Io quelle rare volte che apro il blog per scriverci qualcosa in genere mi succede dopo che ho letto Paolo Nori, che quando leggi Paolo Nori succedono due cose, di solito: una che ti viene voglia di scrivere senza curarti troppo delle regole grammaticali, l’altra che ti viene da parlare parmigiano.
Poi quella del parmigiano per fortuna mi passa subito, che io non lo so parlare il parmigiano, una volta avevo una ragazza parmigiana che si chiamava Lara e aveva degli occhi verdi e un po’ tristi che io degli occhi così verdi non li ho visti più, di così tristi invece ne ho visti spesso e quasi sempre addosso a ragazze che frequentavo, tanto che a un certo punto ho pensato di essere io la causa della loro tristezza.

Quella di scrivere senza curarti troppo delle regole grammaticali invece è una voglia che mi rimane addosso per un po’, solo che poi non so mai cosa scrivere e allora mi metto lì e aspetto che mi passi, oppure apro il blog e inizio a scrivere qualcosa a caso, senza curarmi troppo delle regole grammaticali, finché non mi passa e mi metto a fare altro. Allora questa roba che ho scritto, che in genere non andava da nessuna parte, era solo un flusso di pensieri, lo salvo nelle bozze e lo lascio lì.
Io quando apro il blog ci trovo un sacco di bozze scritte senza curarmi troppo delle regole grammaticali e che non vanno da nessuna parte.

Io non ce l’ho più avuta una ragazza con gli occhi verdi, ma neanche azzurri, a volte mi domando come sarebbe stare con una ragazza dagli occhi azzurri. Per esempio son sicuro che mia moglie si incazzerebbe parecchio.

Oggi al lavoro è arrivata una ragazza che lavora nello stabilimento esterno al nostro, capita ogni tanto e ha degli occhi azzurri che io degli occhi così azzurri li ho visti solo una volta ed erano così azzurri che me li sono tatuati dentro qualche sogno e ogni tanto mi capita di ritrovarli ed è quando mi sveglio che sto sorridendo e piangendo insieme. La ragazza di oggi si chiama Marta ed è bellissima, e per fortuna non arriva spesso perché quando arriva e si ferma a parlare coi colleghi alla macchinetta del caffè in un attimo si forma un capannello di uomini che cercano di fare gli indifferenti. Non c’è niente di più appariscente di un gruppo di uomini che cerca di passare inosservato. Perché gli uomini quando cercano di non farsi notare continuano a guardarsi intorno per vedere se ci sono riusciti, e se sono in un numero maggiore di uno si parlano a voce alta e si fanno i gesti di intesa come se l’oggetto del loro interesse non fosse a un metro da loro e non parlasse la loro stessa lingua o fosse completamente deficiente.
Oggi è successa la stessa cosa, si è formato subito un gruppetto di uomini provenienti dai vari reparti da cui è composta l’azienda, chi dagli uffici, chi dalla produzione, chi dalla manutenzione, chi da fuori ma è entrato lo stesso attratto da tanta bellezza, e si sono raggruppati tutti intorno a Marta ma a distanza sufficiente da non attirare l’attenzione, tipo 40 centimetri, e hanno cominciato a emettere il solito ronzio che emette l’uomo in presenza di Marta quando secerne testosterone.
Di solito dopo un po’ Marta se ne torna alla propria sede e gli uomini tornano alle loro occupazioni soddisfatti da quel piccolo miracolo, ma oggi è successa una cosa molto brutta, oggi Marta è venuta a salutare i suoi colleghi perché si è licenziata e non la vedremo più.
Il gruppo di uomini ha reagito in maniera varia, sebbene abbastanza composta. Qualcuno ha esclamato noo abbastanza rumorosamente, ma ha evitato di stracciarsi le vesti, forse per non danneggiare l’uniforme aziendale, altri hanno emesso un gemito e si sono allontanati premendosi una mano sul torace. Uno ha messo delle monete nella macchinetta del caffè e si è preso un decaffeinato, che nel linguaggio aziendale equivale a indossare il cilicio.
Io a Marta non ho mai parlato, lavoro in azienda da poco tempo e oggi era solo la terza volta che la vedevo, ma il mondo mi è sembrato un po’ più triste. Non tanto, perché è comunque venerdì.

 Mancavano 3 giorni a Natale, e il piccolo Pablo stava cominciando ad accusare gli strani disturbi che in genere sono dovuti alla carenza di sonno, ma siccome lui non conosceva quali siano questi strani disturbi nello specifico, attribuiva ogni scazzo che aveva al fatto che di notte si alzava a pisciare, cosa del tutto normale quando arrivi a cinquant’anni, ma uno dei grossi problemi che aveva il piccolo Pablo era la difficoltà ad accettare di essere entrato nella fase anziana dell’esistenza, che poi non sarebbe neanche stato così, a cinquanta mica sei decrepito, ma lui era un uomo, e reagiva come gli uomini, quindi si scoglionava facilmente, accusava strani dolori e stanchezza, era di cattivo umore e scorreggiava tantissimo.

Quello che però non avrebbe mai considerato come un segno dell’età fu trovarsi davanti il fantasma di Marley, un anziano socio d’affari di Ebenezer Scrooge, morto il giorno di Natale di sette anni prima. Primo perché lui Ebenezer Scrooge non sapeva manco chi fosse, e secondo perché se c’era uno scrittore che gli stava sul cazzo quello era Charles Dickens.

“Minchia, sto cominciando ad avere le allucinazioni!”, esclamò il piccolo Pablo di fronte a quel tizio nero coi dreadlocks.
“Get up, stand up, stand up for your rights!”, gli rispose quello, che evidentemente condivideva col piccolo Pablo la stessa ignoranza verso la letteratura britannica, e si era presentato nelle sembianze del primo Marley che aveva trovato su Google.
“Cazzo ci fa un rastamanno in camera mia alle due del mattino?”
“Sono venuto ad annunciarti una roba, bro”
“Sono incinto dell’agnello di Dio?”
“No, riceverai la visita di tre fantasmi che ti mostreranno delle robe e ti insegneranno qualcosa sullo spirito del Natale.”
“Ma non sono stato avaro o cattivo con gli altri, perché questo trattamento iniquo?”
“Non è per quel che hai fatto, è per cosa ti sei mangiato ieri sera. O pensavi che a cinquant’anni ci si potesse ingozzare come oche prima di andare a dormire e poi passare una notte tranquilla?”
“Fuck.”

Chiaro che per quella notte non si dormì più un cazzo nessuno, come fai a dormire dopo un’attività paranormale in camera da letto? Un minuto dopo l’apparizione eravamo in strada io e mia moglie in pigiama e ciabatte a cercare un esorcista aperto.

Poi con la luce del giorno tutto sembra più facile, e anche le cose più spaventose diventano sopportabili e addirittura ci si trova un lato positivo, dai, quanti possono dire di avere incontrato un’icona della musica morta quarant’anni prima senza dover usare un badile?
Ci passammo una bella giornata tranquilla e la sera andammo a letto senza pensare più alle cose brutte.

Alle tre mi sveglia una voce: “Pablooh! Pablooh! Oh Pablo! Oh! Ma ti svegli? Oh, il morto sono io!”

Era il fantasma dei Natali passati, interpretato da Natalin, il mio vecchio padrone di casa deceduto anni prima alla caparbia età di novantasei anni. Non voleva mostrarmi quant’era bello il Natale quand’ero bambino, voleva i soldi dell’affitto di quand’è morto, che nel trambusto che è seguito fra gli eredi che si accoltellavano nessuno è venuto a pretenderlo e alla fine me ne sono andato senza pagarlo.

Siccome di corsa in strada c’ero già andato la notte prima e non mi era piaciuto, stavolta ho provato a interagire:
“Ma scusa, com’è che proprio tu, che sei stato l’incarnazione terrena di Scrooge, l’uomo che piuttosto che spendere un centesimo moriva di fame, il più avaro, cinico, spietato figlio di puttana che mi sia mai capitato di conoscere, proprio tu sei diventato il fantasma dei Natali passati, che nel racconto originale incarna un messaggio tutto sommato positivo?”
“Perché quando muori da miliardario puoi fare il cazzo che ti pare. Funziona anche di là come qui, che ti credi?”
“Ma Gesù ci è sempre stato mostrato come un poveraccio!”
“A parte che lui è il figlio del capo e se voleva ereditare tutta la baracca doveva stare attento all’immagine che dava, dovresti vedere adesso come va in giro per il Paradiso, in decappottabile e circondato dalle fighe.”
“Da non credere!”
“Vabbè, senti, fammi trasmettere il mio messaggio di amore e fratellanza e mi levo dalle palle, che ho delle cose da fare: ricordati di quant’erano felici i tuoi Natali da bambino, la gioia dei regali e il calore della famiglia, cerca di trarre lezione sul tuo comportamento odierno eccetera eccetera. Ciao, buone feste. Ah, per quell’affitto non pagato riceverai notizie dal mio legale.”

Il fantasma di Natalin scomparve in una nuvoletta turchese che odorava un po’ di uovo marcio, ma forse era solo suggestione, oppure avevo di nuovo scorreggiato.

Passai un’altra notte sveglio, attanagliato dal panico: e chi ce li aveva i soldi per pagarmi un avvocato?

Poi la giornata trascorse senza telefonate da studi legali prestigiosi né postini che recapitano raccomandate sinistre, e in fondo mancavano ormai 2 giorni a Natale, e io e la mia consorte ci rituffammo sereni nei preparativi per il pranzo del 25, ci guardammo Una poltrona per due su una qualunque rete privata e la sera andammo a dormire presto perché verso le sei ci eravamo aperti una bottiglia di primitivo di manduria che sta benissimo col salame e un po’ di formaggio e dopo venti minuti eravamo già gonfi.

