrebbe essere altrove, guarda l’orologio appeso al muro, poi la cartolina di una spiaggia sulla scrivania con la dicitura “Saluti da Portogruaro”, poi sospira e torna a spiegarci che in quanto coniugata con un cittadino italiano, Shasha non rientra nella categoria “ufficiale della Marina libica” e non può usufruire del diritto di asilo a essi riservato.

Shasha annuisce in silenzio, ma un po’ le dispiace dover limitare le sue cattiverie a me soltanto. “Posso almeno offendere l’africano fuori dal supermercato?”, le chiede.

Alla fine riusciamo a ottenere l’assistenza necessaria, e possiamo andare via col cuore più leggero: il permesso di soggiorno scadrà e Shasha verrà rimpatriata, ma le hanno rilasciato un modulo per cambiare identità e ripetere la procedura con un altro nome. “Tanto voi cinesi siete tutti uguali!”. Ridiamo tutti.

Per festeggiare andiamo all’outlet a guardare male i commessi di Dolce & Gabbana.

Sono giorni in cui mi si vede poco in giro e si aspettano mesi per ottenere una risposta a un mio messaggio, in cui le mie relazioni con gli amici si sono diradate fin quasi a sparire, e qualcuno ha già cominciato a depennarmi dalla lista degli auguri di Natale. Qualcuno fra i più intraprendenti è venuto fin sotto casa mia a chiedermi cosa mi stia succedendo, ma si è allontanato in fretta a causa della puzza, senza ricevere un’adeguata spiegazione.

Mi sta succedendo una Cosa Da Film Drammatico Hollywoodiano Con Attrice Famosa Che Poi Alla Fine Muore, dove io, dato che non sono un’attrice famosa, spero alla fine di cavarmela e al limite scrivere un pezzo sulla mia ipocondria che intitolerò “Di quella volta che credevo che sarei morto e invece soltanto quasi, hehe”.

Succede che mi sposo. Eh già. Anni di sfighe raccontate più o meno direttamente, scazzi lasciati filtrare nei racconti con un tatto da medico delle barzellette che deve comunicare al paziente che ha il cancro, dichiarazioni strappacore buttate in mezzo alla pagina senza il minimo riguardo sui cazzi altrui, e poi mi sposo così, senza preavviso, tranne giusto un paio di post risalenti a un anno fa dove più o meno s’intuisce che c’è una e che ogni tanto ci vediamo.

Se fosse un fumetto Marvel sarebbe la nuova gestione degli X-Men firmata da Jonathan Hickman, dove sembra sempre che ti sei perso dei numeri in mezzo.
Il mio editore verrebbe sepolto dalle lettere di protesta dei fans indignati, ma per fortuna non ce l’ho un editore, e neanche dei fans.
Data l’imminenza del matrimonio e la preparazione lasciata perlopiù al caso, sono sicuro che presto potrò comunque vantare un discreto numero di conoscenti indignati, per essere stati dimenticati dagli inviti, dai ringraziamenti o a tavola durante il ricevimento.
Scusatemi fin d’ora, è il mio solito modo di fare le cose: a cazzo.

E questo è il preludio felice, quando l’Attrice Famosa è convinta di avere davanti a sè un futuro radioso ed esce di casa cantando una canzoncina, e intanto si vede arrivare da una parte il suo oncologo e dall’altra un camion senza freni.

Nel mio caso, quello che vediamo arrivare dall’altra parte, è una rara malattia tropicale incurabile: il paraponzi.

Si tratta di un virus che si riteneva debellato già da due secoli, che nel passato ha mietuto vittime importanti, come Confucio, Attila e il poeta giapponese Hans Delbruck. Il paraponzi si trasmette solo mangiando certe larve del bambù che crescono in Thailandia, ma che localmente risultano innocue; è quando vengono stressate da un lungo viaggio che attivano un particolare enzima, che mescolato al succo di certi frutti tropicali può diventare pericoloso e produrre questo virus. Ma a chi vuoi che succeda di mangiare larve del bambù e insalata di mango fuori dalla Thailandia? Per questo nessuno si è mai preoccupato di trovare una cura, e per questo adesso sto assistendo a un disfacimento del mio organismo che non si può arrestare, non c’è antibiotico che tenga: il paraponzi ti apre delle ferite su una parte sporgente del corpo, a caso, e ti provoca febbri continue che finiscono per uccidere il tuo sistema immunitario.

Quando il progredire della malattia ha reso impossibile tenerla nascosta ho parlato a Shasha:

“Mia futura sposa, un’ombra di dolore incombe sul nostro futuro.”
“Ti è arrivato l’estratto conto della carta di credito?”
“Mi sono preso una rara malattia esotica, e adesso una parte sporgente del mio corpo si è riempita di piaghe.”
“Il naso?”
“No”
“Le orecchie?”
“Neanche”
“Le dita dei piedi?”
“Eh no”
“Oh dannazione!”

Non ho voluto credere che non esistesse una cura, e le ho chiesto di contattare la sua famiglia: i cinesi vantano una tradizione medica millenaria, conoscono dei rimedi che qui da noi non abbiamo mai neanche sentito nominare, figurati se non sanno curare il paraponzi.

“Mia mamma lavora da un commercialista”
“Tua nonna?”
“In effetti mia nonna prima di sposarsi viveva sulla Montagna Sacra dove parlava con gli spiriti e dava consigli non richiesti alle ragazze in età da marito.”
“Davvero?”
“No, è un ingegnere informatico. Ma la parte sui consigli non richiesti è vera. Comunque la chiamo, magari mi può aiutare.”

La seguente conversazione si è svolta in cinese. Per renderla fruibile ai miei lettori l’ho tradotta in italiano con Google Traduttore, quindi non mi assumo la responsabilità di eventuali errori di grammatica e ricette mediche discutibili.

“Ciao nonna, lo straniero con cui vivo si è preso il paraponzi, e adesso una parte sporgente del suo corpo è coperta di piaghe.”
“Il naso?”
“No”
“Le orecchie?”
“Neanche”
“Le dita dei piedi?”
“Eh no”
“È fottuto”
“Ma no, dai, dev’esserci un modo! Io quest’uomo me lo devo sposare, non mi arrendo così!”
“Ragazza mia, sarei felicissima di vederti sposata, anche se con uno che ha più peli sul corpo che idee in testa, ma l’unica cura per il paraponzi è tenere a bagno per un mese la parte infetta nella saliva di mucca, e nessun uomo sano di mente ficcherebbe per un mese il suo fiore di loto in bocca a un bovino.”

“Cosa dice la nonna?”, le ho chiesto, quando ha posato il telefono.
“È curabile, ma non sarà facile.”

Fino a qualche decennio fa il paraponzi sarebbe stato facile da curare, nell’area in cui vivo: i piccoli borghi arroccati sulle alture erano difficili da raggiungere, non ci arrivava neanche l’elettricità, figurati il postino, e nelle case nessuno aveva una lavatrice. Però tutti avevano una mucca, che ti dava il latte e tirava l’aratro, e dato che non esisteva youporn l’unico limite ai modi di impiegare un bovino erano dati dalla fantasia.

Oggi i tempi sono cambiati, le mucche sono diventate più consapevoli del proprio ruolo nella società, e non accettano più di essere ridotte a semplici oggetti di piacere.
La diffusione di internet fin nelle cascine più isolate ha favorito l’emancipazione delle mucche, creando una generazione di mucche istruite e indipendenti, che comunicano sui social e si scambiano opinioni e consigli. La nascita del movimento #Mootoo ha definitivamente seppellito le antiche forme di allevamento patriarcale.
non sarebbe stato facile trovare una mucca disposta a succhiarmi il fiore di loto, ma avevo ancora una carta da giocarmi.

Il ristorante dove abbiamo organizzato il ricevimento si chiama “Petrolchimica Fratelli Ottani”, e fino a qualche anno fa era una raffineria a pochi chilometri da dove abito.
Nata a metà degli anni ’70 grazie allo spirito imprenditoriale dei fratelli Osvaldo e Adelmo, la Petrolchimica Ottani ha saputo sfruttare la facilità con cui all’epoca venivano rilasciate le concessioni edilizie per creare un polo strategico lungo il torrente che attraversa la valle, a metà strada fra il porto di Genova e le aree industriali di Torino e Milano.
In tempi più recenti, la crisi energetica da una parte e una sempre maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi ambientali dall’altra, hanno fatto traballare questo gigante, ma la lungimiranza dei proprietari si è rivelata fondamentale: da alcuni anni è in corso una lenta riconversione dell’area in agriturismo, e oggi la produzione e raffinazione di carburanti è affiancata a un allevamento intensivo di animali da fattoria e produzione di verdura e formaggi a chilometro zero.

Certo, fa un po’ strano mangiare ravioli al montebore sotto una ciminiera che emette gas tossici, ma il pranzo di nozze a un prezzo così basso è impossibile da organizzare altrove, e a Shasha gli scarichi industriali davanti alla finestra ricordano quando abitava a Pechino.

Ho sempre trattato con Adelmo per l’organizzazione del ricevimento, ed è a lui che mi sono rivolto anche per questo problema.

“Scusa, cos’hai detto che ti serve?”, mi ha chiesto, ridendo. Poi mi ha interrotto per chiamare il fratello, che stava in un altro ufficio: “Osvaldo, questa non te la devi perdere!”

Quando entrambi i proprietari si sono seduti davanti a me ho ripetuto la mia richiesta: “Avrei bisogno di incontrarmi in privato per un mese con una delle vostre mucche.”

“Aspetta, aspetta!”, ha detto Adelmo al fratello, che strabuzzava gli occhi. E poi a me: “Spiegagli cosa ci vuoi fare!”

Non sarebbe stato facile neanche se mi avessero preso sul serio.

“Devo farmi succhiare il.. insomma.. avete capito.”
“Uah uah uah uah! Aspetta aspetta!”, è esploso Adelmo, e dando gomitate al fratello: “Chiedigli perché! Dai, chiediglielo!”

“E perché vuoi farti succhiare il.. coso?”, mi ha chiesto Osvaldo, che a quel punto faticava già a nascondere un sorriso uguale a quello dei bambini davanti ai clown.

“Per questioni mediche”, ho risposto con la voce piatta, già sapendo cosa avrei provocato.

I due fratelli si sono ribaltati sulla sedia, dandosi grosse manate sulla pancia. Lacrimavano come mia mamma davanti a uno sceneggiato, o come me davanti alla pagina facebook di mia mamma. Facevano dei versi come se li stessero scannando, ma era chiaro che se la stavano spassando da morire. Spero che almeno si siano pisciati addosso.

Dopo dieci minuti in cui hanno dato sfogo a un repertorio di ululati e versi che non credevo potessero essere emessi da un maschio umano adulto, si sono ricomposti, e fra qualche sbuffo ritardatario e con gli occhi gonfi, si sono guardati un po’ in faccia e Adelmo mi ha dato una risposta.

“Va bene”, mi ha detto. “Ma vogliamo guardare”.
“E fare un video”, ha aggiunto Osvaldo.

Ora non voglio mettermi a raccontare nei dettagli quel che è successo dopo, perché è troppo imbarazzante, né contribuire alla diffusione delle prove che ciò che ho raccontato è vero, perciò direi che il racconto finisce qui.
Shasha è a conoscenza di tutta la storia, compresi i dettagli più sconci, e per un po’ mi ha anche fatto delle scenate e c’è stato un momento in cui abbiamo rischiato di dover annullare tutto quanto e andarcene ognuno per la propria strada. I Fratelli Ottani sono stati fondamentali nell’aiutarci a mettere una pezza, non so se per spirito francescano o per timore di perdere l’incasso, ma hanno parlato a Shasha e le hanno promesso che avrebbero eliminato la sua rivale. Quando le hanno messo in mano il nuovo menù in cui al posto del cosciotto di maiale si serviva lo stufato di manzo, la mia futura sposa si è rincuorata ed è tornata sui suoi passi.

Da allora non abbiamo più avuto incidenti, la mia malattia sta regredendo, segno che la cura funziona, ma soprattutto il video, postato su uno di quei siti che visitate voi pervertiti, ha sfondato il tetto del milione di visualizzazioni.
Ieri sono stato contattato da una casa produttrice per girare dei corti con una gallina. A Shasha non l’ho ancora detto, aspetto di parlarle dopo la cerimonia. Fatemi tanti auguri.

Così tanto tempo senza scrivere neanche due righe non l’avevo mai lasciato passare, ma non è una novità, una volta smetti per una settimana, quella dopo per un mese, e prima che ti accorgi di non avere più nessuna ragione per sederti davanti a una tastiera è passato più di un anno dall’ultima volta che hai pubblicato due righe anche solo per dire che stai bene. Quindi la prossima volta passeranno probabilmente due anni, oppure non scriverò più e facciamo prima, che tanto oramai scrivere solo per dire che non sto scrivendo è una cosa che non serve a niente, e oltretutto credo di averlo già fatto un post o due fa.
È che di solito non scrivo perché ho qualcosa da dire, scrivo perché ho qualcosa da dire a qualcuno in particolare, e finché quel qualcuno non ti parla ma legge il tuo blog è facile essere prolifici, basta raccontare i cazzi tuoi e cambiare due nomi, mescolare le date, è un attimo che viene fuori il racconto divertente ma anche profondo e che bravo questo tizio lo raccomando alle mie amiche single che nelle disgrazie altrui ci sguazzano come pesci rossi. Ma quando quel qualcuno a cui vuoi raccontare le cose fra le righe non solo non legge il tuo blog ma neanche parla la tua lingua cosa fai? Non scrivi, facile. Non scrivi e quello che hai da dire glielo dici in faccia, di solito con la testa sul cuscino e la finestra aperta e la luce spenta e i gatti che vi dormono sui piedi.
Se sembra un bel quadretto familiare dove è tutto perfetto è perché lo è davvero, o perlomeno ci si avvicina molto, e quando non hai niente che ti prende a pugni da dentro non hai voglia di dire nient’altro a nessun altro, salvo magari invitare Andrea a un aperitivo quelle rare volte in cui ti girano due soldi in più.
Poi non è neanche del tutto vero, ho un paio di cose su cui ogni tanto mi metto lì e provo a lavorare, una è una riedizione migliorata dei miei diari di viaggio, ho pensato che magari a qualcuno potrebbe interessare pubblicarli, magari no, ma a me fa comunque piacere rimetterci le mani e aggiungere qualche dettaglio qua e là, o raccontare un aneddoto che quando l’ho pubblicato sul blog è rimasto fuori.
Lo dico così, un po’ per caso, che se un domani riuscissi a farci un libro ve lo andate a comprare come l’edizione di Avengers Endgame completa di extra.

