La partenza è prevista per le quattro, sono le due e mezza, sul piazzale ci siamo io e le mosche. Cielo coperto, temperatura secondo WeatherPro 24°C, secondo me lebestemmie, che c’è umido e le mosche sono nervose e mi ronzano sulla faccia e non mi lasciano leggere.
Alle tre e un quarto arriva una signora con due grosse borse della spesa: a parte il foulard e la gonna potrebbe benissimo essere Giampiero Galeazzi, ma anche così non è detto, la mia conoscenza di Bisteccone si limita a un paio di telecronache di canottaggio, che ne so cosa fa nella vita privata? Nel dubbio azzardo un “buongiorno” in italiano, per cercare di sgamarla, ma non ci casca, mi studia un momento e mi chiede qualcosa che suona come “‘ndo cojo cojo golasso”.

“Mi spiace, non capisco”, le rispondo in italiano, sperando in una botta di culo.
“Ci sta il cacao?”
“I’m sorry, I don’t understand”
“Con lo Jesi, che partita!”
“Si, vabbè”

Poco alla volta il piazzale si riempie di persone in attesa del pullman: c’è una coppia sulla cinquantina in tenuta escursionistica, zaino e scarponcini tecnici, che rispetto a come sto messo io, con le All Star e la maglietta di Batman, sembra organizzata molto meglio; c’è un ragazzino col baffo di primo pelo, in mimetica e borsone, che ha la tipica faccia da licenza; una coppia cerca di capire come abbassare il volume a quegli aggeggi alti ottanta centimetri che si muovono sempre e piangono fortissimo se non fai subito quel che ti chiedono, tipo comprargli il gelato o scendere dall’aereo perché sono stufi, e mi chiedo perché non accontentarli, specie nel caso dell’aereo; c’è una bella ragazza mora, indossa un vestito leggero che le lascia le gambe scoperte, e non sembra accompagnata da nessuno, e ho trovato la mia compagna di viaggio, le chiederò come si chiama e la affascinerò coi miei modi gentili, e siccome starà sicuramente andando anche lei a Sarajevo ci vedremo anche nei prossimi giorni e insomma una cosa tira l’altra, quando torno devo pensare seriamente a trasferirmi in una casa più grande.

Arriva la corriera, un bel mezzo moderno dai sedili confortevoli. Ci disponiamo a salire e cerco di mettermi dietro la ragazza, ma non troppo attaccato, lascio che qualcuno si frapponga fra noi, così da darle il tempo di sistemare la borsa nella cappelliera e sedersi, e capitare lì per caso e chiederle se il posto accanto al suo è libero e donarle il sorriso accattivante che mi ha reso celebre nelle balere da Cesenatico a Foggia, e insomma una cosa tira l’altra, chissà se limoneremo duro già prima del capolinea.
Si ferma a metà, sceglie il posto accanto al finestrino e mi accingo a fare la mossa del giaguaro, ma la coppia di escursionisti che ci separa si separa, e la moglie va ad occupare il mio sedile. Perché? Che è successo? Non stavate bene insieme? Cosa siete, una coppia in crisi che va in vacanza per dare un’ultima possibilità alla relazione, ma nel piazzale della stazione di Banja Luka, attorniata dalle mosche, capisce che ogni tentativo sarebbe inutile e decide di terminare il viaggio mantenendo una dignitosa ma eloquente distanza? Macheccazzo.

I posti intorno sono tutti presi, mi piglio il primo finestrino che trovo, molte file più indietro, e tiro fuori il telefono, che fra i vari comfort del mezzo c’è anche la presa elettrica. Perlomeno ho da leggere, penso.

“Sono Cita”
“Oh no!”
“Se dimmi ovvie, paciugo Previti busto”
“Sarà un viaggio lunghissimo..”

Come provocare un infarto al segretario della Lega Nord in Alto Adige

Il paesaggio è collinare a tratti, alpino a sprazzi, non capisci mai se stai vedendo il Sudtirolo o le colline toscane. I minareti al posto dei campanili aggiungono irrealtà, che sono abituato ad associarli a panorami più aridi, così mi aspetto Heidi che porta a pascolare i cammelli su alla baita, sono confuso.