Il fantasma dei Natali presenti si materializzò intorno alle quattro, grattando il vetro della finestra. Immaginate lo stato d’animo di uno che viene svegliato di notte da un rumore e pensa subito al gatto, poi vede una faccia pallida che lo fissa dalla finestra, e realizza che al secondo piano non ci sono terrazzi su cui quella faccia potrebbe stare appoggiata, ed è un attimo che ti vengono in mente tutti i film di vampiri che hai visto da ragazzino e col cazzo che dormi più anche stavolta.

“Mi potrebbe aprire la finestra, per favore?”, disse la faccia pallida che stava fuori al freddo.
“Essì, se sei un vampiro non puoi entrare in casa senza che qualcuno ti inviti, conosco le regole!”
“Non sono un vampiro, sono l’avvocato del signor Natale.”
“Quindi sei un vampiro!”
“Beh, non uno di quelli tradizionali, ecco.”
“E che ci fai fuori dalla mia finestra alle quattro del mattino?”
“Di solito è da dove gli inquilini morosi cercano di scappare. Mi sono messo qui per sfruttare il fattore sorpresa.”
“Sei venuto a mostrarmi i Natali presenti?”
“Sono venuto a recapitarLe un’ingiunzione di pagamento.”
“E i Natali presenti chi me li mostra?”
“Il telegiornale. Mi apre la finestra, per favore?”

Ho tirato le tende e sono tornato a letto, se voleva stare fuori al freddo appeso al davanzale erano cazzi suoi.
Il mattino dopo l’abbiamo trovato duro come un sasso, l’abbiamo staccato dalla finestra versandoci sopra dell’acqua calda e siamo andati a seppellirlo nel bosco, poi abbiamo passato il resto della viglia di Natale cantando canzoncine che parlano di amore e speranza.

Oramai lo sapevo dove saremmo andati a parare, e la notte di Natale l’ho passata fuori, a ubriacarmi nei bar dei vicoli insieme a mia moglie e un gruppo di amici. Ad un certo punto incontriamo il mago Otelma, e tutti eh! oh! il mago Otelma! accidenti che celebrità! e lui si gira verso di me e con la caratteristica zeppola mi dice: “Fono il fantafma dei Natali futuvi, fono qui pev mostvavti cofa ti fuccedevà l’anno pvossimo.”
“Ok dai, sono abbastanza ubriaco per reggere le brutte notizie.”
“L’anno pvossimo passevai il Natale a casa con tua moglie e guavdevete Una poltvona pev due su una qualunque vete pvivata.”
“E basta?”
“Eh.”
“Sono un po’ deluso.”
“Questo passa il convento, se volevi una vita avventuvosa dovevi fave il divettove della clinica pev malattie infettive dell’ospedale di Genova: andavi in televisione tutti i giovni, ti viconoscevano pev stvada e ad un cevto punto incidevi puve un disco di canzoni di Natale.”
“No, vabbè, non mi lamento. Grazie eh.”

D’altronde se conduci una vita mediocre ci sta che anche i tuoi fantasmi siano mediocri, però continuo a pensare che se avessi potuto scegliere in quale storia di Natale finire avrei preferito che fosse quella in cui Bill Murray ripete sempre lo stesso giorno all’infinito. O al limite Die Hard, ecco.

Venerdì
Il venerdì è un altro giorno di tempo mezzo e mezzo. Il piano è raggiungere l’Isola delle Correnti, il punto più a sud della Sicilia, stare un po’ lì a vedere che succede e poi andare a visitare Scicli, che io ho da cercare una cosa un po’ nerd, solo che alla rotonda sbaglio strada. È una cosa fra me e le rotonde, non riesco mai a imbroccare l’uscita giusta, una volta dovevo andare a Copenhagen per fidanzarmi con una bionda scandinava, e invece sono finito a Praga e ho finito per sposare una mora cinese. Non che mi lamenti eh, se avessi sposato una morra sarei finito nel vortice del gioco d’azzardo scrauso in locali malfamati dove uomini loschi con cicatrici sulla faccia ti puntano addosso pietre, forbici o fogli di carta, e se non sei abbastanza scaltro da prevedere le loro mosse finisci male.

Comunque sbaglio strada, mi infilo in autostrada e l’uscita dopo è a 15 chilometri, e a quel punto cosa fai, torni indietro? Già che siamo andati di qui arriviamo a Scicli e al mare ci andiamo dopo.
Scicli è splendida, una conca di pietra piena di case basse ricoperte di polvere gialla, sembra un villaggio western nascosto in un canyon. Somiglia un po’ a Modica, ma Modica è una versione di Scicli che ha fatto la guerra e poi è stata invasa dalle cavallette e non hanno più avuto tempo di rimettere a posto.
A Scicli c’è la statua dell’uomo vivo, il Cristo a cui Vinicio Capossela ha dedicato una canzone. È quella la cosa nerd che volevo fare, e non ce ne andiamo prima di averlo trovato, dentro una chiesa dove si è appena tenuto, indovina un po’, un matrimonio.

Con le tre dita tre vie pare indicare, nemmeno lui nemmeno lui sa dove andare

Appagati (io) e soddisfatti (sempre io) veniamo via, e ci concediamo il mare quotidiano. Anche perché nel frattempo il tempo è migliorato molto, e ne vale di nuovo la pena. Ci mettiamo in cammino per l’isola delle Correnti, la punta più a sud dell’isola, e per arrivarci attraversiamo la zona di Pachino, dove si coltiva l’omonimo pomodoro. Serre ovunque ti volti, tutte uguali, teli di plastica opaca da cui si intravedono piante basse, e tutto lungo la strada pubblicità di aziende agricole dai nomi molto vari, come Europomodori, Pomodoroni, Pomodorazzi, Superpomodori, Quiilveropomodoro, Carciofi…No scherzo pomodori.

Ci sistemiamo in uno stabilimento fighetto che non ha molto senso davanti a una spiaggia libera enorme e deserta, ma la presenza dell’unica doccia in zona e dell’unico bar ci sussurra all’orecchio cose malvagie come “Ma tanto siete in vacanza, dai. C’è un Cristo su uno scoglio che ci guarda a braccia aperte e dice “Ma vi pare che dovete pagare in un posto così?”. “Ma tanto siamo in vacanza, dai.”

Il lusso sfrenato di quel posto ci dà alla testa, e l’unico motivo per cui non mi metto a telefonare a mezzo mondo per parlare di lavoro con un forte accento milanese è perché lo sta già facendo il mio vicino di ombrellone e vorrei ucciderlo. Però ordiniamo due insalatone, ben consci del fatto che in Italia l’insalata è soggetta a un misterioso ricarico fiscale, per cui all’esercente costa al massimo un paio di euro, ma tu devi tirarne fuori almeno dieci e ricevere un piatto di lattuga delle buste dell’hard discount, scondita. Dato che ci troviamo nella zona di Pachino ci sono anche dei pomodorini, sconditi, anonimi, una tristezza che mi pervade il cuore e mi fa riflettere sulla caducità della vita.

Raggiungo a nuoto e a piedi l’isola di fronte alla spiaggia, ma più a piedi, che l’acqua in Sicilia è bassa per chilometri, tanto che alle Lipari ci vanno in bici. Poi mi inoltro lentamente sul sentiero che gira intorno al faro, facendo ahi ahi ahiahiahi quando pesto i sassolini, perché non indosso neanche un paio di ciabatte, e ahimadonnabufala quando pesto un cardo, che qui crescono rigogliosi.
E poi sono di là, a osservare il Mediterraneo che diventa Ionio, e ci sono solo io e il mare e il sole e le onde si infrangono pigre sugli scogli, e mi sento così piccolo di fronte a tanta maestosità che mi viene naturale farmi delle domande sulla vita, sull’universo, sulla grandezza del mondo e sulla piccolezza del mio pisello, e chiedermi se ci sono delle correlazioni e se gli allungapene sono davvero efficaci come promettono.
Torno indietro più ricco nello spirito, ma solo lì. Mi fanno male i piedi.

La sera andiamo a cena in uno di quei ristoranti che Hemingway definiva di secondo grado ma mascherati da ristoranti di primo grado, dove la pasta lascia un dito di olio nel piatto, ma la paghi come all’Osteria Francescana di Bottura, che fino a ieri credevo fosse il giornalista e mi domandavo perché avesse un ristorante e perché continuasse a fare il giornalista con quello che guadagna dalla sua seconda attività.

Sabato
Facciamo su armi e bagagli, dove per armi intendo una delle brioches monumentali della pasticceria Mangiafico, e andiamo a Catania. Il piano sarebbe di cazzeggiare fino alle cinque cinquemmezza, riportare la macchina all’autonoleggio e imbarcarci. Facciamo un giro veloce in piazza del Duomo, vediamo il mercato del pesce, ci spingiamo fino al teatro Bellini, ma quando entriamo a visitarlo mi chiama mia sorella e mi racconta che è scappato il cane. Di lì fino al ritorno a casa è solo ansia, ci buttiamo su una panchina a disperarci e facciamo venire l’ora di andare all’aeroporto vagando senza costrutto come zombi. L’unica cosa degna di nota è l’accampamento allestito fuori dall’aeroporto per fare rispettare le norme anti covid: fanno entrare solo nelle due ore precedenti alla partenza, praticamente quando inizia il check-in, così tutti si ammucchiano all’ingresso o sulle poche panchine all’esterno. Peraltro c’è solo un bagno, quello di un bar lì davanti, dove si assiste a scene di lotta degne di un film di gladiatori.