E c’è sempre quella storia su cui stavo lavorando il post scorso, una vita fa, che allora ci aggiungevo materiale ogni giorno e contavo di finirla entro massimo quindici giorni, poi mi sono arenato, e dopo qualche mese che non la guardavo più ho provato a creare uno sfondo in cui ambientarla, ed è venuto fuori un disegno di fantapolitica che è un attimo che ti scappa di mano se non sei davvero ferrato sull’argomento, e difatti mi è scappata di mano e adesso sto cercando il modo di farla tornare nei ranghi mandando tutto in vacca, che quando mandi in vacca una storia non serve più che sia coerente, anzi, più sputtani meglio funziona. Però ancora ci provo, perché mi piace la direzione che ha preso, ma se la rileggo mi fa cagare, come tutte le cose che esulano appena un po’ dal mio solito modo di scrivere. Non mi ci riconosco, mi spaventa, ridatemi la mia comfort zone, e cerco di cancellare tutte le sbavature e trasformarla nell’ennesima storiella inutile.

Oppure è proprio che non ho più voglia di scrivere, è un processo lento, e una volta che ti abitui a twitter perfino facebook diventa troppo macchinoso, e allora che fai, ti cancelli, così ti togli pure di torno quella massa di vermi che si nutrono di spazzatura e te la sputazzano addosso quando ti vengono vicino.

Non è che quando parlo di vermi abbia in mente qualcuno in particolare, diciamo che mi riferisco in generale a quella grossa fetta di idioti che usano il cellulare solo per condividere video imbecilli e notizie che hanno trovato sui social, che poi è la loro unica fonte di informazione. Un po’ mi vergogno di loro, perché hanno in mano lo strumento più potente dall’invenzione della ruota e non sono in grado di distinguere una notizia vera da un proclama politico scritto in un italiano discutibile, ma più che altro mi fanno schifo, loro e i loro burattinai.

Se sembra che stia parlando di politica è perché lo sto facendo davvero, ed è un’altra delle ragioni per cui alla fine preferisco chiudermi in casa e non comunicare con nessuno, specialmente attraverso questi canali digitali. Sono seriamente preoccupato: quando c’era Berlusconi mi aspettavo che il vero danno lo avrebbe fatto il suo successore, perché vent’anni di campagna elettorale a base di culi e personaggi privi di credibilità politica ci hanno tolto gli anticorpi necessari a riconoscere le bestie. Ora siamo arrivati al dopo, sono arrivate le bestie, e davvero non ho idea di come sia possibile tornare indietro, e neanche credo che lo sia, possibile.
Non so se gli allarmi sul cambiamento climatico, le previsioni catastrofiche che ci vedono a un passo dall’estinzione, si realizzeranno davvero, ma in tutto il mondo stanno alzando la testa delle forze che non hanno niente a che fare con la democrazia, ma neanche con l’umanità e la ragione; gente che non pretendo si rifaccia a Voltaire, ma Raimondo Vianello sarebbe già un miglioramento; e io se devo immaginarmi l’umanità seduta su un pullman senza freni che corre verso un burrone preferisco che alla guida ci sia Trump, piuttosto che Obama. Ha più senso, è più coerente.

Ho detto Trump perché parlare dei protagonisti del caos nostrano mi dà la nausea al punto da non voler neanche scrivere il loro nome. E anche questa è solo l’anticamera di un casino ancora peggiore che deve ancora arrivare. E arriverà, tranquilli, mettetevi comodi e non vi curate di preparare il sacchetto di carta davanti alla faccia, quando scenderemo al prossimo livello dovrete imbracciare il fucile.

Ecco, di fronte a questo pensiero mi passa anche la voglia di scrivere queste poche righe, figurati un racconto vero.

È questo lo stato d’animo in cui passo le mie giornate, almeno finché non viene l’ora di tornare a casa e nascondermi fra le braccia della mia fidanzata extraterrestre, l’unico posto al mondo in cui mi sento al sicuro.

Non aspettatemi alzati, potrei tardare.

Quando la mia fidanzata è a casa malata mi aspetta dietro la porta e mi abbraccia appena entro perché si è sentita tanto sola per tutta la mattina, e mi devo preparare da mangiare con questa specie di zainetto sulla schiena. A niente serve ripetere “No touching!” No touching!”, lei non l’ha mai visto Arrested Development, e ne ignora i tormentoni. Mangio in fretta, che ieri sera mi ero tenuto qualcosa per il pranzo, e mi metto al computer per scrivere due righe di quella storia a cui sto lavorando da un po’ e che non riesco a finire perché mi sono bloccato a un punto morto, ma la sua richiesta di attenzione si fa sentire un’altra volta e, sebbene dieci minuti fa mi avesse detto che stava troppo male per mangiare, adesso mi si appioppa alle spalle lamentandosi che ha fame. Suggerirle di farsene è scortese, per i suoi standard orientali, e fingere di non avere sentito è ridicolo, visto che mi sta praticamente morendo in braccio. Così smetto di scrivere, tanto non riuscivo neanche a muovere le braccia, e mi offro di prepararle qualcosa di veloce, tipo una delle buste che abbiamo comprato dai cinesi, dove aggiungi l’acqua e la polverina si trasforma in Gordon Ramsey con gli occhi a mandorla che ti insulta in una lingua dagli accenti strani mentre ti prepara un brodino con un po’ di riso.

Ovviamente non vuole niente del genere, accampa una serie di giustificazioni puerili, tipo che sta seguendo una dieta cinese che vieta di mangiare alimenti conservati nelle buste di plastica perché il sottovuoto è privo di qi e questo danneggia un equilibrio che alla fine ti porta a volerti scofanare la pizza. Le faccio notare che la cocacola non è che sia meglio, ma lei dice che è zero, quindi con un salto logico che tre o quattro libri di filosofia greca hanno preso fuoco nello scaffale, mi spiega che il fatto di chiamarsi zero la rende una specie di simbolo della dieta, poi mi mostra una pagina della wikipedia cinese in cui si illustrano i benefici dell’aspartame sull’organismo. Le dico che secondo me non c’è da fidarsi, e il fatto nelle foto l’autore della pagina sia un ciccione con una barba posticcia seduto su una bici davanti al mercato delle truffe di Pechino, dovrebbe convincerla a tenersene lontana, ma il suo orgoglio nazionale si accende e lei si inalbera, e mi accusa di essere plagiato da una visione occidentalistica che fa di tutto per screditare il suo Paese. E si mette a insultare Trump, manco ne fossi un sostenitore.

Però è la mia fidanzata, sono innamorato di lei e non voglio ferirla, così cerco di assecondarla e vado a mettermi una parrucca arancione e una cravatta rossa, poi mi metto a cucinare i suoi spaghetti di riso preferiti mentre lei da dietro mi prende a calci sui talloni chiamandomi stronzone.

Con la pancia piena il suo temperamento si addolcisce, e posso tornare a indossare i panni del fidanzato amorevole, anche perché si è fatta l’ora di tornare al lavoro, e se mi presento vestito da presidente degli Stati Uniti i miei colleghi non la piantano più di prendermi per il culo. Già l’altra volta mi sono dimenticato di cambiarmi e da allora mi chiamano Kim Jong Pablo e mi controllano il collo per vedere se ho ancora i succhiotti.

Al mio ritorno la fidanzata è ancora malata, e si trascina per casa come una di quelle creature mezze decomposte a cui devi sparare in testa per farle smettere di agitarsi. No, non gli ospiti dei dibattiti tv, gli altri.
Sul fornello la pentola a pressione è coperta di una strana sostanza marrone che ha invaso tutto l’angolo cottura e sta colando sul pavimento. Provo a chiedere cos’è successo, ma la fidanzata malata si trascina a letto dicendo che è troppo malata per rispondere e ha urgente bisogno di riposare. I gatti mi fanno notare che la loro cassetta è piena di un’analoga sostanza, e che qualcuno dovrebbe pulirla prima che invada anche altre superfici, tipo il pavimento del salotto o quella pila di fumetti nel ripiano più basso della libreria.

A quel punto dovrei ammalarmi anch’io e telefonare a mia madre perché venga a risolvermi i casini, ma l’ultima volta che ci ho provato si è portata dietro i nipotini, che come ogni volta mi hanno smontato il Chewbacca di lego e hanno sparso i pezzi in giro per la casa. Tanto vale che trasloco, ho pensato, e mi sono messo a pulire da solo.

Stanco e depresso come dopo un lunedì di lavoro mi butto sul divano e scelgo un film da guardare, e dopo un po’ arriva la fidanzata malata, che mi si accoccola vicino e aspetta quei venti minuti che mi addormenti, accarezzandomi i capelli con dolcezza, poi cambia film.

E insomma sono stato a Parigi, che è come Torino ma più grossa e molto più cara, e a differenza di Torino è strapiena di italiani. Ora qualche lettore di vecchia data si ricorderà del mio punto di vista riguardo i nostri connazionali all’estero, ma per i nuovi arrivati credo sia necessario fare un riassunto: li detesto con tutte le mie forze. Se li vedo mi allontano, se mi ci trovo in mezzo fingo di non capire la loro lingua, se li sento parlare mi parte subito il pregiudizio, e me ne vergogno un po’, perché sono sicuro che gli italiani all’estero non sono tutti uguali, ed essendo io stesso all’estero con loro significa che o sono uguale a loro o il mio pregiudizio è sbagliato, perciò dovrei tacere.

Tuttavia l’idea che l’italiano nel mondo sia una delle specie in natura più vicine alla scimmia urlatrice durante l’accoppiamento mi resta appiccicata addosso ogni volta che varco i confini nazionali.

La cosa brutta è che gli italiani all’estero non fanno che confermare questo mio pregiudizio, rendendomi difficile superarlo.

Ecco alcuni esempi di italiano all’estero durante la mia ultima visita a Parigi:

  • Signore over 40 sul treno che mostra alla sua compagna tutti i video della vacanza a un volume che se fossimo allo stadio quando la mia squadra segna probabilmente lo sentirei lo stesso;
  • Signora che sullo stesso treno decide di rendere l’aria più gradevole al suo naso e spruzza del profumo in tutta la carrozza;
  • Signora che racconta di essere entrata al Louvre solo per fotografare la Gioconda e di essere uscita subito perché c’era troppa gente;
  • Signora che la Gioconda l’ha fotografata ed è riuscita a entrare e uscire in meno di venti minuti. L’ho fatto anch’io la prima volta che sono stato a Parigi, ma facevo seconda media ed ero in vacanza con una persona che i musei non li frequenta e, spiace dirlo, appartiene a quella categoria di italiani all’estero da cui mi tengo alla larga;
  • Signore che, sempre sul tema Gioconda, ha espresso ad alta voce il desiderio di riportarla in Italia;
  • Signora al Musèe d’Orsay che spiega a un ragazzino quella sensazione di smarrimento che si prova davanti a un’opera d’arte, nota come Sindrome di Stoccolma.
  • E vorrei chiudere ricordando della signora incontrata qualche anno fa a Londra, in una cappelleria di Regent Street.

Poi io sono di quelli che i francesi non sanno fare il caffè, quindi cosa mi lamento a fare dei miei connazionali quando faccio le stesse cose, ma perlomeno cerco di non farmi notare e nei musei come nelle chiese tolgo la suoneria al telefono, non bercio e rispondo educatamente. E rispetto la fila, pezzi di merda.

E comunque questa cosa del caffè va approfondita. Per anni ho creduto che un caffè buono fuori dall’Italia fosse impossibile da ottenere, ma l’esperienza mi ha smentito più volte. Negli anni ho bevuto caffè dignitosi in tutto il Portogallo, a Barcellona, da un tizio con la motoretta per strada a Praga, a New York, a Londra e perfino a Guiyang, nel sudovest della Cina, ma qualunque locale francese, che sia Parigi o Marsiglia, ti riempie una tazzina di una bevanda che sa solo vagamente di caffè. Sono giunto alla conclusione che siano proprio loro a volerlo così, come gli americani amano il bicchierone di brodazza i francesi preferiscono questa specie di tè. E non lo fanno solo col caffè, in un locale di fronte al Palais du Luxembourg ho chiesto una cioccolata calda e mi hanno portato quella roba che la macchinetta al lavoro mi propina quando si rompe l’erogatore del latte: acqua, zucchero e una spruzzata di polvere di cacao.

A parte i miei connazionali, e il dramma del caffè, il viaggio a Parigi è andato molto bene, ho speso diverse migliaia di soldi in cose indispensabili tipo mangiare o comprarmi delle scarpe fighissime e ho scoperto nuovi angoli della città ancora sconosciuti nonostante fosse la quarta volta che ci andavo.

Non mi metterò a riportare il solito diario di bordo perché quello della Cina si è trascinato per undici episodi, e qui non credo neanche sia necessario, in fondo Parigi bene o male la conosciamo tutti, è una città europea più o meno uguale a quelle che abbiamo qui da noi e nessuno fa cose particolarmente strane o insolite, a parte incazzarsi col governo e fare casino finché non ottengono qualcosa.

Ecco quindi una lista di aneddoti e brevi recensioni che potrebbero tornare utili nel caso doveste recarvi nella capitale della Francia. Potete anche leggervi quella che ho scritto la volta scorsa, che si trova qui.

Il TGV
Puoi prenderlo da Milano Porta Garibaldi o, come noi, da Torino Porta Susa. Parte alle sette e qualcosa e in stazione la mattina del primo gennaio non c’è un cazzo di bar aperto che ti prepari un caffè. E fa un freddo cane.

Il treno in seconda classe è poco differente da una seconda classe di un qualunque interregionale, tranne che i sedili si inclinano un pochino senza disturbare chi sta dietro e hai un tavolino pieghevole come quelli degli aeroplani. E ci si dorme malissimo.

E infatti non si è dormito neanche un po’

Marais
Il Marais è quell’area cittadina che si estende fra il 3° e il 4° Arrondissement, dove Arrondissement è come l’amministrazione parigina chiama i suoi quartieri. Ce ne sono venti e vengono contati a spirale dal centro. Quindi quando trovate un airbnb che sta nel diciottesimo arrondissement lo scartate convinti che sia lontanissimo, e invece per 45 soldi a notte potevate dormire nel quartiere dei pittori a Montmartre, stolti!

Noi stavamo nel Marais, appunto, a cinquanta metri da Place des Vosges, in un monolocale grande come il mio bagno dove se uno doveva fare la cacca l’altro usciva per non sentirsi come quando porti il cane a fare i suoi bisogni, che si spreme e intanto ti guarda.

Place des Vosges ospitava gli aristocratici e i nobili prima della Rivoluzione, ancora adesso è possibile visitare la casa di Victor Hugo e diversi edifici di un certo pregio estetico. Dopo la Rivoluzione di nobili non se ne trovavano più, e in piazza si sono trasferite le gallerie d’arte. Ce n’è una ogni due metri, tutte specializzate in quello che va di più oggi, l’arte contemporanea. E la street art: quando le cerchi su internet tutte le gallerie ospitano opere dei nomi più famosi, come Banksy o Obey. Poi ci vai e trovi una statuetta di Minni fucsia. Però sono divertenti, me ne sono girate tipo mille in uno spazio di dieci metri quadri.

Place des Vosges

Il resto del quartiere è tutto negozietti, boutique hipster che dopo la quarta scopri che vendono tutte gli stessi articoli, gli stessi gioielli, lo stesso modello di cappotto. Come i negozi etnici si servono da un unico fornitore thailandese così le boutique hipster parigine riempiono i loro scaffali coi prodotti di un’azienda coreana, di proprietà di un signore che ha studiato arte moderna e ha i baffi.