“Signora, sono confuso”
“Ne riassume il governo”

Il resto del viaggio passa senza incidenti, la ragazza scende in un posto che si chiama Busovača, su cui non riesco a pensare niente di più eloquente, e alla fermata c’è il suo fidanzato che la aspetta e se la abbraccia contento, e mi viene in mente il video che mi ha spedito Andrea qualche giorno fa, ma il telefono che ho in mano è il mio, mi limito a ricordarlo e ghignare.

 Alle nove siamo a Sarajevo, ho l’indirizzo di un albergo in centro che dalle foto sembra molto interessante, e provo a farmici portare con un taxi: in fondo si deve pur morire di qualcosa, e peggio dei tassisti turchi credo sia impossibile. Mi siedo davanti, che dietro tutti quanti, e mostro la via all’autista grazie al fido telefono: 3 euri al giorno per navigare dall’estero mi stanno togliendo da un sacco di impicci, altro che storie. Inoltre ho imparato a Istanbul che se stai seduto davanti puoi tenere il volante mentre l’autista usa entrambe le mani per mandare sms a suo cugino.

L’albergo si trova alla Baščaršija, che potete pronunciare Bascarsia o Shambawambawè, non mi fa alcuna differenza, tanto non ho idea di come si dica; è la strada che porta al quartiere turco, quindi vedi che il mio commento sui tassisti di Istanbul non era a sproposito. Vengo scaricato nei paraggi, che l’area è pedonale, e l’autista mi indica la direzione giusta.
Ci metto un po’ per trovarlo, è in un vicolo laterale, nascosto fra il muro di cinta di un giardino e la facciata di un negozio, e ammetto di essermi fatto qualche scrupolo nell’avvicinarmi, ma erano timori scemi legati alla mia difficoltà nel comunicare: non conoscere la lingua del posto e sapere che pochi parlano inglese non mi fa sentire sicuro. Non ha senso, e quando ci rifletto mi passa alla svelta, ma mai del tutto a quanto pare.

Vengo ricevuto da una signora con gli occhiali e un sacco di riccioli rossi legati sopra la nuca. Dev’essere una discendente degli irlandesi che scoprirono la Bosnia prima dell’Impero Romano, ma le tracce della sua origine finiscono sulla targhetta che tiene appuntata alla camicia, dove c’è scritto Lamija, che si pronuncia Lamia, che è la figura alla base del mito dei vampiri, che è la ragione per cui adesso mi infilo in camera e sbarro la porta e la finestra e mi chiudo nell’armadio finché non sorge il sole, perché lo so che stanotte mi sveglio e c’è questa donna in piedi accanto al letto che si tiene gli occhi in mano e incombe su di me con le sue orbite vuote, e come lo mandi via un vampiro islamico, con la mezzaluna? Non ce l’ho neanche a casa io, la mezzaluna, il prezzemolo lo frullo, maledizione a me e alla mia disorganizzazione del cazzo! Finirò divorato nel cuore dell’Europa, e se non succede niente è pure peggio, perché mi resterà questa febbre dentro, l’assuefazione all’adrenalina, e dovrò buttarmi in attività sempre più pericolose per provare ancora quel brivido di cui ormai non posso più fare a meno, e finirò per prenotare le vacanze dell’anno prossimo in Transilvania o a Formentera con un gruppo di punzapunza.

Ma piantala! È una signora coi capelli rossi, cosa potrà farti di male? Sarà simpatica, chiedile una stanza!
Mmm, so mica. L’ultima mi ha trascinato in una tomba etrusca.
Ma che cazzo c’entra, piantala di vivere di suggestioni! Sei una persona reale, quando comincerai a comportarti come tale?

“Benvenuto in mia casa”, dice in un italiano stentato. “Entrate e lasciate un po’ della felicità che recate.”

Viavia! Scappiamo!
Ma come scappiamo? E il mondo reale?
Nel mondo reale una sospetta progenitrice di vampiri non si presenta citando il Dracula di Coppola!
Ma parla italiano. Dove la troviamo a quest’ora un’altra albergatrice che parli la nostra lingua?
Al Best Western!
Io al Best Western non ci vengo! Adesso taci e lascia parlare me!
Vaffanculo, se rinasco spero di essere la personalità multipla di qualcuno più saggio.