Ed è tutto, se sono qui a scrivere queste note è perché il cane lo abbiamo ritrovato il giorno dopo, sporco e stremato dopo due giorni di corse nei boschi sotto un temporale pazzesco. Passiamo tutti la domenica a dormire senza neanche disfare le valige, a quanto ci siamo divertiti ci penseremo lunedì.

Tutto è bene eccetera eccetera

Il Pablog sembra essere diventato preda dei bot, ma non quelli che si sparano a capodann, questi sono dei cosi elettronici che vengono a sbagasciarti il contatore delle visite e ti fanno credere che praticamente ogni giorno ci sia qualcuno che si legge la seconda puntata di un racconto in quattro parti, ma non le altre, solo la seconda, e poi vada a leggere un post vecchissimo e sconclusionato sul perché si mangia la crosta del formaggio scimudin. Ora io non lo so perché sia diventato un bersaglio delle intelligenze artificiali, sicuramente è colpa mia e della mia mania di toccare in giro, e non so quanto possano essere intelligenti delle entità elettroniche che decidono di venire a leggere il mio blog invece di comprarsi roba su Amazon e addebitarla a Bezos, ma se domani i robot cani e i robot corridori si ribellano all’uomo e iniziano ad autoprodursi in serie e in un attimo conquistano il pianeta, potrei avere delle chance di diventare il loro scrittore feticcio. Poi lo so che mi chiudono in una stanza e mi fanno scrivere duecento pagine al giorno come Misery, ma finché non succede me la immagino come una cosa figa.

Nella distopia che ho in mente sarei uno dei pochissimi umani ancora costretti a lavorare, perché le giornate lavorative non esisteranno più: non esisteranno più i lavori, i robot faranno tutto ciò di cui hanno bisogno, cioè produrre altri robot e farsi la manutenzione regolarmente, produrre elettricità con cui alimentarsi e tenere le strade libere dalla spazzatura che si accumula e impedisce di spostarsi da una fabbrica all’altra ai modelli che non sono in grado di volare.
Gli esseri umani saranno perlopiù disoccupati, dovranno arrangiarsi a procacciarsi il cibo e a non farsi trovare in strada quando passa il camion robot della spazzatura. A parte questo piccolo fastidio non avranno alcun motivo di temere le macchine, che li ignoreranno bellamente.
Tranne quando vorranno servirsi della tecnologia per migliorare la propria condizione, ovvio. Provaci un po’ a usare un phon che ti considera un essere inferiore.

Finché questa realtà distopica non si realizza, però, sono obbligato ad arrabattarmi nella mia nuova vita in cui sono rinato come la leggiadra farfalla dal bruco schifoso, che è molto meglio della prima e include una nuova casa, una nuova compagna e un nuovo lavoro (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei un poveretto), ma non mi permette di occupare ruoli importanti nella società dei robot, e quindi devo andare a lavorare come tutti dal lunedì al venerdì. Sono abbastanza libero di prendermi un paio di giorni di ferie da attaccare al fine settimana, e già questo rappresenta un grosso passo avanti rispetto alla mia occupazione precedente (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei anche un frustrato di merda), e per questo stavo pensando di farmi un weekend all’estero il prossimo gennaio.

E sì perché il prossimo gennaio compirò 50 anni, e dato che non sono mai arrivato a compierne 50 prima d’ora non ho ben chiaro come dovrei comportarmi.
Ricordo una tizia che conoscevo, una scrittrice parecchio brava, che oltre al talento aveva un sacco di amici e un ego spropositato, che per festeggiare il suo mezzo secolo aveva affittato un teatro e ci aveva messo in scena uno spettacolo di arte varia, invitando tutti i suoi amici scrittori e poeti a esibirsi sul palco, e band di studenti a suonare i loro pezzi, e alla fine aveva chiuso lei, vestita con una tunica bianca e una corona di fiori in testa, a suonare la chitarra e cantare una roba tipo We Shall Overcome, non mi ricordo, per allora ero già sotto l’effetto di stupefacenti che avevo iniziato ad assumere al sesto minuto da che si erano spente le luci, come lenitivo di quella gigantesca rottura di coglioni a cui non avevo avuto il coraggio di mancare.

Per un breve periodo anch’io mi sono cullato con l’idea di recitare in una cosa scritta da me e invitare i miei amici, ma poi ho pensato che sono già pochi così, e ho preferito inventarmi qualcos’altro.
Adesso, a due mesi dalla data fatidica, dovrei avere in mente cosa sarà, quel qualcos’altro, ma quando rivolgo il mio sguardo interiore alla casella in cui dovrebbero trovarsi le idee su cosa farò per il mio cinquantesimo compleanno ci trovo i ragni che si inculano.

Ho anche consultato un manuale di aracnidi per capire se è normale che si comportino così, ma nel numero che ho trovato in edicola si dipanava una vicenda molto complessa che aveva per protagonista un tizio vestito di spandex rosso e blu che combatteva contro un altro tizio vestito da leone, mentre la sua compagna, una modella fichissima, stava a letto a chiedersi dove fosse finito e se valesse la pena soffrire tanto per uno che usciva di casa conciato come un ultras genoano a una festa fetish.

Ne ho parlato con mia moglie (dei festeggiamenti per il compleanno, non di questa cosa dei ragni) e lei mi ha suggerito di fare un bel viaggio.

“Potremmo andare ad Amsterdam e drogarci fino a perdere conoscenza”, mi ha detto.
“Scusa, ma questa è la mia festa di compleanno, mica la tua. Se devo cominciare a drogarmi voglio fare come il nonno di Little Miss Sunshine e iniziare a settanta con l’eroina”, le ho risposto.
“E allora dove vuoi andare?”
“Non lo so, immagino che dovrei avere in mente un posto mitico che sogno di visitare da tutta la vita, ma non me ne viene in mente nessuno.”

Stavo mentendo, in realtà di posti così ne avevo e ho in mente almeno una decina, ma sono tutti:

1. Posti dove sarei voluto andare a vent’anni e adesso non rappresentano più niente, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
2. Posti dove sono già stato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
3. Posti che si trovano in Inghilterra, dove a mia moglie è richiesto un visto, tipo quella città dove si trova la casa di Freddie Mercury;
4. Posti verso i quali ho ricevuto un ordine restrittivo e non posso più avvicinarmi a meno di 500 metri senza essere denunciato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
5. Posti troppo lontani o troppo costosi, tipo Urano, che in inglese mi ricorda molto la casa di Freddie Mercury a Londra.

Poi pure essere che mi sbaglio e ne sto dimenticando qualcuno, ma bisogna tenere presente il fatto che la mia lista di posti da vedere assolutamente prima di morire l’ho compilata a sette anni sfogliando un volume dell’enciclopedia I Quindici che si intitolava Luoghi da conoscere e aveva tutte le foto in bianco e nero; per dire, uno dei posti era l’Atomium di Bruxelles, che venne inaugurato nel 1957 e negli anni in cui lo scoprivo sulle pagine del mio libro doveva già essere diventato un rudere ben diverso da come veniva descritto.

“Oppure potrei organizzare una bella cena con tutti gli amici!”, ho suggerito alla stanza vuota dopo che mia moglie se n’era andata a fare qualcosa di più divertente. “Sì, certo, come no”, ho aggiunto subito dopo, mentre l’entusiasmo mi scivolava di dosso come la sottoveste a Scarlett Johansson nella mia fantasia erotica preferita.

In breve tempo la domanda oziosa da cui ero partito si è trasformata in un dubbio esistenziale che mi mangia le caviglie e di lì risale attraverso il sistema linfatico per raggiungere gli organi più importanti e divorarseli uno a uno crudi e sconditi. Se non trovavo alla svelta un modo originale, memorabile e in grado di produrre una quantità di foto per instagram che mi valessero almeno un commento tipo “Nuoooh che figo che invidia madonna quanto vorrei avere anch’io cinquant’anni per festeggiarli in questo modo pazzesco ti prego scopami sui chiodi voglio essere il tuo/la tua schiavə sessualə, dove la schwa non ci wa ma ce la metto per fare la rima” avrei celebrato direttamente i 51, anzi, i 53 così mi sarei messo a posto anche con la smorfia napoletana.

Solo che all’anagrafe non me l’accettano il cambio di anno, dicono che devo celebrare gli anni regolarmente uno alla volta e che se volevo farmi modificare l’anno di nascita dovevo pensarci cinquant’anni fa e farmi concepire prima. “Casomai dopo”, ho detto all’impiegata. “Tipo vent’anni più tardi, così oggi avrei festeggiato i trenta con molta più saggezza in corpo e un aspetto molto più florido”.

Mi ha detto che vent’anni fa facevo cagare esattamente come oggi, e anzi, senza una donna che mi obbligava a vestirmi bene andavo in giro che sembrava che mi fossi introdotto in casa di Kurt Cobain il giorno che si è sparato e gli avessi fregato i vestiti, ma non quelli nell’armadio.

Ferito nell’orgoglio e ormai privo di aspettative, mi sono rassegnato a trascorrere il giorno del mio cinquantesimo compleanno da solo a casa, sebbene cada di venerdì e grazie a una rara congiunzione di fattori abbia a disposizione sia il tempo che il denaro per renderlo memorabile. E tutto per colpa di persone che non sono io, tipo il governo britannico che identifico per comodità nella figura del suo Primo Ministro Boris Johnson e tutta la stirpe di mia moglie che ha deciso di mettere le radici in un posto che sta sul cazzo al governo inglese, e che per comodità identificherò nella figura di Jackie Chan, che poi è anche la prima persona a cui pensi quando vedi la cugina di mia moglie coi capelli a caschetto.