Nel Marais si trovano anche il grosso della comunità LGBT e di quella ebraica, ma entrano in contatto solo quando nel privè del cruising bar si scopre che uno dei due è circonciso.

La Tour Eiffel
Ci sono stato sopra la prima volta, da bambino, e ammetto che mi piacerebbe tornarci, che ho una fissa per i palazzi alti, sarà che sono rimasto dodicenne, ma da allora ogni volta che ci capito sotto è un incubo di gente, e desisto.

Oltretutto sembra che con gli anni vada sempre peggio.
Per dire, a me piace arrivarci dal Trocadero, il palazzo che ci sta di fronte: esci dalla metro, giri l’angolo e te la trovi davanti, tutta insieme. L’ultima volta che sono stato a Parigi l’effetto è stato quello, di sorpresa.
Adesso appena sali le scale e sbuchi in strada devi scavalcare una marea di ambulanti che coprono la strada di piccole torri di plastica con le lucine o ti vendono l’ombrello, e di turisti che contrattano o cercano di passare.
E ti saluto effetto sorpresa. In più giri l’angolo e c’è un muro di gente lungo tutta la balaustra e sulle scale, tutti col telefono in mano a farsi selfie. Io così tanta gente al Trocadero non ce l’avevo mai vista, ci sono rimasto male.

A questo punto molto meglio regalarsi il primo incontro con la Torre dal finestrino della metro: se prendi la 6 da Montparnasse passi sul ponte di Bir-Hakeim, e te la trovi accanto, vicinissima e solitaria.
Sotto lo stesso ponte, se siete di quelli come me che amano visitare le locations dei film, ci hanno girato una scena di Inception.

L’altro ottimo sistema per godersi la vista senza prendersi a spallate è scendere al fiume prima di attraversare il ponte: non c’è praticamente nessuno, e quando cala il sole le luci della struttura si riflettono nell’acqua, regalandoti un’inarrivabile atmosfera da limoni.

Dopo un po’ finisce per piacerti

Montmartre
Anche qui i turisti si sprecano, e anche in questo caso per delle attrazioni vabbè.
Vai a Pigalle, che è appena sotto la collina, e non c’è nessuno fino al tramonto, anche perché ci sono soltanto sexy shop e locali di striptease, finché non aprono cosa ci vai a fare? C’è qualcuno che fa le foto al Moulin Rouge, ma a quell’ora c’è sempre il camion davanti che scarica le bottiglie.
Sali un attimo per Rue Lepic, che sta proprio accanto al mulino, e sei in mezzo al set di Amélie, c’è il cafè Deux Moulins con una decina di fotografi davanti, perlopiù cinesi, e diversi negozi di chincaglierie. Sali ancora fino a Rue des Abbesses e turisti non ce n’è più, e neanche negozi di magneti da frigo. In fondo alla via c’è la stazione della metro più bella della città, ma questo ve l’ho già detto l’altra volta.
Saliamo ancora in Rue Tholozé, una stradina ripida che non offre nessuna attrattiva e infatti cosa ci saliamo a fare. Ci saliamo perché lì davanti, sulla collina, ben visibile dalla strada, si trova l’unico mulino che vale la pena ricordare, quello che si chiama Radet, ma che tutti conoscono come Le Moulin de la Galette. Quello dei quadri di Renoir e Van Gogh.
A quel punto puoi continuare a salire o tornare indietro e prendere un’altra strada, ma tanto lo sappiamo che arriverai in cima, alla piazzetta dei pittori. È lì che vanno tutti i turisti, non ci si scappa. E loro, i fetenti, lo sanno. Tutti lì li trovi, quelli bravi e originali che vorrebbero vivere del proprio talento e gli altri, che sono la maggior parte, che ti propinano le solite caricature, i ritratti, i paesaggi coi colori sparati che fanno un casino alternativo, e le stesse crostone tutte uguali che ritrovo ogni volta che scendo giù per Via San Lorenzo, a Genova.

L’altra grossa attrazione del quartiere è la chiesa, le Sacré-Coeur, con le sue cupole bianche e la pianta a croce greca, nonostante non sia niente di speciale. Ma ha una forma particolare, da chiesetta disneyana, e sta in cima a un monte da cui si gode di una bella vista di Parigi, e poi non sottovalutiamo che ha la parola “cuore” nel nome, c’è ben più del necessario per farla diventare oggetto di interesse per i turisti di tutto il mondo. Per questo oggi ci sono anche truppe di ambulanti che ti vendono i lucchetti a forma di cuore da appiccicare alla ringhiera, come se non ce ne fossero già abbastanza di cazzate e di coglioni che le seguono, puttana la loro mamma.

Altro set, ma del tutto ignorato dai turisti nonostante i richiami al film siano ovunque

Green Tea House
Un piccolo ristorante vietnamita in una delle mille traverse di Champs Élisées, ma se vuoi sapere dov’è di preciso puoi cercarlo su google.
Gestito da una coppia dove lui cucina e lei sta al banco e serve i tavoli, che sono quattro, è il posto migliore che ho trovato in città per mangiare il pho, la zuppa con gli spaghetti e la verdura che cucinano in ogni Paese dell’estremo oriente, ognuno a modo suo. Per esempio i cinesi fanno il tanmian, che per un vietnamita è una roba completamente diversa, ma per me è un’altra zuppa con gli spaghetti e la verdura. Capire le culture diverse dalla nostra è più difficile di quanto si creda.
Non che questo vi autorizzi a sputarci sopra, teste di cazzo.
Comunque i prezzi sono contenuti, che per Parigi è raro, e la qualità notevole. Due giorni dopo abbiamo provato un altro vietnamita vicino a casa, scrauso nell’aspetto e tremendo nel sapore. Non vi dico come si chiama, ma sta vicino a una pasticceria ebraica.

Louvre
Il biglietto costa 17 euri, e ci sta, che ti permette di entrare nel museo più grande del mondo, però sarebbe meglio farlo online, perché la coda alla biglietteria è la più lunga del mondo, e già visitare tutto il museo richiede qualche ora, perché perderne altrettante fuori al freddo?
E già che ci siamo, quando dovete entrare non è necessario farlo attraverso la piramide di vetro che sta al centro, potete usare una qualunque delle entrate laterali. Quella meno affollata si dice essere la Porte des Lions, che se vi trovate con la piramide davanti e il giardino dietro si trova alla vostra destra, in fondo alla lunga ala dell’edificio. Ci sono due leoni all’ingresso, dai, non è difficile.
Quando ci siamo entrati noi erano le cinque, e non c’era nessuno. Nel vero senso della parola, nessuno, né gente che entrava né impiegati del museo a controllarti il biglietto. Solo un addetto al metal detector, che ti mette lo zaino sul nastro e ti passa la paletta addosso. Superato quello ci siamo trovati dentro il museo, coi visitatori che andavano in bagno e quelli fermi sulle scale a capire dove sta Monnalisa (sta lì vicino, peraltro). Vabbè, ce lo controlleranno più avanti. No, quello è un quadro, i quadri stanno dentro il museo, quindi noi stiamo dentro il museo coi quadri, nessuno ci ha controllato i biglietti, abbiamo speso 34 soldi per niente. Abbiamo aiutato il museo, mettila così.

Le opere all’interno non c’è bisogno che ve le descriva, uno entra al Louvre anche solo per godersi i corridoi con le tele gigantesche appese.

Bonvivant
Un café nel Quartiere Latino, incontrato per caso e scelto senza fare troppa attenzione. Ci è andata bene, l’arredo è moderno, in legno chiaro, accogliente, e il personale è giovane e sorride a tutti. Le porzioni sono proporzionate al prezzo, che è proporzionato alla città. Insomma, costa un botto, ma almeno mangi. E mangi bene, devo dire. All’uscita abbiamo scoperto che il locale è consigliato dalla guida Michelin. Ah ecco perché.

Institut du Monde Arabe
Sta vicino al locale di cui sopra, in fondo alla via, e nel mezzo ci sono un casino di fumetterie, quindi per arrivarci ti ci vuole mezza giornata. Non so molto di questo posto, ci sono entrato perché avevo appuntamento lì fuori con una coppia di amici e faceva freddissimo. Ha una terrazza panoramica all’ultimo piano da cui vedi Notre-Dame, e una libreria che non ho avuto tempo di esplorare, ma sembrava ricca. C’è anche uno spazio in cui si organizzano mostre multimediali, mentre eravamo lì ce n’era una che presentava una ricostruzione virtuale di Palmira.

Musèe d’Orsay
Credo di avere già detto tutto altre volte, prima la coda eterna la evitavi comprando il biglietto online, adesso ti becchi la coda eterna di chi ha comprato il biglietto online. C’è sempre il chiosco di fronte all’entrata dove puoi comprarlo sul momento allo stesso prezzo, e senza aspettare, ma poi l’ingresso è comunque soggetto ad attese che ci sta dentro comodo un paio di episodi della vostra serie TV preferita.
Una delle guardie, molto scortese, ha attaccato a gridare a un signore che chiedeva informazioni, e non si sono menati perché è arrivato il suo capo e l’ha allontanato, ma se il tuo lavoro è avere a che fare con la folla e la tua attitudine è quella di menare chi ti fa domande con insistenza forse dovresti cercarti un altro lavoro. Tipo l’ultras allo stadio.
Che altro posso dirvi di uno dei musei più visitati al mondo? Che il guardaroba è veloce e gratuito, lasciateci la giacca, ne vale la pena.

Centre Pompidou
Un altro museo enorme, una struttura di tubi colorati che giace in mezzo alle case con l’armonia di un gatto sdraiato nel presepe. Qui la coda per entrare è lunghissima, ma solo se vai a vedere la mostra dei Cubisti al primo piano, o se non hai già comprato il biglietto. Noi figli del digitale, come al solito, ce lo siamo fatto online, così entriamo subito e ci troviamo a condividere lo stesso atrio con quelli dell’altro ingresso. E alla biglietteria non c’è nessuno. Io davvero boh.

L’esposizione permanente del Centro Pompidou copre tutto il periodo dal Fauvismo all’arte contemporanea, perciò andrebbe visitato subito dopo quello degli Impressionisti di cui ho parlato prima. Sia la permanente che la mostra sui Cubisti sono esaustive, con grossi pannelli informativi a spiegarti i chi e i perché, e qualche opera apparentemente scollegata a fornire le note a piè di pagina. Tipo una grossa vetrina piena di maschere africane per introdurre una sezione dedicata a Picasso, cose così.

All’ultimo piano c’è un ristorante in cui mio padre mi ha portato durante la mia prima visita in città. Era un buffet, costava poco e ti davano un casino da mangiare, e ci andavamo tutti i giorni, a farci delle piattate di qualcosa che non ricordo ma aveva le salsine sopra e a guardare la città, che da lassù se ne vede un sacco. Oggi c’è ancora un ristorante, ma decisamente più raffinato, e sulla terrazza a guardare la città non ci siamo stati perché faceva un freddo che ti gelavano anche le bestemmie.

Fuori dal Centro Pompidou ho da segnalare due cose interessanti: una è un piccolo negozio di falafel, Falafel du Liban, sta alla fine di Rue Rambuteau, a cinquanta metri dal museo. È piccolo, con due tavoli se vuoi stare dentro, e prepara la shawarma più buona che ho mai mangiato.
L’altra nota a margine è Banksy. Il più famoso street artist al mondo ogni tanto compare con qualche opera nuova, in giro per il pianeta, e inizia la caccia: i giornali ne parlano, la gente va a vederlo, il proprietario del muro su cui è comparsa lo rimuove per rivenderselo a cifre paurose o gli altri artisti lo vandalizzano. L’anno scorso, alla fine di giugno, nove suoi disegni sono comparsi in città. Fosse stato per me li avrei scovati tutti e nove, ma non viaggiavo da solo, e la mia fidanzata aveva altre priorità, essendo la sua prima volta nella capitale francese. Mi sono accontentato di quello appena fuori dal Centro Pompidou, su un pannello nella stessa Rue Rambuteau di prima.

sì, quello che tiene in mezzo alle gambe è il suo grosso arnese

Cimitero di Père Lachaise
Ogni volta che vado a Parigi faccio un giro dei cimiteri, ma se sono stato tre volte in questo non mi è mai capitato di entrare in quello di Montparnasse. Stavolta la mia visita è breve, assecondo i desideri confusi di Shasha, convinta chissà perché che i cimiteri debbano essere tutti pianeggianti, e che in dieci minuti ti giri tombe dove chissà, magari la celebrità che la occupa ti fa pure un autografo. Quando scopre che non ci sono cartelli e grosse frecce luminose a indicare il sepolcro che ti interessa perde rapidamente interesse nel luogo e decide di avere visto abbastanza. Il vantaggio di stare con una ragazza cinese è che difficilmente vorrà farsi un selfie sulla tomba di Jim Morrison. A me va benissimo, che la meta successiva è un posto dove non sono mai stato, Belleville.

Belleville
Premetto che, da lettore di Pennac, ho un sacco di ottime ragioni per visitare questo quartiere ed emozionarmi davanti allo Zèbre, e che il tempo a disposizione è stato poco e non sono riuscito a godermi tutto quello che il quartiere offriva, e quindi ahimè dovrò tornarci.
Belleville appare come un quartiere periferico, ha poco in comune con le aree del centro, coi palazzi eleganti e i lampioni art-déco; sembra più uno di quei posti dove loschi personaggi stazionano sul marciapiede e ti fanno venire voglia di attraversare la strada. È abitato praticamente solo da cinesi e da arabi, che si dividono le strade in modo deciso, come si può capire dalle insegne dei negozi.

Ma allora uno cosa ci dovrebbe andare a fare?
Beh, intanto ci sono parecchi graffiti sui muri, un po’ ovunque, se hai tempo e voglia puoi metterti a cercare il tuo artista preferito, capace che lo trovi. Banksy non credo che ci sia, comunque. Invader sì, ma lui è dappertutto in città.
Poi potresti andarci proprio per respirare questa commistione di etnie, che in Francia è abbastanza comune, ma a Belleville è piuttosto intensa; e poi c’è sempre la questione Pennac, se hai letto la saga della famiglia Malaussène non c’è bisogno che ti convinca, probabilmente Belleville era già nella tua lista.

In ogni caso, dovesse capitarti di trovarti lì all’ora di pranzo (credo valga anche per la cena), ti consiglio caldamente di fermarti al Le Tais, un ristorante marocchino dalla sala piccola e dai piatti giganti. È sempre affollatissimo, ma a quanto pare l’attesa per un tavolo non è lunga, e in poco tempo ti siedi in braccio a qualche altro avventore e ti godi un pranzo più che dignitoso. Io a Belleville ci tornerei solo per quel ristorante lì, anche se poi dovrei tenermi la voglia di provare quel cinese sulla strada per il parco, che sembrava interessante, e allora dovrei tornarci una terza volta, e insomma, andare a mangiare con regolarità a Belleville potrebbe risultare dispendioso, meglio trovare qualcosa di analogo a Genova, anche se è più difficile.

Gilets Jaunes
Li ho incontrati sotto l’Arc de Triomphe, di cui non vi dico niente perché cosa vuoi dire di un arco gigante in mezzo a una piazza rotonda da cui si dipanano diversi viali pieni di centri commerciali e negozi costosi? Chiaro che se vi dicessi qualcosa vi parlerei dei centri commerciali, tipo le Galeries Lafayettes dove varrebbe la pena entrare più per la grande cupola colorata che per il negozio in sé, o il Printemps, che ti permette di salire alla terrazza panoramica, o il fatto che a natale entrambi espongono una serie di vetrine meccanizzate piene di buffi animali che fanno cose, non come quelle scrause del presepe sotto casa che al massimo c’è il bue che fa girare la macina del mulino, e alla fine non vi racconterei niente dell’Arco in sé, perché alla fine cosa vuoi dire di un aggeggio così ingombrante costruito solo per celebrare una vittoria militare? Che ci puoi andare sopra, e dicono che ne valga la pena, e che ad avvicinarsi ci sono dei bassorilievi che uno potrebbe mettersi lì e raccontarti, ma mi viene già sonno così, quindi vi parlo dei tizi che ci stavano sotto, all’Arco, sul marciapiede da cui sono sbucato arrivando con la metropolitana.

Erano una decina, e indossavano la casacca gialla che tieni in macchina in caso ti capiti di scendere in autostrada per cambiare una gomma e non ti vada granché a genio di farti investire da qualche camion. C’era anche un muletto, uno di quei carrelli elevatori che si usano nelle aziende, parcheggiato lì vicino. Era quello, ho scoperto dopo, con cui alcuni manifestanti avevano sfondato un portone di qualche ufficio ministeriale quello stesso giorno. Non mi è chiaro come fosse arrivato lì senza che il guidatore venisse arrestato, considerato che a fronteggiare la decina di manifestanti c’era qualcosa come cinquanta poliziotti in antisommossa.
Non sembrava una situazione pericolosa, c’erano più turisti che manifestanti, e uno dei poliziotti che teneva un cannone a tracolla si faceva le foto con delle ragazze orientali. Sono andato a chiedergli se era previsto l’arrivo della grossa manifestazione di quel giorno, e mi ha risposto di sì.
Era sabato, e tutti i sabati a Parigi c’è una grossa manifestazione di Gilets Jaunes che va a finire sotto l’Arc de Triomphe. All’inizio raccoglieva moltissimi francesi incazzati, ma col tempo (siamo già intorno alla decima manifestazione) il numero si è ridotto, anche grazie ad alcune concessioni del governo che hanno accontentato una parte delle richieste, e oramai a scendere in strada sono rimasti gli irriducibili che chiedono le dimissioni del presidente Macron.
Sono arrivati dopo poco, saranno stati due-trecento. Non ci ho capito molto, ho visto cartelli con slogan contro l’Europa, cazzate populiste che vanno tantissimo anche qui, e a girarci in mezzo mi sono sembrati gli stessi irriducibili che incontravo la domenica allo stadio, con le stesse armi di fortuna e le facce coperte, e gli stessi riti di sfida agli agenti che stanno dall’altra parte. Tre tizi vicino a dove stavo si spronavano l’un l’altro ad andare a fare casino. “On va à casser?”, si dicevano. I poliziotti, per non deludere i tanti turisti arrivati fin lì, hanno fatto due manovre avanti-indietro-avanti, fai la giravolta-falla un’altra volta e hanno lanciato due lacrimogeni sui facinorosi, che nel frattempo avevano dato fuoco a qualcosa là davanti. Teatro, niente di più. Non ci sono state cariche, incidenti, situazioni pericolose, dopo un po’ i turisti si sono dispersi e con essi anche la ragione principale di tutto quel trambusto. Ciao, grazie a tutti, ci ritroviamo qui la settimana prossima alla stessa ora.

meh

La mattina dopo, sotto casa, ci siamo imbattuti in un altro corteo, stavolta erano studenti, e si sono limitati a cantare le loro canzoni senza troppo disturbo.

Non ho ben chiaro cosa sia questo movimento, ma credo di aver capito che in Italia non abbiamo capito niente e cerchiamo tutti quanti di appiccicargli un’etichetta e tirarli dalla nostra parte, qualunque essa sia. In realtà sono semplicemente francesi, gente abituata a scendere in strada e fare casino quando vogliono qualcosa, e quest’abitudine non sta a destra o a sinistra, è trasversale. La cosa più vicina che abbiamo qui è il tifo per la Nazionale di calcio, per forza non li capiamo.

Poi non voglio andare oltre perché sono abbastanza sicuro di avere detto delle idiozie e non mi sembra il caso di peggiorare la mia già scarsa immagine pubblica. Non parlo di quello che non conosco, se posso evitarlo. Se volete aggiungere qualcosa voi i commenti sono qui sotto, sarò felice di leggerli.

Qui è dove dovrei raccontarvi che succede, che dopo i resoconti puntuali del mio viaggio in cina ho lasciato il blog al consueto abbandono, e magari qualcuno pensa che sia tornato a grattarmi la pancia sul divano davanti a Netflix. Ebbene, non è così.

Cioè, sì, mi sto grattando un casino la pancia, anche perché con tutto quello che ci sto infilando dentro durante queste feste ho bisogno di fare posto, e ho letto da qualche parte che grattarsela serve a muovere le cose dentro e recuperare centimetri cubi preziosissimi in vista del cenone di fine anno.

Ma non è quello che mi sta tenendo lontano da questo schermo, e neanche Netflix.

Cioè, anche Netflix, che qualcosa di bello lì sopra ce lo trovo sempre, e se riesco a non addormentarmi dopo dieci minuti per la pennica postprandiale arrivo anche a scoprire pellicole importanti. L’altra sera per esempio ho visto Split, che parla del professor Xavier che esce di testa e diventa venti persone diverse e finalmente fa quello che chiunque farebbe se si trovasse come lui dotato di poteri psichici e di un liceo: molesta le ragazzine.

Ma non è quello che mi sta portando via tutto il tempo, e neanche i videogiochi.

Cioè, anche i videogiochi, soprattutto Mad Max, che ha una storia fighissima e un’ambientazione che domani mi spruzzo la vernice dorata sui denti e mi metto a guidare l’ape per strada urlando “ammiratemi!”, tanto il mio paese sembra il deserto tutto l’anno.

Ma non è quello, e neanche la mia fidanzata, che si è trasferita a casa mia e per un anno buono dovrebbe restarci, con buona pace del mio gatto che si sente usurpato del ruolo di padrone di casa, e del mio computer che improvvisamente si è messo a parlare cinese e a diffondere dalle casse canzoni di Beyoncé, e del mio bagno, che trabocca di prodotti per il viso per le unghie per il trucco per lo strucco per il barbatrucco per le mani per i piedi per i capelli per le orecchie per i denti per l’idratazione per la disidratazione per i riflessi per le ombre per delle cose che non so cosa siano perché sono in cinese ma sono tanti e sono ovunque, e con buona pace anche del tempo che dedicavo alla scrittura e adesso devo impegnare per aiutarla coi compiti di italiano e andare a fare la spesa insieme e tenerla lontana da Sephora sennò avremo presto bisogno di un altro bagno.

No, la ragione per cui non sto scrivendo qui sopra è che sto scrivendo da un’altra parte, che poi in realtà è sempre qui sopra ma in un’altra pagina privata, e certe volte mi dimentico perfino di fare il backup e posso solo sperare che i proprietari dello spazio che utilizzo non falliscano di colpo, o metà della mia già scarsa produzione finirebbe nell’oblio, ma che ci volete fare, io per qualche ragione mi sento più prolifico se scrivo direttamente sul browser che se uso un foglio word. Boh, non sto bene.

Comunque è quello, sto scrivendo un racconto che è cominciato come una specie di sfogo sull’attuale situazione politica di cui però preferisco non parlare perché sennò m’incazzo e non vi racconto più cosa volevo dire, ed è finito per diventare una cosa più elaborata, tanto che dopo nove pagine sto ancora raccontando di come i protagonisti, che per una volta sono più di uno, dovranno ottenere quello di cui hanno bisogno per poter andare avanti col loro piano, tipo che sono alla fase uno di un progetto che potrebbe averne un numero che mi fa paura contemplare, perché sennò lo so già che mi sembra un lavoro improbo e come tutti i lavori improbi mi passa la voglia di scriverlo e pianto lì, fossero anche soltanto due punti più in là.

Non so cosa succederà dopo e non lo voglio sapere, sennò è come raccontarsi la storia usando meno parole, e io una storia che so già come finisce non ho voglia di leggerla di nuovo, quindi la leggo per la prima volta mentre la scrivo, e spero che nel frattempo non mi venga voglia di leggerne un’altra.

Voi tenete duro, se mi viene da aprire altre parentesi ci rivediamo qui fra un paio di giorni, sennò quando finisco il racconto.

Che poi non è neanche detto che lo pubblicherò qui, magari lo vendo alla Feltrinelli e ci faccio un sacco di soldi e questo blog lo chiudo senza neanche salutarvi.

In ogni caso fra due tre giorni parto per Parigi, al ritorno potrei avere da raccontare qualcosa.

Però anche voi non è che interagite più di tanto, eh? Come faccio a sapere che là fuori c’è ancora qualcuno che mi legge? Stronzi.

Lunedì 20

Mi alzo quando lo decido io, e mezza giornata è già andata. Vado a piedi fino all’hotel di Shasha, così da arrivarci intorno all’ora di pranzo, che trascorriamo in uno dei ristoranti giapponesi del mall, seduti a una grossa tavolata di impiegati. Mangiamo anche piuttosto bene, per essere un locale da pausa pranzo.

Per digerire la mappazza mi faccio prestare la bici e cerco di raggiungere il quartiere di Chaoyang, dove si trova la sede della televisione, il famoso Palazzo Mutandoni. Proprio di fronte si sta costruendo una torre nuova, che dovrebbe diventare la più alta della città, e secondo il francese che viveva nell’altra stanza dovrebbe già essere visitabile, lui c’è stato e racconta di viste memorabili dalla terrazza panoramica.

Faccio un bel giro, passo davanti a un edificio senza finestre che ospita un ministero, supero la via delle residenze diplomatiche, dove ogni villetta è protetta dalla polizia e da cancelli antisfondamento, e se sei il fattorino che consegna la pizza ogni volta è un dramma.

Mi fermo per una bibita ristoratrice al Galaxy Soho, che fra tutti i mall di Pechino è il più figo, anche se i suoi addetti alla sicurezza non sanno scrivere “security” e sfoggiano grossi errori di ortografia sul giubbotto.

Cetamente

Il palazzo che voglio visitare è circondato da un cantiere, l’ampio ingresso è sbarrato da una palizzata. Non solo è chiuso, non ne è prevista l’apertura prima del 2019. Mi pento di non avergli mangiato tutta la marmellata, a quel fanfarone coi baffi.

Neanche Mutandoni è visitabile, a quanto capisco dai gesti della guardia che ci sta davanti. Ma non parliamo la stessa lingua, chissà cosa ci siamo detti.

Vabbè, torno indietro, tanto la bici è divertente da usare, e mi faccio tutto il viale, lo stesso che poi arriva a Tiānānmén, con uno scatto da rapinatore in fuga.

A sorpresa e mettendo a repentaglio la mia stessa incolumità scarto a sinistra, giù per Chongwenmen, fino al Glory Mall: il demone dello sport mi ha ormai posseduto, e la bici non mi basta più. Compro un paio di scarpe da corsa di una marca cinese che va per la maggiore.

Nei miei sogni perversi mi alzo un’ora prima tutte le mattine per correre, e in breve ritrovo la tonicità dei miei vent’anni.

Le proverei appena arrivato a casa, ma ho da preparare la cena, e mandare via Gordon Ramsey, che si aggira ancora per la cucina in attesa degli avanzi.

Mutandoni ha un fascino che voi che non avete mai giocato a Tetris non potete capire

Martedì 21

Prima ancora di fare colazione indosso le scarpe nuove e scendo in strada, carico come l’orsetto delle duracell. Per essere la prima volta che corro in dieci anni non me la cavo male, percorro l’intero isolato (un chilometro, più o meno) in meno di due ore, e quando rientro in casa sono ancora vivo e cosciente. Alive and kickin’, direbbero i Simple Minds, ma riferendosi alla mia milza.

Mi butto sul letto aspettando di morire, e mi rialzo solo per raggiungere a pranzo l’altra metà della coppia. Nonostante ogni muscolo del mio corpo sembri yogurt sono soddisfatto dell’impresa eroica appena compiuta, e per premiarmi faccio una cosa che non avevo ancora fatto prima, ma che desideravo da un po’: mi fermo a comprare da un negozietto che si affaccia sulla strada, dietro la stazione della metro. È un buco composto da una cucina in cui lavora un tizio e una finestrella da cui una signora vende i suoi prodotti. Fanno ravioli, baozi, e delle focaccette ripiene di carne che sembrano invitanti, i xiàn bǐng (馅饼)

Ne chiedo una, mi dice quattro. Faccio per darle quaranta, e lei ripete “no no, quattro”. Questa vende focaccette di carne per cinquanta centesimi l’una. Non sono enormi, sono più o meno della dimensione di una pizzetta, ma cinquanta centesimi? Voglio venire a vivere qui.

Naturalmente il negozietto della signora diventerà una meta obbligata ogni mattina dopo la corsa e la colazione.

Superato il pranzo in uno dei ristoranti del mall andiamo a Chaoyang, perché Shasha ne ha per le balle di stare in ufficio e decide di inventarsi una missione in città. Che la mia ragazza marini il lavoro per stare con me mi fa una tenerezza che mi lascia disarmato, ma proprio Chaoyang che non c’è un cazzo? Non potevamo andare a Sanlitun? Vabbè.

Finiamo a girare per l’ennesimo mall, figo quanto vuoi, ma praticamente deserto. Mi chiedo, ma in tutti questi enormi centri commerciali la gente ci va? Ci compra? Quelli che si affacciano su Wangfujing sono sempre affollati, ma quella è un’area molto turistica, ci sta. Qui non c’è anima viva. Poi penso che è martedì, durante l’orario di lavoro, e che i negozi sono di fascia piuttosto alta: si vede che in un quartiere di uffici come questo quando i dipendenti staccano preferiscono andarsi a spendere i lauti stipendi piuttosto che tornare a casa. Oppure non ho capito come funziona l’economia cinese, e mi sembra più probabile.

Prima di andare via ci prendiamo un gelato grattugiato da IceMonster, pubblicizzato come uno dei migliori dieci gelati al mondo. Avessero detto della Cina avrei potuto crederci, ma così si guadagnano un enorme SEH!

Ice Monster’s monster

Si tratta di una montagna (letteralmente) di ghiaccio tritato e cosparso di succo, adornato con pezzi di frutta sciroppata e accompagnato da una bevanda, magari non avessi ingurgitato abbastanza liquidi così. Non è male, specie se lo mangi in una città dove il pavimento si scioglie per il caldo e l’umidità non ti lascia respirare, ma il gelato du caruggiu non ha rivali.