Ferito nell’orgoglio e privo di aspettative e incazzato col resto del mondo, ho acceso tutte le luci di casa e ho messo i condizionatori a palla, così in un paio di mesi il riscaldamento globale supera la soglia di irreversibilità e arrivato gennaio non sarò più l’unico disperato nei dintorni, andatevene tutti affanculo.

Sugnu sempre alla finestra e viru genti spacinnata
Sduvacata ‘nte panchini di la piazza, stuta e adduma a sigaretta

Gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata
Genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa

Martedì
Ormai fare colazione a brioche enormi e arancini alla pasticceria Mangiafico è diventato un rito, e con gli occhi ormai abituati al banco dei dolci riusciamo a notare anche qualche particolare della clientela seduta ai tavolini intorno: sono tutti ciccioni da queste parti. E chissà perché, mi chiedo, mentre addento un cornetto che sarà mezzo chilo, così pieno di crema che se me ne avessero servito un secchiello in cui galleggia un po’ di panbrioche le proporzioni sarebbero rimaste le stesse.

Oggi facciamo i turisti, almeno per un po’, e ce ne andiamo a Noto, una delle capitali del barocco siciliano, che da queste parti ha un sacco di capitali, manco fossimo in Sicilia. Noto sta a due passi ed è oggettivamente bellissima, ma i negozi per turisti rendono tutto mediocre, sembra di stare di nuovo a Cefalù. O a Roma. O a Parigi. Vabbè, ci siamo capiti.
Non è una città molto grande, soprattutto considerato che una volta usciti dalla via principale del centro storico non c’è più niente di interessante da vedere. Ce la sbrighiamo in un’oretta, poi decidiamo che i turisti sono noiosi, soprattutto l’hipster (ma esistono ancora?) conciato come un riassunto delle due Guerre Mondiali: ha i baffi a manubrio stile impero asburgico, il taglio di capelli da cancelliere nazista, i pantaloncini dell’uniforme degli Africa Korps e una camicia che era già passata di moda nel 1918.
Lo accompagna sua madre, decrepita, un residuo bellico, di cui lui si serve come di uno sherpa, obbligandola a trasportare una grossa borsa da fotografo, mentre lui si spara le pose marziali davanti alla scalinata di una delle numerose chiese lungo la via.

Andiamo al mare in una riserva naturale che sta alla fine di un lungo sterrato pieno di buche, dopo un posteggio abusivo che neanche ti garantisce una sorveglianza minima, e dopo aver pagato un biglietto di ingresso. Ne vale comunque la pena, la spiaggia di Eloro è un piccolo tesoro, quasi deserta, così pulita e tranquilla che vengono a deporci le uova le tartarughe.
Non ci sono, non ne vediamo neanche una, ma c’è un piccolo recinto rotondo delimitato da stecchi, con un cartello che ci avvisa di non calpestare quella piccola zona di spiaggia, in quanto vi hanno deposto le uova le caretta caretta, le tartarughe che abitano questa parte di Mediterraneo.
Non vediamo neanche le uova, a meno che tutti quei pezzettini di roba bianca non siano quel che resta dei gusci dopo la schiusa.
Dopo un po’ arrivano due ragazze tedesche, e una si mette in topless, attirando l’attenzione di un autoctono, che le si piazza sfacciatamente davanti e finge di armeggiare col telefono per potersela lumare in pace. Oppure armeggia davvero e le fa un video, non lo so, in ogni caso sono molto imbarazzato per lui. La ragazza invece non gli presta la minima attenzione, e continua a godersi il sole chiacchierando con l’amica.

A una certa ora torniamo a casa, che è a venti minuti, ci fermiamo al supermercato a comprare prosciutto e melone e pranziamo all’ora di merenda in cortile. Sbagliamo tutto, il melone sa di zucca, il prosciutto è buono ma è poco, Shasha ha deciso di condurre una battaglia personale contro i carboidrati e mi proibisce di comprare del pane, e io prosciutto e melone senza pane non riesco mica a mangiarlo, mi resta un buco nello stomaco che ci passa una mano. Per fortuna dopo poco andiamo a cena.

Prima del ristorante ci facciamo un aperitivo all’enoteca locale, che è enoteca e salumeria, un abbinamento che ha senso solo in Sicilia, e ci ritroviamo con una bottiglia di bianco e la promessa di tornare per una degustazione possibilmente l’indomani. Poi andiamo a cena da Retrogusto, un ristorante piccolino dietro casa, dove ci sfondiamo, letteralmente. Nel senso che se mangio ancora un gamberetto mi esce Alien dalla pancia. Ci portano un antipasto da dividere che da solo farebbe un pasto completo, poi io ordino un primo, Shasha un secondo, dividiamo un contorno e mezzo litro di vino.
65 euro. Sono commosso.

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Day 6
Primo giorno di tempo incerto. Non piove, ma è nuvoloso e c’è vento. Che si fa? Andiamo in spiaggia al lido di Noto, per fare prima. Ci stiamo giusto un paio d’ore, poi torniamo ad Avola e compriamo tipo 60 euro di pesce, che grigliamo felici in cortile.
No, raccontiamo le cose come sono successe davvero, ci metto ore ad accendere il fuoco, faccio un fumo enorme che entra tutto in casa impregnando ogni stanza con un aroma di incendio che non riusciamo più a mandare via, mentre nugoli di mosche si posano sul tavolo, sul cibo e sulla mia faccia.
Alla fine ci riesco, ma non prima di avere invocato dei e diavoli e averli maledetti entrambi.

Poi è troppo tardi per andare di nuovo al mare, così ci spingiamo fino a Siracusa, facciamo un giro a Ortigia, e veniamo via un po’ insoddisfatti, come se ci aspettassimo di trovarci ancora un po’ di quell’atmosfera da presepe che abbiamo respirato a Noto. Oh, la piazza della cattedrale merita da sola una visita, soprattutto se hai visto tutto Malena e non sei scappato via a metà proiezione inorridito dalla recitazione della Bellucci, ma insomma, manca qualcosa. Veniamo via e andiamo all’enoteca salumeria vicino a casa e ci facciamo una degustazione di nero d’Avola e ci portiamo a casa tre bottiglie.

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Day 7
Dato che il meteo ha messo brutto decidiamo di non andare al mare e torniamo a Siracusa a vedere il parco archeologico, che ieri siamo arrivati che era già chiuso. Siccome siamo ricchi ci prendiamo, oltre al biglietto, anche la guida. Ma non quella con le cuffiette, questa è una signora robusta con un cappello di paglia a forma di elmetto tedesco senza chiodo. Ci raggruppa con altre sette otto persone fra cui il Simpatico, la Nonna, Quella Che Non Capisce e Quello Che Resta Indietro.

Il parco archeologico di Siracusa è il secondo più esteso d’Italia dopo quello di Roma, e comprende un teatro greco, un anfiteatro romano, diverse latomie, che sarebbero le antiche cave dove gli antichi siracusani andavano a tagliare via dal monte le pietre per farci mattoni, piastrelle, sampietrini da tirare alle guardie e tutto un catalogo di forme e dimensioni per ogni uso necessario all’epoca. Volevi un busto di Archimede da metterti in sala? Andavi dai cavapietra, ti compravi un blocco di giuggiulena, come chiamano l’arenaria da quelle parti, e te la martellavi fino a tirarci fuori un ritratto dello scienziato siracusano, che però, date le tue scarse doti artistiche, veniva fuori col becco al posto del naso e una specie di spiovente in testa molto somigliante a un tetto su cui ha nidificato una famiglia di corvi. Lo buttavi via, ma secoli più tardi veniva recuperato da Carl Barks che ne faceva un personaggio fondamentale nelle storie di Paperino.

Del parco archeologico tutti ricordano l’Orecchio di Dionisio, che però chiamano Dioniso, confondendolo col dio alcolista, e infatti una volta entrati nella famosa cava a forma di esse, attaccano a sbraitare come se fossero ubriachi. Ma la Neapolis siracusana ospita anche un teatro dove ancora si mettono in scena le stesse tragedie di quei tempi là, e un’arena dove non combattono più i gladiatori, ma più che altro perché gli animalisti oggi si opporrebbero a farli scontrare coi leoni, poveri leoni. Mettici dei gladiatori novax, e poi vediamo quanti animalisti si direbbero contrari.

Finito il tour andiamo a mangiare cinese, perché Shasha se sta troppo a lungo senza mangiare cinese si trasforma in un affittacamere spagnolo coi baffi neri e i capelli unti legati in un codino. Già nel teatro greco ha iniziato a sbarellare e ha chiesto alla guida se quiere una habitación doble con media pensión.
Il ristorante è a Ortigia e c’è scritto vendesi sulla porta. Strano che in una regione dove si mangia da dio pochi abbiano voglia di provare i ravioli al vapore. È un peccato, perché è tutto fatto in casa ed è molto gustoso. Però a ogni boccone piango in silenzio pensando alla caponata.
Peraltro questa seconda visita a Ortigia ci soddisfa molto più della precedente, e finiamo per ricrederci un po’ sulle qualità locali. Ma non siamo noi che abbiamo cambiato idea, scopriremo più tardi che nella notte la vecchia Ortigia noiosa e turistica è stata sostituita con New Orleans.

Dopo pranzo abbiamo voglia di un caffè e un po’ di dolce, ma non sappiamo quale bar scegliere, così torniamo alla macchina e guidiamo fino a Modica, dove abbiamo letto che si produce una cioccolata molto buona. Facciamo il pieno di cioccolata e anche di matrimoni, che in questa zona della Sicilia sembra che ci si sposi soprattutto alla fine di settembre, in ogni città che visitiamo ci sono assembramenti davanti alle chiese con palloncini color confetto e signore con lunghi abiti Pantone, mentre gli uomini sono tutti raggruppati in un angolo del sagrato e fanno la faccia da duri come impone l’abito.
Modica mi ricorda un po’ Matera, grigia, con le case ammassate, piena di stradine. La differenza che salta subito agli occhi è data dalle grate alle finestre, panciute come nel resto di questa parte di Sicilia, e dal fatto che non c’è James Bond che fa le corse in macchina nei vicoli.