Mercoledì 22 agosto

La bici di Shasha ha un pedale rotto. Ne compriamo un paio online pagandoli cifre ridicole e quando arrivano mi attrezzo per sostituirlo.

Per prima cosa vado dal ferramenta sotto casa e provo a spiegargli che mi serve una chiave inglese del 10. Non avendo idea di come spiegarglielo senza imparare a memoria una frase lunga e complicata (che poi credo che “chiave inglese del 10” si dica Shí hào bānshǒu , 十号扳手, ma non sono sicuro) mi esibisco nel gesto internazionale della chiave inglese, facendo una c con pollice e indice e muovendola come se stringessi un dado. Si vede che in cinese questo gesto significa “sono alla ricerca di qualcuno che mi dilati l’orifizio posteriore”, perché il ferramenta mi guarda schifato, mi tira la chiave e si allontana.

Aggiusto la bici e torno ad avventurarmi per le vie della città.

Ora vorrei aprire una parentesi e dedicarmi a un problema che ritengo angosciante per me e per tutti quelli che si trovano in vacanza lontano da casa: i regali.

Perché dobbiamo fare i regali a tutti quando torniamo da un viaggio? Cos’è, Natale? Da un po’ di tempo se non porto indietro qualcosa dalle vacanze mi sento in colpa, come se dovessi dimostrare a delle persone che anche se mi trovavo lontano stavo pensando a loro. E invece no, non è vero che ci ho pensato, uno va in vacanza proprio per pensare ad altro, sennò venivo a stare tre settimane a casa vostra, no?

Se fosse per me mi comporterei come a natale, che non regalo un cazzo a nessuno, ma quegli stronzi dei miei amici mi portano sempre qualcosa dai loro viaggi, e mi fanno sentire una merda.

Non si tratta di una questione economica, figurati se sto a micragnare per un amico con tutto quello che butto via in cazzate, il mio problema grosso è che il più delle volte non so proprio cosa cazzo comprare.

Quest’anno sono stato via tre settimane, durante le quali il mio gatto è stato accudito da mia madre e mia sorella. Tutti i giorni gli davano da mangiare, gli pulivano la cassetta e giocavano con lui. Sdebitarmi mi pareva il minimo, e se con mia sorella è abbastanza facile, dato che ha due bambini e trovare qualcosa che piaccia a loro è indubbiamente più semplice, fare il regalo giusto a mia madre è stato un casino. Anche perché applicare la stessa proprietà transitiva che adotto con mia sorella e comprare qualcosa a suo figlio sarebbe da stronzi egoisti.

E aggiungi anche i miei amici, che oltretutto non hanno figli e spesso neanche una moglie. E mio padre che, bontà sua, mi ha chiesto una cosa specifica, ma mi ha chiesto un colbacco, e io dove cazzo lo trovo un colbacco ad agosto?

A me fare i regali mette ansia, sempre. E quando sono in vacanza mi obbliga a pensarci per giorni, e soprattutto ad avventurarmi in posti da cui normalmente mi terrei alla larga.

È con questo spirito che quel mercoledì ho varcato l’ingresso di Inculopoli, il mercato dei falsoni di Silk Street, dove l’unico modo per concludere un buon affare è andarsene senza comprare niente.

Luoghi da cui tenersi lontanissimi

Quando si affrontano certi rischi è fondamentale avere un piano a cui attenersi con precisione maniacale, ogni gesto improvvisato può portare a risultati catastrofici. E io ce l’avevo un piano: andare diretto al reparto giocattoli e comprare un orrendo pupazzetto che mi era stato commissionato da mia nipote. Cosa mai poteva andare storto?

Quindi entro, attraverso abbigliamento con la cera nelle orecchie per non farmi irretire dal canto suadente delle commesse e dei loro “hey sir!”; camicie da uomo mi tenta tre volte, mostrandomi un sasso che dovrebbe diventare uno splendido modello a righe, poi mostrandomi feste eleganti in cui farei un figurone con la mia nuova camicia senza colletto, e infine pregandomi di comprare qualcosa sennò non sa come dar da mangiare ai suoi figli; e quando calzature mi offre le mie sneakers preferite a un prezzo da elemosina sento come una perturbazione nella Forza, come se milioni di voci gridassero terrorizzate e a un tratto si fossero zittite, ma è solo un attimo, e riesco a superare incolume anche questa prova.

Giungo ancora integro nell’animo e nel portafogli al cospetto di Giocattoli, e affronto il suo guardiano, la Commessa di Lerna dalle nove teste, ognuna fa un prezzo diverso, e quando ne zittisci una ne nasce subito un’altra che prende il suo posto e ti applica un ulteriore 10%.

Vuole duecentocinquanta soldi, ma la mia fermezza è inattaccabile, e per il corrispettivo di dodici euri mi porto a casa un orrore di plasticaccia che mio padre al mercato lo pigliava in omaggio insieme a un topolino da due soldi.

Nonostante la palese fregatura mi sento vittorioso, e nella mia testa parte un film bellissimo in cui torno a casa con due borse piene di ogni genere di preziosità, Shasha mi chiede dove le ho comprate, io dico Silk Street e lei fa la faccia della bionda nella doccia in Psycho, e io per rassicurarla poso le borse e le vado vicino col dito sotto il suo mento, e dico “un tizio apre la porta e gli sparano e tu pensi che quello sia io? No cara, io sono quello che bussa!”, ma neanche nel mio bellissimo film mentale Shasha coglie la citazione, c’è poco da fare, se ti metti con una cinese che ha la metà dei tuoi anni certe affinità culturali te le puoi scordare.

Mi sento così sicuro di me stesso che devio dal piano originale e vado a comprarmi un portafogli nuovo.

“Monblòn?”, mi chiede la signora.

“Wallet”, ripeto, pensando che non parli inglese.

Con aria cospiratrice, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno ci stia spiando, apre un cassetto chiuso a chiave. È pieno di portafogli allineati uno contro l’altro, senza una scatola, pelle contro pelle come in un porno. Ne tira fuori due, me li mostra. Dentro c’è scritto Mont Blanc. Per dimostrarmi che sono fatti di pelle vera passa sotto il primo la fiamma dell’accendino. “Originale, pelle vera! Alta qualità!”.

Non m’interessa un prodotto costoso, voglio solo un portafogli intero, e per farle capire come sono abituato ad andare in giro le mostro quello che ho in tasca. È così malridotto che se avesse le gambe reciterebbe in The Walking Dead.

“Investire nella qualità!”, insiste lei, citando le parole del filosofo cinese ChāoShì (超市).

“Vabbè, quanto vuoi?”, chiedo, più per parlare che per reale interesse, ma ormai il demone dell’acquisto ha arrotolato le sue spire intorno alle mie caviglie, e si sta arrampicando su per le cosce restituendomi fremiti di gelida aspettativa. Non posso più sfuggire, me la devo giocare meglio che posso.

“880 soldi”, spara. Che sono 110 euri.

“Ma tu sei fuori! È lo stesso prezzo che mi hanno chiesto ieri al negozio della Camper all’Oriental Plaza! Ciao!”

Mi acchiappa veloce per un braccio, e sottovoce, perché non ci sentano le spie del governo che chiaramente stanno acquattate dietro gli scaffali, mi chiede quanto sono disposto a spendere.

Vi risparmio tutta la contrattazione, perché è stata lunga ed estenuante, ad un certo punto io ho offerto “Dodici euro e ti insegno un trucco per finire GTA5”, e lei ha rilanciato con “Quaranta euro e il contatto WeChat di mia figlia”. In conclusione mi sono portato a casa un Mont Blanc “originale ma senza custodia né garanzia” per venticinque euri, più i complimenti della signora per avere condotto la trattativa in modo esemplare.

Quindi mi hanno fregato due volte, e la cosa peggiore è che mi sento anche un mago della finanza. Un po’ come se il tuo governo ti trascinasse in bancarotta facendoti credere che ti sta liberando da tutti i lacci in cui eri stato incastrato dalle legislature precedenti, sono così convinto delle mie abilità che immagino di tornare in Italia e aprire una società per vendere in borsa titoli spazzatura, poi distruggo una lamborghini strafatto di quaalude.

Se me ne andassi ora chiuderei con un danno contenuto e qualche soddisfazione, ma il destino ha in serbo un’ultima amara sorpresa.

Accanto all’uscita c’è un negozio che vende tè. Conosco il marchio, è Wu Yu Tai, ci abbiamo comprato a natale, è affidabile, e in questo punto vendita di sicuro parlano inglese.

Non guardo neanche i prezzi, mi faccio consigliare, non calcolo i cambi. Prendo cinque bustine da 50 grammi, e la commessa mi regala una zolletta di un’altra qualità.

Il dubbio mi viene solo dopo, mentre sono in bici sulla via di casa. Mi fermo, prendo il telefono e calcolo la spesa nella mia valuta.

57 euro. Ho speso 57 euro per due etti e mezzo di tè. Non sono un coglione, quando i coglioni mi incontrano si inchinano e mi chiamano sua maestà.

Mi prende la carogna, vorrei tornare indietro e farmi ridare i soldi, ma non credo che otterrei granché, non so se esiste il diritto di recesso in un paese dove i diritti sono barzellette raccontate a cena dai funzionari di partito. Ancora oggi, quando lo racconto, lo sento bruciare come se mi avessero marchiato a fuoco sulla spalla la A di Astronzo.

Torno a casa, posteggio la bici e vado a comprare qualcosa al supermercato, almeno lì non devo contrattare e non mi fregano, poi salgo e chiamo Shasha.

“Sei stato a Silk Street? Quanto ti sei fatto fregare stavolta?”

“Aspetta, ti mostro. Dov’è il sacchetto? Oh cazzo, l’ho lasciato appeso alla bici! Ti richiamo!”

Con tutto quello che ho speso ci manca solo che me lo faccia pure fregare. Corro giù per le scale come una slavina e tracimo nel piazzale. Il sacchetto è ancora lì.

C’è anche un uomo con la maglietta nera e la scritta police che mi chiede chi sono.

Non so come capisco subito che non si tratta di un fan della band di Sting, e che non parla inglese.

Col sacchetto della spesa in mano gli spiego a gesti che non ho il portafogli con me, cioè, ce l’ho, e l’ho pure strapagato per essere un falso, cosa per la quale dovrebbe essere a Silk Street ad arrestare commercianti truffaldini invece che qui a verificare le mie generalità, ma anche se ho il portafogli non ho i documenti, quelli sono in casa, per cui se mi lascia salire un momento poso la spesa che dentro ci sono anche due gelati e vorrei riuscire a mangiarli senza doverli leccare dal fondo della borsa, e recupero sia il passaporto che il telefono, col quale posso chiamare la mia fidanzata , che lei sì, parla cinese, e gli spiegherà chi sono e cosa ci faccio qui.

Non capisce, e ferma una signora con un bambino di sei anni che stanno tornando a casa. Si vede che li conosce, perché chiede al bambino di tradurre quello che sto dicendo. Il bambino va in crisi quasi immediatamente.

Nel frattempo io salgo e recupero passaporto e telefono, con cui chiamo la mia interprete. Il poliziotto esamina il mio passaporto e non capisce cosa voglia dire APR. Gli dico aprile, glielo dico in cinese, quello so dirlo, ma ancora non sembra capire. Passa il documento al bambino, che chiaramente non sa che farsene, essendo scritto in italiano, e lo dà alla madre.

In questo momento il mio futuro è nelle mani di una casalinga di Pechino, che sfoglia il mio passaporto con la determinazione di chi sogna di ricevere un encomio dal Presidente Xi per avere smascherato una spia occidentale.

Che una sconosciuta vicina di casa spulci nel mio passaporto mi fa girare parecchio i coglioni, e vorrei strapparglielo di mano, ma cerco di essere accomodante finché non capisco cosa succede. È il problema di dover dipendere da un visto per entrare nel Paese, ti rende prono ad abusi a cui non puoi permetterti di reagire. Pensateci la prossima volta che vi viene voglia di maltrattare l’ambulante in spiaggia, o fuori dal supermercato: non siete dei machos che fanno rispettare l’ordine, siete piuttosto dei codardi che se la prendono con qualcuno che, in una situazione di pari opportunità, vi piglierebbe legittimamente a calci in culo.

Vengo scortato in caserma, che per fortuna è proprio di fronte e, grazie alle spiegazioni di Shasha, arriviamo a chiarire la situazione: al mio arrivo avrei dovuto presentarmi in quest’ufficio per dichiarare la mia presenza e farmi rilasciare un modulo. Quello che ho compilato sull’aereo e consegnato alla dogana, e il visto che mi ha aperto la porta alla frontiera cinese non contano, serve anche questo foglietto bianco e azzurro.

Un po’ perché l’indomani partirò comunque, un po’ perché sono tre settimane che mi vedono gironzolare senza che abbia fatto niente per nascondermi, un po’ perché capiscono la situazione, decidono che non sono una spia, ma solo uno sprovveduto turista. Vedermi indossare ridicole magliette dei Monty Python facilita loro la decisione.

Mi lasciano andare promettendomi che se decidessi di tornare a Pechino non avrò problemi a farmi accettare il visto, a patto che vada subito a registrarmi a un ufficio di polizia.

Superato anche questo piccolo intoppo resta da affrontare il dramma vero, la mia ultima cena a Pechino.

Fosse per me inviterei Shasha e altri undici persone, sceglieremmo un ristorante con veranda dotato di un tavolo abbastanza lungo da poterci sedere tutti sullo stesso lato, e poi accuserei un commensale a caso di essere un traditore, ma non ce l’ho neanche in Italia undici amici.

Andiamo al barbecue coreano, un posto dove ti danno tanta carne che per ogni persona che si siede a tavola muore un vegano. È così porco che a confronto l’hotpot è la minestrina dell’ospedale.

Tutti i tavoli hanno un braciere nel mezzo, con una cappa appesa sopra, e la tua dotazione comprende, oltre alle abituali bacchette, un forchettone per muovere la carne, una paletta e un paio di grosse forbici.

tipo il cenone di capodanno ma con meno lenticchie

Il cibo viene consegnato a fette in grandi piatti, da cui lo metti a grigliare secondo il tuo gusto. Ogni tanto il cameriere torna e ti cambia la griglia, per evitare che annerisca. Se lo fa per una questione di igiene o perché il nero della brace cambierebbe il sapore alla pietanza non lo so, ma alla lunga mi rompe le balle che questo arriva, mi prende la fettina che sto arrostendo con tanto amore e me la sbatte su un mucchio di altra carne senza la minima cura.

Quando Shasha ordina al ristorante non ha affatto il senso della misura, e in quest’occasione non si smentisce: il cameriere prova per quattro volte a trovare un posto sul nostro tavolo, poi ci rinuncia e va a prendere un carrello.

Al momento di pagare il conto siamo finiti entrambi in cima alla lista dei ricercati della polizia vegana

Giovedì 23 agosto

Cosa c’è da dire dell’ultimo giorno? È il giorno della separazione, dell’attesa infinita, di tornare a parlarsi attraverso uno schermo, di non potersi toccare, di uscire vedere fare cose andare a cena sempre con qualcun altro, di fare progetti e non sapere se si realizzeranno, non sapere neanche se e quando ci rivedremo. Non si parla granché l’ultimo giorno, si guarda l’orologio e si aspetta l’ora di chiamare una macchina che mi porti all’aeroporto, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo, perché se ti negano il visto per venire qui abbiamo esaurito le opzioni, e non lo so se potremmo reggere un altro anno così.

Non c’è molto altro da raccontare, ci metto un’ora e mezza a consegnare il bagaglio perché tutti quelli davanti a me hanno la valigia troppo pesante, e la aprono e ne dividono il contenuto in altre borse più piccole lì davanti all’impiegata, fermando tutta la fila. E questo succede praticamente per ogni gruppo di cinesi che mi precede, probabilmente gente di ritorno al paesello in cui le regole per l’imbarco non le hanno mai lette.

Quando arriva il mio turno metto la valigia sul nastro, l’impiegata mi rilascia un foglio insieme al passaporto e me ne vado a cercare un wifi da cui iniziare il nuovo ciclo di conversazione a distanza con la ragazza che amo.

Ed è tutto.

Avrei delle considerazioni da fare in coda, su quel che ho capito dei cinesi, sul libro che sto leggendo a proposito della Rivoluzione Culturale, sui racconti di famiglia della mia fidanzata che si sposano con quelli dell’autore del libro, e su come tutto questo abbia una grossa influenza sulla Cina di oggi, tanto che senza tenerne conto si rischia di prendere grossi abbagli; avrei anche da raccontare a che punto siamo io e Shasha, come procede la nostra relazione a distanza (spoiler: mentre scrivo queste righe lei sta dormendo nella stanza accanto), ma credo che per il momento vada bene così. Mi riservo di concludere questo lungo racconto prima o poi, e lascio aperto il conto dei capitoli per alimentare i miei sensi di colpa, ma per il momento è tutto.

Fine.

Venerdì 17 agosto

Non ho mai capito perché il venerdì 17 debba essere considerato un giorno sfortunato per qualcuno, mentre per altri è il 13. È pur sempre un venerdì, cosa ci può essere di brutto in un venerdì?
A meno che tu non sia il comandante della Costa Concordia, ovvio.

Il mio venerdì lo passo da solo, Shasha è tornata a lavorare, e sono senza idee su come spenderlo. Pechino offre ancora parecchie attrazioni, per esempio non ho ancora visitato il parco Beihai, o le due torri in mezzo all’hutong, ma devo ammettere che neanche me ne frega. Ho voglia di girare la città e guardare come vive, i miei interessi da turista li ho già soddisfatti tutti. E poi dopo ferragosto c’è pieno di comitive di italiani, e preferisco rimandare il più possibile il momento in cui dovrò vergognarmi di nuovo dei miei connazionali.

Sulla guida ho letto di un negozio di aquiloni in Shichahai, vicino al laghetto su cui si affacciano diversi ristoranti e locali parecchio turistici. È la stessa area del parco Beihai, fra l’altro, magari ci faccio un passo.

Per arrivare in zona la prendo larga e mi fermo a una libreria enorme non lontano daTiānānmén. Quella di Wangfujing è ben fornita, soprattutto di roba che non devi sfogliare, tipo giocattoli, miniature e strumenti musicali, ma in questo periodo ci stanno facendo dei lavori dentro, e alcuni piani sono chiusi; questa è ancora più grande, e vende veramente qualunque cosa, comprese le racchette da ping pong e le scarpe. Alla fine i libri sono la parte minore, e se sei interessato proprio in quell’articolo mi sa che è meglio se vai da PageOne.

Dopo avere ciondolato per un po’ nell’edificio raggiungo l’area del parco, e decido che fa un caldo fotonico, che il negozio non c’è (c’è, ma non lo trovo anche se ci passo davanti) e soprattutto che è già passato mezzogiorno e ho fame.

Passo davanti a un ristorante thailandese e butto un occhio al menu, piuttosto accattivante. C’è una pagina in particolare che mi attira, e non capisco come mai, visto che mostra un piatto di larve del bambù saltate in padella col peperoncino. Faccio un giro dalle parti del lago lì dietro per vedere se trovo qualcosa di meglio, ma devo essere passato dal lato dove non c’è niente, e dopo alcuni minuti sono di nuovo davanti alla pagina delle larve, e ho ancora più fame di prima.

Entro.

Ordino una padellata di larve, un’insalata di ananas e uno degli innumerevoli piatti con spaghetti e verdura che mi rendono la cucina asiatica tutta uguale.

L’ambiente è raffinato, ci sono due ragazze a un tavolo impegnate in una conversazione molto intensa, e un bambino al tavolo accanto che strilla mentre i genitori cercano di dargli da mangiare. Una delle due ragazze si gira spesso a fissare i vicini con quello che dovrebbe essere un eloquente sguardo d’odio, ma loro non lo considerano abbastanza eloquente e non si scusano né cambiano tavolo. Ci sono altre famiglie sedute qua e là, e ci sono due cameriere con la faccia antipatica, ma che in realtà si rivelano piuttosto cortesi e veloci nel servizio.

Le larve mi arrivano in un grazioso cestino di vimini, e per fortuna non si muovono, sennò non le avrei mica mangiate. Così invece non ne lascio neanche una. Sono poco saporite, sanno un po’ di nocciola, e hanno la consistenza del peperoncino quando lo togli dal forno e sembra fatto solo di buccia.

Me ne vado soddisfatto, anche se il conto è un po’ più elevato di quello a cui sono abituato.

È ancora presto per interpretare il perfetto uomo di casa che passa al supermercato e poi va a preparare la cena, e troppo tardi per andare a cercare altri negozi strani che poi tanto non troverei lo stesso.

Allungo la strada del ritorno fino a Chongwenmen e mi infilo nel Glory Mall, il grosso centro commerciale dove sono entrato una volta per cenare da un Genki, la scorsa vacanza.

Magari ci trovo qualcosa di interessante. L’idea è quella di cazzeggiare e magari trovare qualcosa di economico e abbastanza scemo da regalare agli amici. In realtà il posto perfetto per quel genere di acquisti sarebbe un mercato tipo Silk Street o Pearl Market, ma sono anche posti dove dei trattare sul prezzo, abilità del tutto assente dal mio curriculum. Di solito ci prendo delle fregature colossali, perciò mi ci tengo lontano.

Il Glory Mall è il classico centro commerciale con diversi livelli che si affacciano al centro, nel quale è stato allestito un palco. Il giorno in cui ci capito io si sta tenendo una specie di celebrazione del Giappone promossa da uno dei negozi del complesso, e sul palco due bamboccioni bianchi con la testa tonda cantano in playback quella che sembra la sigla di un cartone animato per adolescenti problematici. Il pubblico partecipa, scatta foto, sono quasi tutti adulti. A un piccolo stand accanto al palco due donne distribuiscono depliants per promuovere vacanze in Giappone.

Cercando informazioni per scrivere questo post ho scoperto che il 17 agosto 2018 in Giappone ricorreva il Tanabata, una festa tradizionale derivata da un’analoga celebrazione cinese, detta Qīxī. In pratica ci sono queste due stelle, Orihime e Hikoboshi (per noi Vega e Altair, due vertici del cosiddetto Triangolo Estivo), che si possono ritrovare solo il settimo giorno del settimo mese lunare, che non è quello solare che usiamo noi, e se sto a spiegarvi come funziona finiamo fra sei episodi invece che due, perciò vi rimando a questa pagina dove la signora Wiki sa essere molto più eloquente di me, e vado avanti.
Insomma, il Tanabata in Giappone va fortissimo, ed essendo considerata la Festa del Doppio Sette, anche in Cina ha un sacco di fans. Le date coi numeri uguali hanno un effetto particolare sui cinesi, mentre noi importiamo il Black Friday loro si spendono il patrimonio l’11 novembre per festeggiare i single, dato che Alibaba, il principale negozio online del Paese (il loro Amazon, per capirci), istituisce in quel giorno una massiccia campagna di promozione su moltissimi articoli.

Qīxī in Cina è come il nostro San Valentino, e chiaramente i negozi ci vanno giù pesante. Non ho capito chi siano i due faccioni, né perché sul cartellone accanto al palco ci sia scritto una cosa che potremmo tradurre con “Riguardo Huixi Tanabata”. Suppongo che in quel centro commerciale, all’interno delle celebrazioni per Qīxī, l’agenzia di viaggi giapponese abbia organizzato un evento per festeggiare l’analoga festa e invitare i pechinesi a comprarsi un pacchetto volo+hotel, ma vorrei saperne di più sui due pupazzoni bianchi. Se avete delle informazioni a riguardo fatemelo sapere, io intanto ignoro la festa e proseguo nella mia esplorazione.

Mi infilo in un’area dedicata allo sport e ai videogiochi. Ci sono postazioni dedicate alla realtà virtuale, sulle quali investirei volentieri un po’ di soldi, ma se la scazzatissima addetta mi spiega come indossare gli occhiali e i guanti, e soprattutto mi fa delle domande, io non so cosa rispondere.

Proseguo un po’ deluso, e finisco nel paradiso dello sportivo di città. Un ring su cui picchiare i tuoi amici secondo lo stile che più ti aggrada, una piattaforma dove tirare di scherma e una selezione di armi che sembra tirata fuori da Assassin’s Creed Black Flag, una saletta per il tiro con l’arco, e poi la figata: un tapis roulant inclinato per imparare a sciare.

A ogni postazione un insegnante è disponibile a impartire lezioni. Un sacco di bambini si stanno dedicando a diverse attività, o sono in coda in attesa del proprio turno di lezione.

E dai videogiochi nessuno, neanche qualche bulletto brufoloso. Che decadenza, madonna! Questa società è allo sfascio!

Sabato 18 agosto

La mattina di sabato accompagno Shasha dal dentista. Dovrebbe farsi togliere il dente del giudizio e ne è terrorizzata, e devo accompagnarla per evitare che salti l’appuntamento e si nasconda per un’ora nello studio del tizio lì vicino che insegna pianoforte: c’è un tizio che ha una vetrina e quando ci passi davanti lo trovi seduto a leggere il giornale da solo, o a leggerlo mentre un bambino si esercita al pianoforte contro la parete. Il cartello mostra anche altri strumenti, quindi immagino che sia in grado di leggere il giornale anche con un sottofondo di chitarra o di batteria.

A sentire la mia fidanzata non è certo che il medico la opererà, conta di impietosirlo con una scena madre che sta provando da giorni, e che prevede un lungo monologo molto intenso accompagnato da un violoncellista. Se non dovesse bastare giocherà la carta estrema: far togliere il dente del giudizio al violoncellista.

È interessante come lo studio presenti un’anticamera e un’area di lavoro separate solo da un vetro. Tranne per una banda opaca posta più o meno all’altezza di dove si trova la faccia del paziente sulla poltroncina, tutto il resto è visibile, perciò uno può starsene seduto in poltrona a godere degli spasmi di dolore del malcapitato di turno. O a farsi prendere dall’ansia se la visita successiva è la sua.

Per lenire la tensione e la noia il tavolino in sala d’attesa offre una discreta varietà di caramelle e barrette di cioccolata, che hanno il duplice scopo di mettere il paziente a proprio agio e procacciarsi nuovi clienti. Un po’ come se il parcheggio del gommista fosse disseminato di chiodi.

Appena arriviamo una delle assistenti accompagna Shasha nella stanza di vetro, mentre l’altra mi offre un tè caldo. Guardo la mia fidanzata giocarsi tutte le carte, dal buttarsi in ginocchio allo scagliare il violoncello contro la parete, con grande disappunto del musicista. È tutto inutile, bisogna estrarre il dente. Shasha viene accompagnata fuori dalla stanza e sparisce in una sala sul retro di cui ignoravo l’esistenza. Si vede che è lì dove si praticano le operazioni più serie. Lo capisco, in caso di incidenti è più facile occultare il cadavere se non ci sono testimoni.

Dopo un quarto d’ora riappaiono tutti, dentista, fidanzata e assistenti. Tranne la fidanzata sono tutti allegri e si sbracciano in saluti. Shasha no, lei sfoggia il muso delle grandi occasioni e si tiene una mano sulla bocca. Bene, se non altro non dovrò sentirla lamentarsi.

Torniamo a casa e niente, passiamo così il resto della giornata, con lei a letto a lanciare lunghi sordi muggiti di dolore e io a dispensarle tè freddo e parole di conforto.

Domenica 19

Shasha sta meglio, nel senso che non è morta durante la notte e il dente ha smesso di farle un male fottuto, passando a semplice dolore che ti tiene sveglia per ore. Per festeggiare propongo di andare a comprare del torrone, ma in Cina non si trova così facilmente, e in alternativa decidiamo di festeggiare andando a fare i matti al Museo Nazionale. C’è sempre quella mostra là, sull’arte degli aborigeni, che le interessa. Io appena sento aborigeni attacco a ripetere “Ma aboriggeno, ma io ettè, checcazzo se dovemo dì!” e giù a ridere. Shasha si domanda per l’ennesima volta cosa l’abbia fatta innamorare di me.

Quando esci dalla metropolitana di Tiānānmén hai sempre da affrontare una coda spaventosa per accedere alla piazza, non importa quale uscita prendi; anche quella davanti al palazzo del governo, la più lontana dal museo e dalla Città Proibita, è inavvicinabile senza sorbirsi ore di attesa per i documenti.

L’idea di andare al museo diventa subito pochissimo allettante, e mettiamo in pratica il piano B, andare da Page One.

Ci sono capitato spesso in questa libreria, molto più che nelle altre ben più grandi e vicine, perché ha un aspetto moderno e una selezione di titoli piuttosto recenti, oltre a un’ottima sezione dedicata all’arte e all’architettura, dovesse interessarvi quel genere di articoli. E ci si trovano anche dei fumetti, sebbene relegati in “letteratura per bambini”. Molte delle persone che la visitano lo fanno proprio perché attratti dall’aspetto, e passano il tempo a farsi i selfie davanti agli scaffali, o a tirarsela da grandi pensatori con un libro in mano, contro una delle vetrate ai piani superiori.

Chiaramente è stato un attimo abbandonare la ricerca dei libri che tanto non c’erano e dedicarci al photobombing. Credo di essere finito in almeno una decina di scatti di giovani cinesi sofisticate, e in questo aspetto devo dire che la sintonia con la mia fidanzata è stata totale: trovarci a fare facce annoiate dietro ragazze con la bocca a culo di cane ci ha svoltato la giornata.

Non è durata molto, dopo la libreria abbiamo tentato di pranzare in un posto che si chiamava Snack qualcosa, un postaccio dove abbiamo aspettato un’ora e ricevuto un piatto sbagliato prima di ricevere quello giusto e scoprire che faceva schifo.

Per raddrizzare la giornata siamo dovuti tornare a casa e ho preparato un risotto che hanno suonato alla porta e c’era Gordon Ramsey che mi pregava di fargli almeno lavare i piatti.

Sul Netflix coreano troviamo la trilogia del Signore degli Anelli, che incredibilmente Shasha non ha mai visto. La cosa figa di uscire con una ragazzina è che puoi sfoderare tutti i pilastri della tua gioventù e fare dei figuroni ogni volta.