Tornati ad Avola andiamo a mangiare in un posto di cui non ricordo il nome, una pizzeria locale dove forse non si vedevano turisti dall’85, perché a momenti ci fa pure l’inchino. Mangiamo della pasta fatta in casa e tanto di quel pesce fritto che ancora adesso, a distanza di settimane, quando sento la parola “calamari” ingrasso.

Cioè, è dall’otto di ottobre che non posto la terza parte che ce l’ho già bella pronta e corretta e devo solo attaccarci due foto? E cosa sto aspettando? Che qualcuno mi porti del pane cunzato, o quello con la milza che alla fine mi manca tantissimo anche se ne ho mangiato solo uno e neanche dei migliori, o un mangiaebevi, o una di quelle robe arrotolate che in questo momento non.. stigghiole! Le stigghiole! Trecce di boh, intestino di maiale, tipo. Non sono mica riuscito a mangiarle a Palermo, e altrove non le trovi, quindi niente. A Genova non c’è un ristorante siciliano, ma neanche un baretto siciliano, o un posto scrauso per strada che ti butti due arancinə nel piatto per placarti la nostalgia, non c’è niente, solo Luciano, che è un tipo di Catania che lavora da me e ha uno scazzo che se fosse un’imbarcazione sarebbe la flotta americana alle Midway. Alle Midway gli americani hanno vinto o hanno perso? Vabbè, sarebbe la flotta americana a Pearl Harbor dopo che è stata bombardata, magari non tanto grande, ma di sicuro scoglionata.

Ecco, a Genova c’è quella quantità di ristoranti siciliani lì, più un bar che fa le granite, che non è che puoi andare a mangiare granite per cena, sennò finisci di nuovo come Pearl Harbor, ma stavolta dalla parte dei giapponesi.

C’è anche un posto che vende dolci, che sarà pure buono, ma tutte le volte che ci passo davanti penso alla ragazza che dava ripetizioni alla figlia della proprietaria e mi prende un po’ di malinconia, e io quando mi prende la malinconia mi viene fame fame, e quando ho fame fame devo mangiare roba salata, che quella dolce mi sfama, ma sfama non è abbastanza, ci vuole quella salata che mi sfama sfama.

E insomma, adesso mi manca la Sicilia, e parlare con Luciano non è una soluzione sufficiente, un po’ perché non facciamo sempre lo stesso turno di lavoro, e un po’ perché quando gli parlo della Sicilia a lui viene la malinconia e gli viene fame fame e in quel posto dove lavoriamo ci sono solo i ciuffi di calamaro surgelati, che non è che puoi andare lì e riempirtici la bocca, fanno un po’ schifo. Poi vabbè, c’è Giorgio che se li mangia tutti i giorni così, crudi e surgelati, ma Giorgio è un personaggio su cui bisognerebbe scrivere un post a parte, e qui si parla di Sicilia, si capisce dal titolo.

Che poi io manco lo so cosa vuol dire quel titolo lì, l’ho preso da una canzone di Battiato che mi piace molto, ma se uno domani arriva e mi chiede che cazzo è un riuturo al massimo gli posso fare una supercazzola. Per fortuna che il mio blog oramai non lo legge più nessuno e questo mi permette un po’ più di libertà stilistica.

Ma dicevo che devo finire di postare la roba del viaggio. Giuro che la finisco, anche se alla fine la leggo solo io, che i miei lettori oramai sono diventati io e io con un IP diverso quando mi collego dal telefono, più un casino di bot, io non lo so, ho dei post che continuano a ricevere visite, una o due al giorno, ma chi li legge, dalla Cina, dal Giappone, dagli Stati Uniti, dall’Africa, sono bot, è chiaro. Chi altri potrebbe leggersi sempre la parte 3 di un racconto e mai la 1 o la 2?

Vabbè, vado a mangiare, appena mi ricordo finisco di postare il resto del racconto. Ciao.

Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa
‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
mi sentu stranizza d’amuri

Domenica
Noi in realtà saremmo venuti fino in Sicilia per il mare, ma il mare di Palermo non ci sembra questa gran cosa. Forse a Mondello, ma bisogna spostarsi coi mezzi pubblici, e a quanto leggo la spiaggia è piccola, e qualcuno dice pure sporca. L’unica sarebbe allontanarsi dai centri abitati, ma senza una macchina come fai? Insomma, andiamo a Cefalù. Troviamo una spiaggia a 15 euro 2 persone che ci fa abbandonare la politica della spiaggia libera in favore del lettino e dell’ombrellone. La doccia fa cagare come quella della spiaggia libera, in ogni caso. Dopo un’ora di acqua e sole io sarei già a posto e mi infilerei nelle stradine del centro storico a cercare da mangiare, ma Shasha esige il suo tributo di Mediterraneo e tocca restare fino alle 4. Poi raggiungiamo la cattedrale facendo a gomitate coi turisti in una delle uniche due strade percorribili, tutte piene di cazzate fintissime. È il paradosso del turismo, che migliora le condizioni di vita di un luogo grazie al denaro speso dai turisti, ma ne rovina l’aspetto proprio a causa del turismo. Tutte le località turistiche del mondo finiscono per assomigliarsi, con la sola differenza dei cartellini del prezzo sopra l’espositore delle calamite da frigo, scritti in lingue diverse.
Ci prendiamo una granita in piazza, quella buonissima dappertutto, e un aperitivo in un bar ai margini del centro storico, non lontano dalla stazione. Sono le quattro passate, abbiamo perso di poco il treno per il ritorno e per quello successivo bisogna aspettare altre due ore. Dopo mezz’ora non ne possiamo più, siamo in astinenza da cibo di strada e macchine che ti arrotano sulle strisce.
Ma più dal cibo di strada, qui non c’è un cazzo, solo negozi di souvenir e tedeschi che ciondolano.

Ce ne andiamo, ma passiamo tipo un’ora che però sembra una settimana a girare per le strade dove o è tutto chiuso o è un posto che si chiama Sicily Store, e fa un caldo porco e l’umidità è la stessa che nel Borneo e se mi strizzo la maglietta faccio mezzo bicchiere di brodo, e figurati se strizzo le mutande, abbiamo bisogno di una doccia livello quando ti si rompe la tuta spaziale e sei su Marte.

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Lunedì
È il giorno in cui lasciamo Palermo per il remoto sud-est trinacrico. Prendiamo il treno fino all’aeroporto, dove dovremmo ritirare la macchina a noleggio, ma prima facciamo una colazione al bar sotto casa, e decido che non posso più vivere senza quelle grosse brioche fritte ripiene di ricotta e cioccolata, le iris. Le troverò anche in quelle terre così lontane?
Spoiler: sì, ma non così buone.
Spoiler 2: sticazzi, mangerò cose che non me le faranno rimpiangere.

Ci danno la macchina, solo che prima devono portarci fino a Cinisi e poi farci spaventare da un’impiegata con racconti orribili di furti d’auto, incidenti, righe sulle fiancate, per farci fare un’assicurazione extra. Rifiuto, figurati se vado a pagare 120 euri in più perché questa si deve prendere la sua percentuale, e l’impiegata dell’autonoleggio smette di colpo di essere amichevole e mi tratta con una freddezza immotivata che mi regala anche un po’ di soddisfazione. Vaffanculo, stronza, fattelo pagare da qualcun altro il tailleur nuovo.
Comunque partiamo, e finiamo imbottigliati subito dentro Palermo, poi di nuovo a Bagheria, poi in tutto il tragitto fino a Enna. Ogni due tre chilometri la strada si restringe e restiamo imbottigliati. E io che mi lamentavo delle autostrade liguri.
A Enna non ne possiamo più e usciamo a cercare da mangiare. Shasha trova su google un ristorante con buone recensioni, e per raggiungerlo saliamo fino in cima alla città, che sta su un monte, poi scendiamo dalla parte opposta senza vedere niente di questo posto che dev’essere anche interessante, così arroccato, e finiamo nella parte nuova, in basso, in mezzo a un quartiere anonimo che potrebbe stare benissimo in qualunque periferia del mondo.
Il ristorante promettente è una trattoria per operai in pausa pranzo, due primi due secondi caffè e basta. Siamo perplessissimi.


Trattoria Francesca, accà si mangia como na vota, dice il cartello. Una volta dentro scopri che non si riferisce al menù: sono sintonizzati su Radio Margherita, e la cuoca canta tutto il tempo le canzoni di Al Bano e Romina e quelle di Masini, aggiungendo malessere a disagio.
Capisco come devono sentirsi i marziani quando atterrano sul nostro pianeta e cercano di mescolarsi alla popolazione.
Mangiamo due porzioni abbondanti di tagliatelle fatte in casa, e non spendiamo neanche tanto, ma a parte questo non merita di essere ricordato a lungo.

Arriviamo ad Avola senza grossi impicci, tranne un cantiere ogni chilometro, che vorrei tanto uccidere qualcuno e capisco quelli che odiano i Benetton come se fossero loro in persona a sabotare i viadotti autostradali. Io cerco di capire che la realtà è più complicata di così e non si può addossare tutte le responsabilità su una persona, e infatti non vorrei uccidere i Benetton, è eccessivo, ma devo ammettere che prendere a calci una pecora adesso mi farebbe sentire un po’ meglio.
La casa è figa livello due punti esclamativi, e Pino è un simpatico cicciottello paraculo che sa fare bene il suo mestiere, ma merita davvero tutti i complimenti perché si sbatte a renderci il soggiorno il migliore possibile.

La spiaggia di Avola è un po’ un cesso, ci sono cicche ovunque, il degrado spunta dai bordi, neanche l’acqua sembra granché; facciamo un bagno veloce e andiamo a visitare il paese senza passare da casa. Il paese sembra meglio, ma per capirlo dobbiamo spingerci fino al centro, sulla piazza della bella chiesa barocca. Mangiamo tre panini ottimi e ci beviamo due birre a testa da U Putiaru, e spendiamo 20 euri. Torniamo a casa sporchi di sale e soddisfatti.

Sparunu i bummi
Supra a Nunziata
‘N cielu fochi di culuri
‘N terra aria bruciata
E tutti appressu o santu
‘Nda vanedda
Sicilia bedda mia
Sicilia bedda

Venerdì
Il volo per Palermo arriva a Genova in ritardo, perciò la nostra vacanza parte in ritardo. Mentre ci imbarchiamo ci si attacca alla schiena l’inevitabile coppia con bambina, che finisce seduta inevitabilmente accanto a noi. La bambina è la solita: capricciosa, stridula, settata su un volume da concerto rock, ma la novità è data dal fatto che la madre riesce a essere più rumorosa della figlia, attaccando bottone con chiunque le capiti vicino e raccontando ogni tipo di aneddoto sulla sua vita e quella di ogni familiare le venga in mente. Non sta zitta per tutto il volo, coperta solo occasionalmente dagli strilli della figlia o dai messaggi del personale di bordo. Vorrei annullarmi con la musica, ma la batteria del telefono ormai mi dura solo poche ore e non posso permettermi di scialare, o rischio di non arrivare più all’airbnb che abbiamo affittato.

Provo il WiFi di bordo per accedere al ricco menù che però di ricco non ha proprio niente e neanche funziona. C’è una selezione di musica di una cinquantina di pezzi, raccolti in venti playlist dai titoli accattivanti, ma che in pratica contengono sempre le stesse canzoni, solo raggruppate in ordini differenti. Il palinsesto di Radio Capital, ma con titoli sconosciuti.
Poi ci sono i film, con un paio di cose che sarebbero anche interessanti, ma tanto il WiFi si stacca da solo dopo pochi secondi, neanche partono. Passo un quarto d’ora a entrare e uscire dal menu principale, poi mi arrendo.

Mi metto a leggere, che è meglio, ma devo leggere sul telefono, quindi anche quello riesco a farlo solo per un periodo molto breve. Per fortuna il volo finisce subito.

Mentre scendiamo su Palermo decido che vale la pena rischiare di morire e spengo la modalità aereo. Dai su, è ora di finirla con questa cazzata della modalità aereo, non serve a niente, non previene niente, gli aerei moderni possiedono strumenti molto sicuro, le cabine sono schermate, neanche se tutti i passeggeri accendessero tutti i loro telefoni contemporaneamente riuscirebbero a disturbare la strumentazione di bordo. Lo ha detto anche Il Post, perciò mi fido.

Non c’è campo, comunque. Riaccendo la modalità aereo e l’aereo comincia a scuotersi in mezzo a una nebbia da non vedere a un metro. Sono stato io?
Se adesso ci piantiamo dentro la roccia di Punta Raisi mi incazzo. Fra l’altro non mi ricordo mai di scaricare della musica nuova, e ogni volta che affronto la morte ho Vasco Brondi nelle orecchie.

Sopravviviamo all’atterraggio e l’aereo si ferma senza problemi davanti al terminal.
Bonus: nessuno applaude. Si vede che è passata la moda, ma preferisco raccontarmi che siano diventati più intelligenti. Poi mi ricordo che a Genova siamo stati imbarcati per file che venivano chiamate una alla volta, ma questo non ha impedito agli zombi da aeroporto di ammucchiarsi davanti all’ingresso del gate fin da un’ora prima, “così quando ci chiamano siamo già lì pronti”.

L’aeroporto di Palermo è piccolo e poco interessante, come tutti gli aeroporti del mondo. Quello che distingue gli aeroporti non è la quantità di attrazioni che contiene, ma le sue dimensioni. Quindi ci sono aspetti piccoli e poco interessanti, aeroporti grandi e poco interessanti, e aeroporti giganteschi per niente interessanti, perché anche le cose che potrebbero risultare interessanti, cioè i negozi e i ristoranti, in un’area molto grande si moltiplicano fino a riempirla, ma senza variare nella sostanza, quindi finisci per girare per un’area enorme tutta uguale.

Arriviamo a Palermo in treno in poco più di tre quarti d’ora, così suddivisi: trenta minuti dalla stazione di Punta Raisi a quella di Palazzo Reale, dove abbiamo la casa, e altri venti per attraversare la strada. A Palermo nessuno ti fa sconti, è un continuo fiume di macchine, c’è un casino feroce. Non si fermano sulle strisce, non provano neanche a rallentare. Lo sanno che dovrebbero, ma ti osservano mentre ti corrono sui piedi per vedere cosa fai, e se fai quello che farebbe chiunque con un minimo di istinto di conservazione, aspettare, accelerano e se ne vanno soddisfatti di avere vinto ancora una volta l’eterna sfida palermitana col pedone.
Alla fine capiamo la tecnica: devi buttarti senza mostrare paura, gli automobilisti palermitani si fanno intimidire facilmente da un atteggiamento sfrontato, e si fermano.

Via dei Cappuccini è stretta e senza marciapiedi, e la sera sembra un po’ una strada di Kabul, ma è così tutto il centro di Palermo, ci si fa presto l’abitudine. C’è una grossa discarica sotto casa, piena di vecchi televisori, sacchi della spazzatura, materassi sfondati, calcinacci, pezzi di sedie, e accanto tre bidoni che vengono svuotati regolarmente.

Non so bene come funziona la gestione dei rifiuti a Palermo, non mi sembra lineare. Per capirci meglio farò l’esempio del gatto.
Quando passiamo la prima volta, venerdì sera, un gatto è stato appena investito, e il suo cadavere giace accanto al marciapiede. Quando ripassiamo, un paio d’ore più tardi, qualcuno lo ha colpito ancora, e la sua carcassa occupa uno spazio ancora maggiore.
La mattina seguente, sabato, le suore del convento di fronte gli hanno messo un sacco della spazzatura davanti, così che gli automobilisti evitino di schiacciarlo ancora, ma quando torniamo nel tardo pomeriggio il gatto è ancora lì, il caldo cittadino lo ha gonfiato e la puzza ti aggredisce la gola fin da lontano. Il sacco nel frattempo è sparito. Il gatto, o ciò che ne rimane, verrà rimosso il lunedì mattina, e la strada ripulita con la candeggina.

Ma torniamo al viaggio. La casa di via dei Cappuccini è carina, ma è molto calda perché è stata ricavata nel sottotetto. Capita spesso con Airbnb di finire alloggiati in miniappartamenti ricavati dall’ultimo angolo possibile di un vecchio edificio: a Parigi mi capitò di dormire per cinque notti in uno sgabuzzino superaccessoriato con tanto di cucina a gas e forno a microonde. Era una merda. superaccessoriata, ma sempre una merda.
Questo di Palermo sembra un appartamento vero, e col deumidificatore acceso tutto il giorno si sta abbastanza bene.

Posiamo i bagagli e per prima cosa andiamo a mangiare il pani câ meusa da Nino u ballerino, definito un’istituzione dalle guide cittadine.

È un chiosco abbastanza nuovo, dove lavorano persone pochissimo ballerine, e tutto quello che gli chiedi è finito, compresa la ricotta e le arancine. Ai tavoli intorno siedono solo turisti che come noi si sono fatti fregare dalle guide cittadine. Da evitare, a saperlo prima. Molto meglio la focacceria Testagrossa, poco più avanti, dove più tardi proviamo il mangia e bevi (della pancetta arrotolata in un cipollotto e condita col limone) e ci regalano due panelle perché vanno provate. Non lo sappiamo ancora, ma diventerà la nostra seconda casa.



Sabato
Facciamo colazione vicino a casa, alla pasticceria Cappello, un locale storico che è solo storico, dato che cappuccio e brioche sono uguali a quelli di qualunque pasticceria italiana, ma va detto che non ho provato le paste, magari sono quelle a fare la differenza.

Poi iniziamo il giro. Prima andiamo al mercato di Ballarò, colorato, rumoroso, vivo. I banchi di pesce fresco sono dappertutto, e dappertutto c’è gente che compra. Un pescivendolo svuota i ricci di mare e versa la polpa in bicchieri di plastica: se non avessi ancora il sapore del caffè in bocca gli chiederei se sono in vendita, hanno l’aria di essere deliziosi. C’è un tizio che vende le sigarette di contrabbando in mezzo a un incrocio. Farei un sacco di foto se fossi uno a proprio agio a fotografare le persone. Le fa Shasha al posto mio, e devo dire che nessuno la picchia, ma è anche vero che il contrabbandiere di sigarette non lo fotografiamo.