Se nella frase qui sopra vedete dei riferimenti sessuali avete dei problemi.

Il problema è che la mia fidanzata si innamora perdutamente di questi film e tutte le sere mi obbliga a guardarne uno, con effetti disastrosi sulla nostra vita sessuale.

Se vedete dei riferimenti sessuali anche nella frase qui sopra siete delle brutte persone e dovreste stare lontani dagli asili. Vergogna!

Martedì 14

Shasha deve andare a fare i documenti, perché pare che ora funzioni tutto, e io l’aspetto in hotel, dove consumo una ricca colazione trinazionale. Poi torna a prendermi e andiamo in centro a sbrigare tutte le pratiche.

Non ho capito bene questo passaggio, che senso ha andare a fare i documenti e poi tornare e andare di nuovo a fare i documenti? Quando le ho chiesto delucidazioni in merito, mesi dopo, mi ha risposto che non ho capito niente e in realtà alla stazione di polizia ci è tornata il primo giorno, alcune ore più tardi, perché il sistema aveva ripreso a funzionare. Quella mattina era andata con sua madre a fare delle robe che però a noi non interessano, sono robe di donne che un uomo è bene che non conosca. E poi mi piace di più la mia versione in cui sono finito in un paradosso temporale cinese in cui le ore scorrono in maniera circolare e dopo un po’ ti ritrovi al punto di partenza, perché questo significa che è di nuovo ora di colazione!

là dietro volavano aquiloni, qui saliva l’invidia, che io non sono capace

Non dovendo più tornare alla stazione di polizia perché l’abbiamo già fatto ieri, e non dovendo fare di nuovo colazione perché ne ho già fatte tre, ma facendo comunque il solito caldo fotonico, pensiamo di andare a bere una bibita nel centro commerciale di fronte a casa dei nonni.
Shasha vorrebbe convincermi a provare il bubble tea, la sua bibita preferita. Non ci penso neanche, l’ho bevuta la prima volta che sono stato in cina, l’anno scorso, e ne conservo ancora un ricordo drammatico.

In pratica si tratta di un tè freddo a cui vengono aggiunti diversi ingredienti, dal ghiaccio tritato per renderlo più cremoso a svariati tipi di guarnizioni, come panna, cioccolata, robe colorate o dadi di acciaio zincato chiave sei. Già così mi risulterebbe insopportabile, per me il tè è tè e basta, caccerei gli inglesi dall’Europa solo per la loro mania di aggiungere il latte.
Questo, per aggiungere fastidio, contiene delle palline (da cui il nome bubble) che aspiri mediante una grossa cannuccia. Di solito sono fatte di tapioca, ma se ne trovano anche di gelatina, che ti scoppiano in bocca e rilasciano succo di frutta. Ma non potete bervi il tè come tutte le persone civili e poi farvi un caffè e poi una spremuta e poi un succo di frutta e poi una cioccolata? Ma che fretta avete per dover mischiare tutto insieme, eh, cinesi?

Troviamo un compromesso e andiamo a prenderci una bibita da Happy Lemon, ma il servizio in una città di secondo/terzo livello non è lo stesso che nella capitale, e nel tempo che le due commesse impiegano a riempire i nostri bicchieri mi sono fatto un giro e ho trovato un posto che fa i pasteis de nata, i tipici dolcetti portoghesi con lo stesso peso specifico della ghisa.

la nostalgia di Porto, signora mia!

Non è strano trovarli da queste parti, Macao è stata una colonia portoghese, e da lì i dolci si sono diffusi in tutta la Cina.

Per 10 soldi me ne danno 5, un affarone, e non sono neanche pesanti come quelli portoghesi.

Neanche così buoni, a dire la verità, senza la cannella e la scorza di limone sanno di budino al latte.

Ne mangio uno, gli altri li lascio sul tavolo in casa dei nonni, dove ritengo siano tuttora, dato che nessun altro condivide il mio entusiasmo verso la cucina lusitana.
Per quanto riguarda la famiglia della mia fidanzata questo scetticismo si estende a quasi tutta la cucina occidentale: dall’Italia ho portato un salame di ottima fattura, ed è arrivato a Guiyang invece di restare con noi a Pechino, dove ne avrei celebrato il sapore ogni sera come aperitivo; i suoi nonni lo hanno cucinato. 

Anche i cinesi rompono gli schermi dei cellulari, proprio come faccio io ♥, ma la differenza è che loro li portano a riparare in un laboratorio in città, e non dove li hanno acquistati.

Ed è proprio qui che ci rechiamo per sostituire lo schermo del cellulare di Shasha, in un sottopasso pieno di banchi dove comprare vecchi e nuovi modelli, riparare e sostituire pezzi e farsi riprogrammare le schede.

seduto al banco un classico cinese con la panza fuori, in procinto di farsi crescere la panza

Il tizio da cui ci fermiamo si chiama Liú Máng – Lo stilista del telefonino. Lo scegliamo fra gli altri per il suo taglio di capelli audace, alla bella marinara.

Si mette subito al lavoro, assistito da una donna che gli lancia i componenti quando occorre.

Il nome di lei non l’ho capito, Miba, Miva..

Una volta mio padre aveva una televisione marca Mivar, ma i componenti non li lanciava, quando si rompevano dovevi chiamare il tecnico che li cambiava.

Belli Capelli termina il lavoro in mezz’ora, per un costo di 150 soldi che comprende anche il guscio e il vetro protettivo, più un vetro per il mio telefono, che a stare lì mi è venuta voglia di partecipare.

Se penso che in euro sarebbero meno di 18, quando in Italia per sostituire il mio schermo ne ho spesi 210 e ho aspettato oltre un mese mi viene una gran voglia di iscrivermi ai terroristi.

le bellissime traduzioni cinesi

Sulla via del ritorno ci dedichiamo alla mia attività preferita, quella a cui ho dedicato lo spazio più ampio nei miei resoconti di viaggio.

C’è una specie di mercato coperto dietro casa dei nonni, dove compri la pietanza che preferisci a una delle numerose cucine presenti, e te la vai a mangiare a uno dei tavoli comuni. Shasha non ha molta fiducia nell’igiene di questi posti, per me è come la festa dell’unità, ma senza il porchettaro. Li proverei tutti, se non avessimo un invito a cena di lì a poco.

Sarà la nostra ultima cena a Guiyang, subito dopo dovremo prendere l’aereo per tornare a Pechino, e per questo è stata anticipata a un’orario che neanche all’ospedale.

Il tavolino del salotto, un grosso cubo rosso, viene liberato dalla solita tovaglia e rivela un piano cottura a induzione. Si accende e vi si deposita sopra il pentolone di brodo in cui tutti andremo a intingere i nostri pezzi di carne. Eh sì, stasera hot pot casalingo.

Non ho ancora cominciato a mangiare quando ricevo un messaggio da mia sorella con una foto che impiego qualche secondo a riconoscere: in Italia è appena passato mezzogiorno, e quello è il ponte di Campi, diviso a metà.

La consapevolezza mi colpisce come una martellata in faccia, poi si fa strada un terrore lucido, controllato, che mi mangia lo stomaco un pezzetto alla volta, con metodicità. Un pezzetto per ogni persona che conosco e che potrebbe essere rimasta coinvolta.

Perché il primo pensiero è alla coda che di solito si forma su quel tratto di strada, è alle case di sotto, è a tutta la città che sopra e sotto quel ponte fa avanti e indietro più volte al giorno. Il primo pensiero è una strage.

Mostro la foto a Shasha, le spiego cos’è successo e le chiedo di scusarmi con la sua famiglia, ma non posso stare lì con loro, devo tornare a casa, almeno con la testa.

Passo il resto della serata a cercare di mettermi in contatto con chiunque mi venga in mente, scorro i social per cercare segni di vita, spunto una lista mentale di nomi, aggiorno le pagine dei quotidiani per capire meglio.

Quando saliamo sul taxi per l’aeroporto quasi non saluto nessuno, mi limito ad abbracciare la nonna.

Poche ore dopo, quando atterriamo a Pechino, la situazione appare meno catastrofica: i miei amici stanno tutti bene, il pezzo di ponte crollato è quello che passava sopra il torrente e la ferrovia.

Qualche giorno più tardi scoprirò che sotto quel ponte è rimasto Cico, un collega della mia ex compagna che incontravo alle fiere. Ha passato la vita a viaggiare avanti e indietro per l’Italia per dare una vita dignitosa a sé e alla sua famiglia, ed è morto in un giorno di festa mentre andava a un matrimonio, della morte più assurda che si potesse immaginare.

Sono passate solo poche ore, e già Genova ha fatto il pieno di ignoranza, proclami roboanti, caccia alle streghe, sciacallaggio politico e teorie complottiste. Provo una vergogna così intensa per i miei connazionali che se potessi chiedere asilo in Cina non esiterei a farlo, nonostante i limiti alla libertà di questo governo ho ancora l’illusione che le persone qui siano migliori. Probabilmente perché non so leggere i loro social.

Mercoledì 15 agosto

Shasha ha il giorno libero, ci alziamo con calma e facciamo colazione coi prodotti del supermercato, come in Italia. Ce n’è uno sotto casa che offre grossomodo le stesse cose, seppure di marche differenti. Sennò se vuoi sentirti al sicuro vai al Carrefour un po’ più avanti, ma vuoi mettere l’avventura?

Sulla verdura per esempio ci sono le etichette in cinese, così non sai cosa stai comprando e potrebbe capitarti di prendere le patate dolci invece di quelle comuni. Per dire, eh, figurati se uno non le sa distinguere, chi vuoi che sia così scemo.

Per me il gioco è comprare prodotti familiari in versioni sconosciute, e scoprire solo dopo di cosa sanno: essendo un agosto orrendamente caldo (anche se dopo la prima pioggia le temperature non sono più risalite a quel livello offensivo dei primi giorni) mi specializzo sui gelati.

1 uovo

All’inizio mi limito a infilare la mano nel frigo e tirarne fuori uno a caso, ma col passare dei giorni ci prendo gusto, e alla fine ne prendo due alla volta e li mangio mentre torno a casa.

Il più buono è quello all’uovo, ma è facile, sa di crema pasticcera; fra i gusti inaspettati si piazza molto bene quello ai fagioli rossi, che in Cina sono normalmente utilizzati per preparare i dolci, mentre ottiene un punteggio basso il gelato all’uva ghiacciata, che sarebbe uva normale vendemmiata tardissimo nei paesi nordici, quando il grappolo è ormai coperto di neve. Sa di tautologia e contiene pezzi di roba ghiacciata che potrebbe essere benissimo quell’uva lì.

Devo dire che sono rimasto deluso, dalla confezione avevo capito che fosse una specie di gelato alla frutta candita, e volevo tirarmi fuori dalla mia comfort zone mangiando qualcosa per me disgustoso.
No, la dico vera, quando ho visto la foto sulla confezione ho sperato di poter degustare un gelato alla cima genovese, con tanto di filo da cucito.

Ci sono comunque andato vicino col gusto successivo, il campione di questa mia personale competizione: il gelato ai piselli.

Che non è cattivo, non si può definire cattivo per niente. È che sa di piselli. È come mangiare una crema di piselli congelata, fa strano tirarla fuori da una confezione di gelato e tenerla col bastoncino.

Un’altra differenza fra il supermercato sotto casa e quelli italiani è che qui non vendono l’insalata. Ci sono diversi tipi di verdura simile, ma è tutta roba che dovresti passare in padella, la lattuga non c’è, il radicchio neanche. E le zucchine sono così grosse che le vendono singolarmente avvolte in retine di plastica come i meloni, ma quando le apri non sono andate in semenza come ti aspetteresti, sono zucchine normali, grandi come una coscia di cane. E se compri per sbaglio le patate dolci poi non sai come cucinarle e ti restano nel frigo tipo per sempre. Ma non sto dicendo che sia successo a me.

Mi piace andare a fare la spesa lì, le commesse mi conoscono e mi sorridono. Quella del reparto frutta e verdura mi dice anche delle cose che però non capisco e sorrido e me ne vado alla svelta.

La mattina di ferragosto siamo a casa a fare colazione con la frutta che ho eroicamente acquistato due giorni prima, da solo, e che tengo in un sacchetto vicino a quell’altro che contiene tuberi di cui non mi va di parlare.

Faccio anche il caffè con una Bialetti che ho portato lo scorso natale, a cui purtroppo manca il manico perché qualche scemo l’ha fuso al primo utilizzo, e quella volta Shasha si è incazzata più che per le patate.

Poi andiamo a Sanlitun, dove sono passato solo una volta in bici e non ho visto niente.

È un quartiere moderno, pieno di palazzi e negozi fighi e centri commerciali e un negozio di fumetti assolutamente stiloso, dove certi giorni suonano complessi jazz e puoi sederti al tavolino a sorseggiare un caffè di marca (qui il bicchiere di caffè lo degustano al tavolino per un’ora, non esiste la tazzina di espresso che tracanni e via, perciò sarà anche Illy, ma è comunque una brodazza), ma se vuoi un fumetto la scelta è fra un centinaio di albi spillati e altrettanti brossurati. Però, con mia sorpresa, hanno anche V for Vendetta. Non credevo che un testo contro il totalitarismo che sembra essere stato scritto apposta per raccontare la situazione in Cina superasse le maglie della censura, ma ammetto di essere troppo prevenuto nei confronti del governo locale. In un’altra libreria ho trovato anche 1984 e La Fattoria Degli Animali, di Orwell. Diciamo che la critica al potere è ammessa, basta che non sia espressamente citato il potere cinese.

Mi compro una scatolina di action figures Titans ispirata a Breaking Bad, una di quelle in cui non sai quale personaggio ci troverai dentro. Sono venti, e di alcuni non viene mostrata neanche l’anteprima sulla confezione. Mi aspetto la fregatura, tipo le sorelle scassacazzi o il ragazzino con le stampelle, ma la possibilità di trovare qualcosa di valido è alta, sarei felice di portarmi a casa Mike o Saul Goodman, o magari il camper. Mi va di straculo e dalla scatoletta spunta il porky pie nero di Heisenberg!

Usciamo dal negozio felici come due ragazzini, col mio personaggio preferito e un volume di V for Vendetta in inglese per la mia fidanzata, che certe letture sono imprescindibili anche se non vivessi sotto una dittatura, e andiamo a mangiare un hamburger ciclopico in un posto lì vicino.

Dopo pranzo Lama Temple, una delle ultime attrazioni cittadine che non ho ancora visitato.

Niente di nuovo da raccontare, è il classico tempio cinese composto da diversi cortili su cui si affacciano gli edifici, dentro ai quali puoi trovare niente oppure una statua alta ventisei metri intagliata in un unico tronco di legno di sandalo. La cosa curiosa è che ti danno questi bastoncini di incenso all’ingresso, e un cartello ti spiega che dovresti bruciarne tre in ogni braciere lungo il percorso fino all’ultimo tempio, ed elevare le tue preghiere. Né io né Shasha siamo particolarmente religiosi, e molliamo tutto l’incenso al primo braciere dicendo byebye, che suona come 拜拜, e a Taiwan significa rendere omaggio alla divinità. Non so se in Cina venga usato, ma immagino di sì, visto che a me lo ha raccontato una ragazza cinese. Di lì in poi è tutto un ironizzare sul doppio senso, che ci rende la visita un unico cazzeggio irrispettoso.