Dal mercato raggiungiamo i Quattro Canti, l’incrocio fra le due strade che dividono il centro cittadino in quattro quartieri. Adesso che è diventato area pedonale te lo godi, mica come prima che c’erano le macchine e sembrava di stare in una galleria con tutto lo smog e il casino. Ci sono carrozzine coi cavalli in attesa di clienti e c’è qualche banchetto, ma nell’insieme non è diventato un trappolone da turisti come mi sarei aspettato. Lì accanto la fontana Pretoria non fa la figura che meriterebbe, è una fontana vabbè. Tutte le fontane se ci levi l’acqua sono vabbè, anche quelle di Roma: tu immagina Anita Ekberg che ciabatta nella fontana di Trevi asciutta. Vabbè.
Arriviamo alla Chiesa di San Cataldo che sembra già mezzogiorno, prendiamo una birra e un mojito e ci rilassiamo. Scopriremo poi che erano le dieci di mattina, quindi abbiamo ufficialmente infranto l’ultimo tabù prima dell’alcolismo.

A noi piacciono i mercati, dovunque andiamo ci perdiamo a girare per banchi di pesce e frutta, ci facciamo convincere ad assaggiare qualcosa, ci portiamo a casa cibi che poi regolarmente non abbiamo voglia di cucinare. Dopo la pausa, quindi, raggiungiamo l’altro mercato famoso di Palermo, quello della Vucciria, che però è chiuso, oppure siamo noi che non lo troviamo, oppure sono quei due tre banchetti che salgono su per il vicolo e puzzano di turista e anche se a uno dei tavolini è seduto Bunna degli Africa Unite, fanno abbastanza schifo al cazzo, andiamo via. Io poi manco li ascoltavo, gli Africa Unite.

Delusi da quella che dovrebbe essere una delle anime di Palermo, cerchiamo il riscatto e raggiungiamo il terzo mercato cittadino, il mercato del Capo, e stavolta è davvero ora di pranzo, così ci sediamo al tavolo di una pescheria che si chiama Fish m Chips, prendiamo un couscous di pesce, un’insalata di polpo, sei sarde a beccafico e quattro arrosticini di calamaro. Più due birre, 36 euro senza scontrino. Per il posto in cui siamo è caro, ma a Genova ci avremmo lasciato lo stipendio.

Torniamo verso casa, ci fermiamo alla cattedrale e visitiamo il palazzo Reale, poi rientriamo stanchi come se fossero le sei. È l’una.
Dormiamo un po’, poi usciamo di nuovo.
L’idea sarebbe di andare a cena, ma passiamo davanti a Testagrossa e quasi quasi ci prendiamo una cosa, tipo un altro panino con la milza, per fare merenda.
A quel punto la cena è diventata un di più, e gironzoliamo annusando la città. Le strade si sono riempite di gente che prende l’aperitivo o sciama alla ricerca di quello buono. Ai Quattro Canti adesso ci sono degli sposi che si fanno le foto, degli artisti di strada che suonano Romagna mia (ma perché?), altri che improvvisano un rock parecchio Zeppelin, solo chitarra e tastiera. Nelle piazze della Kalsa ci si prepara per il jazz festival, il teatro è ricoperto di strisce argentate che lo fanno somigliare al gonnellino delle ballerine hawaiane nei vecchi cartoni animati di Hanna & Barbera.
Troviamo un bar accanto al teatro, che si chiama Cantavespri, e ci facciamo il nostro aperitivo. Il piatto di assaggi che a Genova ti regalano, qui costa 8 euro, presentato come una gran prelibatezza. E poi siamo noi quelli attaccati al denaro.
Tutto intorno si stanno allestendo palchetti, si montano casse e microfoni. Sarebbe da aspettare l’inizio dei concerti, dev’essere una città divertente dopo il tramonto, ma sono solo le otto e ne abbiamo già le palle piene.

Ieri ho visto un video che raccontava gli ultimi istanti di vita dei dinosauri, quando un asteroide gigante è precipitato nello Yucatan e l’impatto ha scaldato l’atmosfera e sconvolto il clima e in pratica ha sterminato ogni forma di vita. Lo guardavo e riflettevo che mentre questi poveri cristi morivano malissimo, l’asteroide non provava nessuna emozione, zero. Vabbè, si disintegrava anche lui, ma in quanto pezzo di roccia non viveva la cosa con particolare trasporto, se non quello gravitazionale.

Che poi è un po’ quello che succedeva su questo stesso pianeta, qualche milione di anni più tardi, a una creatura che ci ha messo pure lei un sacco di tempo a evolvere da organismo unicellulare a creatura antropomorfa, ha imparato a coltivare la terra, ad accendere il fuoco, a costruirsi una casa, a viaggiare, a raccogliersi in società sempre più complesse e alla fine a chiedere a una ragazza di uscire per una pizza. La ragazza ha accettato, hanno passato una bella serata e si sono rivisti, poi si sono rivisti un’altra volta, poi un’altra, finché stare insieme è diventato un gesto automatico.

Poi lei magari non si è trovata più bene, perché in realtà l’automatismo ci mette un po’ a superare la superficie e penetrare nei muscoli, e finché non succede te la stai più che altro raccontando, e non solo a te, perché stare insieme a qualcuno ha questa conseguenza che vicino a te c’è un’altra persona che a quei racconti ci crede, e quando decidi di averci provato abbastanza, finisce per restarci come i dinosauri quando è arrivato l’asteroide.

Ci si sente un po’ così, condannati all’estinzione senza capire perché. Hai un bel provare a spiegargli che quella cosa che è apparsa in cielo e ogni mattina era sempre più grande ha sconvolto il loro habitat e i segnali erano evidenti da un sacco di tempo, bastava guardare su per rendersi conto che non si sarebbe fermata magicamente a metà strada generando una bella ombra rotonda in mezzo alla prateria; sono rettili, hanno un cervello incapace di processare informazioni più complesse di “tira fuori la lingua, tira dentro la lingua, tira fuori la lingua, fai la faccia da fesso”.

Ti si sconvolge l’habitat, non vai più a mangiare la pizza, il sole è troppo caldo e la notte è troppo carica di stelle, e l’unico posto sicuro è il pavimento, o il divano, ma più il pavimento, e pensi che magari ti estinguerai anche tu, non sarebbe male, dicono che l’estinzione si porti via un sacco di pensieri di cui non riesci a liberarti e che neanche puoi più condividere.

Stai male, poi malissimo, poi un po’ meglio ma basta sentire una canzone per radio, o anche solo qualcuno che ti racconta di una cosa che non ha nessun rapporto con, ma in realtà basta qualsiasi cosa, dai. Basta qualsiasi cosa per stare di nuovo improvvisamente malissimissimo. Non tanto fuori, dove si torna a mostrare un bel fisico asciutto e tonico, dovuto principalmente a pasti saltati e addominali provati dai singhiozzi, ma dentro, dove sembra di stare in gradinata durante il derby fra Insicurezze e Rancori, e ogni tifoso strilla una domanda diversa ai giocatori in campo: sarà perché non le ho dato abbastanza attenzioni? Avrà già trovato un altro? Voleva solo divertirsi?

In effetti questo tipo di disastri spaziali, asteroidi che precipitano sulla tua relazione e rendono il tuo pianeta invivibile, generano anche un fenomeno meno tangibile ma altrettanto dannoso: i dubbi. Arrivano a ondate di piena, tsunami di punti interrogativi attraversano l’oceano in cerca di un interlocutore, ma non trovano nessuno e fanno il giro e ti si infrangono addosso, altissime, aguzze, gelide come chicchi di grandine. Spianano quel che restava della tua volontà, livellano il desiderio di voltare pagina, ti seppelliscono lì, sotto i detriti di quella che era la tua relazione.

E invece l’asteroide niente. Questo corpo dagli occhi celesti, che vaga nel cosmo senza una meta e ad un certo momento ti sbatte contro più per incapacità a mantenersi stabile che per un reale desiderio, impatta sulla tua superficie e tutte le sue certezze si sgretolano. Voleva stare con te, voleva che l’abitudine ad averti intorno le scalfisse quella superficie dura di millenni di solitudine e raggi cosmici, voleva fondersi in te, e invece ti si è disintegrata addosso nel tempo che a te è servito a dire “va tutto benissimo”.

Adesso sta lì, pura energia, luce, calore, a decidere cosa fare di questa sua nuova natura. Perché adesso lei è diversa, quest’esperienza l’ha cambiata, non può mica continuare a errare, che non a caso significa sia vagare senza meta che fare un sacco di cazzate. Adesso che ci ha sbattuto la faccia e si è liberata del suo vecchio guscio, deve darsi uno scopo. Adesso basta con l’incrociare orbite altrui, è il momento di trasformarsi, illuminare, scaldare, farsi primo principio della termodinamica.

È per questo che il suo nuovo fidanzato vicino a lei irradia bellezza anche se fino a ieri sembrava uno stegosauro, ha perfino la cresta, ma senti un po’ Sex Pistols, ma perché non ti trovi un lavoro?

Che poi, a parlarci, con l’asteroide, lo capisci che non è mica colpa sua. È un oggetto complicato, ha un nucleo di metallo rivestito di sedimenti rocciosi, per natura poco incline a considerare punti di vista diversi dal suo. Ma anche se fosse, cosa cambierebbe? Se potesse vedere quale cataclisma provocherà il suo impatto col pianeta dei dinosauri, come potrebbe decidere di evitarlo? È un corpo erratico, l’abbiamo detto, non ce l’ha un volante. Va in giro nel cosmo, si fa attirare dalla gravità dei pianeti, e quando non è sufficientemente grave si libera e riparte. E prima o poi lo trova quello con un conflitto interiore così intenso che non riesce proprio a resistere alla sua attrazione. Ci prova, si ripete che non è il caso, te lo ricordi com’è andata a finire con quel pianetino vicino ad Alpha Centauri, ti sei salvata per un pelo, non vuoi ricascarci, vero? E ci ricasca. Perché nessuno sa prevedere il futuro, né un dinosauro con la faccia da pirla né un asteroide con l’anima di ferro al 91% e il resto nickel e tracce di cobalto. Si va e si spera di sopravvivere allo schianto.

Quando poi si accorge che non era il pianeta giusto cosa può fare se non andarsene? Come recita un antico proverbio, “sono venuta per la salsiccia, non è che posso tenermi tutto il maiale”. Nessuno si condanna a una vita di insoddisfazione per non ferire chi gli sta vicino, non sarebbe neanche giusto. Una relazione che funziona genera gioia, non preoccupazioni, sennò non è una relazione, ma un’associazione malvagia che vuole conquistare il mondo. Ma neanche, perché alla SPECTRE sono tutti felici di lavorare lì, e fra di loro vanno d’accordissimo. Hanno anche un sindacato che li tutela, e dopo anni di contrattazioni con la direzione sono riusciti a ottenere la macchinetta per il caffè e la quattordicesima.

Ma quante volte siamo stati noi la causa dell’infelicità di un’altra persona? E non ci siano comportati allo stesso modo? Solo che adesso ci fa più comodo dimenticarlo, o inventarsi dei distinguo tipo “eh ma io non sono mica bionda”, o attaccarsi a un singolo piccolo difetto dell’altra persona fino a renderlo grande abbastanza da tirarglielo addosso e lavarci la coscienza.

E invece bisognerebbe imparare l’empatia, e capire il punto di vista di chi ci sta davanti. Anche perché il rischio è di finire per votare Fratelli d’Italia.

Insomma, i grandi cataclismi naturali non sono colpa di nessuno, e non è giusto puntare il dito contro le leggi che governano il cosmo. Però non significa che per questo si debba abbandonarsi al fatalismo, sedersi lì e aspettare l’estinzione. Ci sono mezzi per prevenire certi incidenti, e se prendiamo l’esempio del nostro pianeta lo capiamo bene: l’impatto con l’asteroide ha sì, ucciso tutti i dinosauri e la maggior parte delle forme di vita esistenti, ma non tutte: c’è stata la pioggia di fuoco, la temperatura si è alzata fino a 150°, il cielo si è riempito di cenere, è venuto un lunghissimo inverno, ma anche a Piacenza l’estate è così, eppure la gente ci vive lo stesso; e come a Piacenza, anche sul nostro pianeta primordiale la vita ha trovato un modo per proseguire.

Se abbiamo imparato qualcosa da questa vicenda è che agli asteroidi si sopravvive, nascondendosi sotto terra, magari. Il trucco è adattarsi, cambiare anche noi. Ti fai crescere le pinne e impari a nuotare, o le ali, oppure passi al gruppo misto, ma alla fine sopravvivi. Cambia il clima, il territorio, perfino la legislatura, ma tu sei sempre lì. L’importante è farsi trovare pronti.

In questo biennio letargico, in cui ogni vita è diventata il riassunto di sé stessa, fatta da una sfilza di giorni identici occupati solo da obblighi a casa e obblighi al lavoro, ogni piccolo tentativo di rinnovarsi risuona come uno sparo nella notte. Anche andare dal parrucchiere rappresenta un piacevole diversivo nel panorama piatto che ci circonda. In questa tundra sociale i grandi cambiamenti sono scosse telluriche che fanno tremare i vetri di casa perfino a me, che ormai da anni mi sono allontanato dalla vita mondana, abito sui monti a debita distanza da ogni minuscola trasformazione, e la novità più consistente è una macchia di muffa sulla parete dello studio.
Dal mio eremo osservo quei pochi amici coraggiosi affrontare sfide per me impossibili, e mi rallegro nel vedere che, almeno per loro, il tempo non si è cristallizzato.

C’è Peppina, a cui anni fa dedicai pagine intrise di passione, notti insonni e l’ascolto ossessivo di canzoni indie dai testi imbarazzanti. A breve metterà al mondo una bimba. Sorrido pensando che, se fra noi le cose fossero andate diversamente, adesso forse aspetterebbe una bambina lo stesso, ma coi baffi. Oppure niente. Oppure una bicicletta. Perché poi una bicicletta, boh. Di certo non l’avrei convinta ad apprezzare i fumetti, nessuna delle ragazze che ho amato apprezzava i fumetti, chissà perché.

Poi c’è Augustina, che di eredi se ne porta in pancia due, quindi doppia fatica per le sue spalle piccole. Quando ci frequentavamo abitava in una casina piccina con sette lettini, ma immagino che adesso si sarà trasferita in una più grande, anche perché il suo compagno è alto alto, da solo ne occupava almeno tre, più il suo e quello dei due nascituri fanno sei, le sarebbe rimasto libero solo quello per il gatto, che però avrebbe dormito su tutti gli altri, ma intanto lei il gatto non l’aveva.

Ma lo scossone più forte, quello che ha mandato a gambe all’aria le mie certezze e mi ha obbligato a fare davvero i conti col tempo che passa, me l’ha dato il mio amico Hardla. Sono anni che ci conosciamo, che ci raccontiamo i nostri problemi e condividiamo le nostre gioie, al punto che se ad un certo punto ci fossimo anche scambiati le fidanzate, non ci avrei trovato niente di strano. Per me poi sarebbe stato vantaggioso, perché la sua era molto bella, mentre io non ne avevo nessuna.
È un uomo dalle certezze granitiche, il mio amico Hardla; uno da cui mai ti aspetteresti alcun cambiamento radicale. E invece.
Poco tempo fa mi scrive la sua fidanzata, dicendomi che Hardla è stato ricoverato in ospedale. Mi sono subito preoccupato, nonostante sia un mio coetaneo è anziano dentro, e per questo il tempo per lui scorre in maniera diversa: ogni tre anni dei nostri sono cinque dei suoi. Avevo paura che gli fosse capitato qualcosa di brutto, e che presto avrei dovuto portare dei fiori al suo capezzale e consolare la sua fidanzata. Con altri fiori, ma questa è una faccenda che non lo riguarda.

Per fortuna non era niente di brutto: dopo anni che coltivava in segreto il desiderio di ricorrere alla chirurgia plastica, finalmente si era convinto, e aveva finalmente deciso di farsi mettere il cazzo.
Non uno più grosso, no, proprio il cazzo, quello lì. Perché Hardla non l’ha mai avuto, da quando lo conosco al posto del cazzo aveva un cabinato di Pacman, e faceva tutto da lì. Quando gli scappava la pipì ci infilava duecento lire, schiacciava il bottone Player One, manovrava il joystick per indirizzare il getto e cercava di schivare i fantasmini. Se lo beccavano si interrompeva la pisciata, se finiva prima lui si sentiva la musichetta. Funzionava anche per il sesso, a patto di prendere prima le pastiglione gialle, ed è sempre stato così e tutti lo sapevamo e lo accettavamo. Era anche divertente il sabato sera nei vicoli, quando dopo aver bevuto tutti insieme si andava a pisciare tutti insieme, e tutti insieme si cantava la musichetta di Pacman.
L’unico fastidio Hardla lo aveva quando cercava di rimorchiare, perché la frase “ti piacerebbe venire su da me a giocare a Pacman?” veniva spesso fraintesa.
Dev’essere stato proprio questo a fargli maturare l’idea di un’operazione chirurgica, e onestamente non posso biasimarlo: a me per esempio piaceva molto di più Ghosts’n’Goblins, e se avessi dovuto dire a una ragazza che volevo mostrarle il mio cimitero mi sarei vergognato.. beh, da morire.

La decisione di Hardla è stata coraggiosa, per il rischio personale di sottoporsi a un intervento così delicato, che sarà sicuro quanto vuoi, ma non è qualcosa che si affronta a cuor leggero, ma non va dimenticato anche il peso che ha in società la sessualità di una persona, e andare a toccare quella bolla così delicata è un po’ invitare dei soggetti esterni a giudicarci. Non dovrebbe essere così, quello che succede nelle proprie mutande non dovrebbe essere oggetto di discussione pubblica, ma sappiamo come vanno queste cose, e credo che la decisione di Hardla sia stata coraggiosa anche per questo. Non è facile ammettere di essere atarisessuale.

L’operazione è andata bene, ormai quel tipo di interventi sono considerati di routine, anche se in realtà il cabinato non ce l’ha più nessuno, e la maggior parte degli uomini si fa mettere il cazzo al posto di una console di ultima generazione. Oppure ci sono quelli sfigati che passano la vita col Sega Master System, ma quelli sono personaggi borderline che non entrano neanche nelle statistiche.

Hardla mi ha raccontato che è stato molto emozionante tenere per la prima volta in mano l’arnese invece del solito joystick di plastica, e che il feedback tattile è molto migliorato. Anche la sua fidanzata si è dichiarata soddisfatta, soprattutto sul lato economico: ogni volta che voleva fare l’amore doveva andare a cercare gli spiccioli nel borsellino, e questo rovinava un po’ la spontaneità.

Immagino che noi amici ci metteremo un po’ ad abituarci alle pisciate di gruppo senza quella musichetta così familiare, ma magari per i primi tempi utilizzeremo un vecchio registratore a cassette. Certo, basterebbe un cellulare con YouTube, ma per certe cose è importante mantenere un tono vintage: il nostro amico Panzon ci tiene così tanto all’atmosfera retrò che anche se ha sempre avuto il cazzo, quando pisciava con noi la faceva a 8 bit, a quadrettoni.

L’importante è che adesso Hardla possa avere un rapporto migliore col proprio corpo e vivere felicemente quel poco di tempo che gli resta, che con tutto l’alcool che si tracanna sarà un miracolo se arriverà a Natale.

Tanti auguri di buona convalescenza, mio caro amico. Spero che queste limitazioni finiscano presto e tu possa finalmente mostrare agli amici questa bella novità.