In giro la città si è riempita di italiani, ne incontriamo gruppi numerosi al tempio e nell’hutong, dove ci spostiamo per continuare il nostro pomeriggio da coppietta innamorata. Insegno a Shasha un paio di frasi maleducate da usare in presenza dei miei connazionali più molesti e andiamo in un locale che conosce lei, a fare merenda, e poi a cena in un vietnamita. Entrambi i locali si trovano nell’hutong, hanno un giardino interno e ti fanno scordare di trovarti in mezzo a una città enorme.

C’è anche il tempo per un bicchiere in un baretto imboscato dietro una falsa libreria, come uno speakeasy americano: sposti la falsa parete ed entri nel locale, piccolo e poco illuminato. Bella scelta di marketing, ce n’è uno simile anche a Genova, solo che non ho mai capito dove sia, è nascosto troppo bene.

Domenica 12 agosto

Dall’hotel ci facciamo portare al parco Qianlingshan (黔灵山公园),dove i macachi girano liberi e infastidiscono le persone, ma a differenza di qui non hanno diritto di voto.

In realtà sono le persone a infastidire i macachi, urlando e tirando loro bottiglie di plastica per attirare l’attenzione. Perché, al di là della palese maleducazione, è evidente che se tiro la spazzatura addosso a un animale questo si fida di me e si lascia avvicinare. Sapete quando dicevo che dell’idiozia diffusa dei cinesi dovrei scrivere un capitolo apposta?

Alcuni macachi, costretti ad attraversare la strada su cui transitiamo, si arrampicano sugli alberi e saltano di ramo in ramo fino ad arrivare dall’altra parte: è uno spettacolo cui non mi era mai capitato di assistere, se non nei documentari; ciononostante io e la mia fidanzata siamo gli unici a guardare per aria, tutti gli altri strillano in direzione di un paio di esemplari fermi sul terreno a qualche metro di distanza, con l’espressione di chi davvero vorrebbe essere altrove.

Shasha è infastidita dalla ressa, e vorrebbe andarsene alla svelta, ma accetta di accompagnarmi all’interno di una specie di zoo che si trova lungo il percorso. Le gabbie le evitiamo, un po’ per la folla e un po’ per la tristezza, ma soprattutto perché appena scopro che ci sono anche i panda parto alla bersagliera verso l’edificio indicato dalle frecce.

Ci sarebbero da dire diverse cose sugli zoo, e specialmente sugli zoo che ospitano animali rari come i panda. La Cina mantiene la proprietà su questi animali, compresi quelli ospitati all’estero, e se da una parte ha costruito santuari e aree protette, come quella di Chengdu, nel Sichuan (sulla cui eticità ho letto un articolo piuttosto interessante), dall’altra tiene esemplari in pessime condizioni negli altri zoo cittadini, primo fra tutti quello di Pechino. Non l’ho visitato di persona, ma dalle foto e dai racconti di chi c’è stato nei giorni in cui mi trovavo in città mi sono fatto un’idea abbastanza realistica di animali sporchi e segregati in piccole gabbie dalle pareti in plexiglass.

D’altra parte il panda è seriamente in pericolo, l’ultimo censimento del2014, secondo il WWF, parla di poco meno di duemila esemplari ancora liberi. Forse ci sono modi più efficaci di proteggerli, sono sicuro che qualche animalista sarebbe in grado di elencarmene diversi, ma ho paura che alcuni di essi non sarebbero realizzabili in un mondo reale. Tipo abbandonare le città e lasciare che la natura si riprenda i propri spazi non è un’idea su cui avrei voglia di discutere.

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I panda di Guiyang mi sembrano piuttosto soddisfatti di stare lì: quello che ho visto era da solo in un capannone con l’aria condizionata, i giochi e un sacco di bambù da rosicchiare. Prima che iniziassi a fargli il video si stava rotolando su una specie di scivolo di legno, e non dava affatto l’idea di essere depresso.

Il complesso di Qianlingshan comprende anche una grotta e un lago, e sulla cima del monte è situato un tempio ma, come ho detto, alla mia fidanzata scottano i piedi, e anch’io dopo aver fatto il pieno di scimmie e ricevuto il dono inaspettato dell’orso gatto (il nome cinese del panda è xiongmao, 熊猫, che significa, appunto, orso-gatto), non ho più niente da fare e voglio allontanarmi alla svelta dalla cagnara.

Torniamo a casa dei nonni, e più tardi, ma non troppo tardi, perché i nonni di tutto il mondo sentono lo stimolo di cenare a orari impensabili per i più giovani, raduniamo tutta la famiglia per andare al centro commerciale a mangiare una cosa che non ho capito, un piatto tipico di Guiyang.

Panda lo escluderei, forse macaco.

Ci sediamo in un recinto in mezzo a due ristoranti, dove aspettiamo un tempo interminabile che chiamino il nostro tavolo. Nel mentre due solerti cameriere ci offrono bicchieri di tè, e facciamo quattro chiacchiere col resto della famiglia. Cioè, immagino che sia quello che stanno facendo i miei vicini di tavolo, io sto seduto accanto al nonno sperando fortissimo che Shasha torni dal suo giro per salvarmi dalla noia. E sì che suo nonno è una persona con cui mi piacerebbe parlare, ha visto più cose lui di questo Paese che Licia Colò in un anno di trasmissione, ma le barriere linguistiche sono insormontabili. Per fortuna Shasha torna alla svelta, mi recupera e mi porta a fare un giro per i negozi.
Quando ci riuniamo col resto del gruppo viene fuori che il quarto d’ora che resta è un quarto d’ora di Plutone, corrispondente a 542.500 ore terrestri.

Ripieghiamo così su un altro posto lì intorno che fa hotpot. Sembra che in Cina si mangi solo hotpot. Ogni regione prepara il suo tipico zuppone in cui pucciare cose: qualcuno ci mette le rane, qualcuno il manzo, qualcun altro il pesce. In questo ti servi da solo con degli spiedini di roba e salse varie. Rispetto ai precedenti che ho visitato ha un aspetto più informale, ma la qualità resta alta.

Finita la cena qualcuno ha la brillante idea di andare al Ktv, un locale dove ti conducono per un corridoio pieno di porte chiuse con una lampadina sopra, che ricorda tantissimo una casa di appuntamenti. Dietro ogni porta c’è un salottino con dei divani molto invitanti, ma invece di fare del sesso digiti su uno schermo il titolo della canzone che ti interessa e poi ti metti a cantarla. È un karaoke, cristiddio.

I divanetti di pelle e la luce bassa conferiscono alla stanza un aspetto lascivo. Mi domando cosa succederebbe se non ci fosse una grossa telecamera appesa in bella vista al soffitto, e anche così mi prendo il tempo per controllare se non mi sto sedendo sopra qualche macchia sospetta.
Quest’articolo mi dice che non sono stato l’unico a pensarla così.

Restiamo abbastanza per realizzare che le mie doti canore fanno di me la parte meno talentuosa della coppia, e che anche allargando la competizione alla sua famiglia otterrei comunque un ultimo posto. Provo a difendermi sostenendo che il repertorio mi ha penalizzato, ma la verità è che il catalogo del locale comprende decine di pezzi dei miei gruppi preferiti, sono proprio io che faccio anguscia.

Mentre Shasha si esibisce in pezzi famosi in occidente, sua madre e sua zia, che non parlano inglese, si buttano decise sul pop melodico cinese anni ’80. ne ascolto così tanto che quando finalmente andiamo a dormire ho i capelli cotonati e indosso un giubbotto di pelle con le borchie.

Lunedì 13 agosto

Ci alziamo presto, che il nonno ci aspetta alla stazione di polizia per rifare la carta d’identità. Non ho capito perché sia necessaria la presenza del nonno, ma la burocrazia cinese segue logiche troppo contorte per la mia mente di italiano arrangista.

Intanto l’ufficio anagrafe è alla stazione di polizia. E fin qui non ci sarebbe niente di strano, anche in Italia vai in questura a rinnovare il passaporto.

Ma è necessario essere accompagnati da un familiare?

Ho scoperto che se devi richiedere uno stato di famiglia rischi di sfiorare la tragedia: per quello non basta andare in ufficio e farsene stampare una copia, devi anche presentare un documento di identità di entrambi i genitori.

Non è difficile immaginare gli scenari che una richiesta del genere può aprire in una famiglia con una situazione delicata, magari dopo un brutto divorzio. Per non parlare di casi più gravi, con delle storie di abusi domestici: non ce la vedo una ragazza andare a cercare il padre violento perché le serve una fotocopia della sua carta d’identità. Ma i cinesi cos’hanno nella testa?

Poi immagino che sia tutto dovuto alla disastrosa campagna promossa da Deng Xiao Ping, sempre lui, per contrastare il boom demografico degli anni ’60 e ’70. Per quasi trent’anni chi contravveniva a questa legge era soggetto a una pena piuttosto severa, cosa che ha spinto moltissime famiglie a non registrare i figli in esubero. Oggi si sta cercando di riparare i danni: fra il 2013 e il 2017 qualcosa come 14 milioni di persone fantasma sono state registrate nel sistema anagrafico cinese, ma si stima che il numero di cittadini ancora sconosciuti allo stato si aggiri intorno ai 60 milioni.
L’intera popolazione italiana, per capirci.

Mentre mi perdo in queste considerazioni Shasha sta discutendo con un poliziotto, che le spiega come il documento oggi non si possa fare: ci sono stati dei lavori in strada che hanno interrotto la connessione internet, perciò non sono riusciti a scaricare le foto spedite dal fotografo.

Non posso fare a meno di pensare alle macchinette delle stazioni, che con 5 euro ti fanno quattro foto, le porti in comune e il giorno dopo hai la tua carta nuova. Ma sono fazioso, è evidente che in una situazione normale questo sistema funzionerebbe meglio.

Torniamo a casa, dove la nonna hapreparato il ripieno, e ci mettiamo a fare i jiaozi (che, ricordo a chi dovesse trovarsi in Cina e avesse a disposizione solo carta e penna, si scrive 饺子), di cui ormai sono un esperto, li chiudo con la stessa facilità con cui chiudo una cerniera. E quelli che non riesco a chiudere li occulto in bocca.

Cosa che fa inorridire la mia fidanzata.

“Guarda che la carne cruda qui è meglio non mangiarla”, mi rimprovera. Per “qui” intende la Cina, prima ancora che Guiyang, ma non sono sicuro che sia un consiglio sanitario e non un suo pregiudizio su certo cibo: nonostante i cinesi mangino praticamente tutto quello che si muove riesce a trovare disgustose certe mie abitudini, come fare colazione col pane e marmellata pucciato nel tè o mangiare il fegato (non contemporaneamente, è chiaro).

Vorrei passare il pomeriggio in giro a fotografare palazzi brutti, o andare a vedere il parco dei divertimenti, ma mi spiace privare Shasha del poco tempo che passerà con la sua famiglia per venire dietro ai miei affari, e comunque questa immersione nella vita di una famiglia cinese non mi dispiace, specie quando la nonna mi allunga un gelato.

Il problema sorge quando la mia fidanzata va a riposare un’ora e io non posso seguirla, devo stare sul divano a fingere di dormire con una coperta sulla pancia, a 40°,e sorbirmi una specie di sceneggiato cinese in costume su nobili del medioevo che si dicono cose e fanno la faccia sconvolta.

Ritorniamo in albergo e ci buttiamo in piscina, dove facciamo conoscenza con due bambini vivacissimi che ci chiedono un sacco di cose in un perfetto inglese. I bambini cinesi sono dei fenomeni, parlano diverse lingue, fanno sport a livello agonistico, li vedi prendere lezioni di nuoto, sci, pianoforte e arti marziali un po’ ovunque. Uno degli ultimi giorni, a Pechino, ho assistito a un allenamento di una bambina che faceva pattinaggio su ghiaccio, impressionante.

In compenso i grandi non capiscono mediamente una minchia e vanno in giro con la maglietta tirata su e la panza fuori.

Per raggiungere la piscina attraversiamo la hall dell’hotel in accappatoio e ciabatte, sentendoci un po’ come Cersei Lannister durante la sua walk of shame.

Si avvicina l’ora di cena, e non abbiamo voglia di tornare giù in città, così chiediamo al concierge di indicarci un posto nei dintorni. L’idea sarebbe di andarci a piedi e fare due passi, ma il posto migliore è un centro commerciale un po’ troppo distante. Vabbè, taxi, tanto costano poco.

Sulla via passiamo abbastanza vicino al palazzo con la cascata da riconoscerne la sagoma, ma dal nostro punto di osservazione non si vede la facciata, e non c’è modo di sapere se è attiva o no. Spero fortissimo di no, visto che non potrò andarci sotto almeno non mi sarò perso niente.

Il centro commerciale è enorme, con un piazzale pieno di macchinine colorate, bocce trasparenti che vanno avanti e indietro come i mezzi di trasporto dell’ultimo Jurassic Park (gyrosphere, le chiamano nel film), trenini. Funziona che paghi, te ne prendi uno e lo carichi di bambini che lasci liberi di scorrazzare in mezzo alla gente. Dico bambini perché mi vergogno di chiedere alla mia fidanzata di noleggiarne uno per un’ora, ma l’invidia è tanta.

Gli spazi all’interno sono altrettanto ampi, in quei corridoi ci potresti posteggiare un autobus. In genere i centri commerciali cinesi sono costruiti intorno a un grande atrio su cui si affacciano tutti i piani, ma non è sempre così. Questo,ad esempio, è sviluppato in larghezza invece che in altezza, quindi lunghi corridoi distribuiti su tre soli livelli. A quello più alto, come sempre, ci sono i ristoranti.

La scelta, a sentire Shasha, è ampia. Per me sono tutti uguali, hanno dei tavoli all’interno e una scritta incomprensibile sulla porta. Riconosco solo i ristoranti di hotpot perché sul tavolo c’è una pentola. Qui l’hotpot è più diffuso che a Pechino, ce n’è di ogni tipo, ma l’abbiamo già mangiato ieri, andiamo a cercare qualcosa di diverso.

Su tutto il piano aleggia un forte odore di piedi. È un banco che cucina tofu invecchiato, l’alimento cinese più vicino al nostro formaggio. Ne prendiamo una porzione, non è male.

Scegliamo un ristorante che offre il piatto tipico locale, il si wawa, che se dovessi tradurre in italiano suonerebbe un po’ come “neonato di seta”.

Il concetto è lo stesso dell’anatra alla pechinese: piccole sfoglie sottili che farcisci con ingredienti a piacere e inzuppi nella salsa. La parte difficile è infilarseli in bocca senza versarsi niente addosso. Quelli bravi riescono anche a mangiarli a morsi, ma quando ci ho provato ho schizzato cibo perfino sui vetri del ristorante. C’erano i passanti, fuori, che si fermavano a guardarmi.