“Buonasera, non ho prenotato. C’è una stanza libera?”
“Certo. Per quante notti?”
“Tre”
“Perché ha citato Dracula?”
“Perché hai un pipistrello sulla maglietta.”
“E perché mi ha parlato in italiano?”
“Perché ti sei fermato fuori dalla porta a guardare quel manifesto, che è scritto in italiano.”

In effetti è vero, sono arrivato in città con la maglietta di Batman, e mi sono fermato a leggere il manifesto di un circo, appiccicato fuori dalla porta dell’albergo. Ci sono disegnati due zingari, uno suona i piatti e l’altro l’organetto a manovella, ed è scritto in italiano.

Still better than punzapunza.

Still better than punzapunza.

Se fossi in Francia o in Portogallo liquiderei il duo come i soliti italiani arrabattoni e me ne terrei a debita distanza, ma come ho già detto mi inquieta trovarmi in un paese che non sento per nulla familiare, e la presenza di due connazionali non mi irrita come al solito, anzi. Sono stranamente intrigato da queste due figure, soprattutto da quello con la pancia prominente e la barba rossa che mi ricorda Lothar, l’aiutante di Mandrake.
Vabbè, sticazzi, adesso ho fame e sonno, mi faccio tentare da uno dei vari ristoranti del quartiere e vado a dormire.

Il mercato è mezzo chiuso, cammino fra edifici bassi e butto un occhio alle vetrine ancora aperte, piene di oggetti in rame, teiere dal collo lungo e intarsiato, penne ricavate dai bossoli delle mitragliatrici e piatti con la scritta Sarajevo. In un baretto piglio due borek, che sono degli involtini col formaggio e le erbe, e li innaffio con una birra che si chiama come la città. Il minareto che domina il quartiere mi permette di orientarmi facilmente, e quando decido di rientrare mi basta fare due rapidi calcoli per trovarmi chissà dove, tornare indietro per una strada che però non ho percorso all’andata e attraversare un ponte (??) che mi porta sotto un altro minareto, che però non distinguo dal precedente perché quando a scuola spiegavano i minareti io avevo la varicella, e finisco davanti a una chiesa con un campanile. In questa città a prevalenza musulmana convivono tranquillamente entrambi i culti, o perlomeno convivevano: dopo la guerra sono cambiate diverse cose, il clima si è inasprito, diverse chiese sono state chiuse, le strade sono state invase da italiani che si fingono zingari e allestiscono circhi dove c’è uno che fa finta di essere una scimmia ammaestrata, e per le strade può capitare di imbatterti in questi buchi di mortaio tappati con della resina rossa che non puoi non vederli, e ti ricordano cos’ha passato questo paese, e ti si stringe il cuore, e a me stasera si stringe anche perché non ho idea di dove sono finito, c’è una chiesa rossa, sarà dedita al culto di R’hllor, magari, Melisandre mi fa discretamente sesso, ma no, non credo, sembra fatta di Lego come gli edifici del nord Europa, e poi c’è questa costruzione dietro, rossa pure lei, magari è dove vive Stannis, sono finito a Dragonstone, no aspetta, c’è scritto Brauerei. Cazzo, non è Dragonstone, è il birrificio della Sarajevska! Ho un intero birrificio dietro casa! Voglio venire a vivere qui.

Però domani, adesso guardiamo sulla mappa dove siamo finiti e andiamo a dormire, da bravi.

La sveglia è d’obbligo quando stai cercando di raggiungere un paese lontano e poco frequentato, e l’unico treno parte alle nove di mattina, così alle sette si accende il televisore in camera e un’aria di Mozart mi viene a soffiare lieve nell’orecchio, sussurrandomi “Soll ich dich, Teurer, nicht mehr sehn?”. “Vaffanculo” gli rispondo io, ma ha ragione, devo alzarmi o resterò bloccato a Zagabria tutto il giorno, con tutti i posti peggiori dove rimanere piantati sarebbe disagio sprecato.

Scendo a fare colazione e ritrovo il mio nuovo amico della reception, Zagor.
Mi ha accolto all’arrivo, e mentre sbrigava le formalità con piglio poco professionale, come quando capisci di potertelo permettere, che il cliente ti fa simpatia, io gli fissavo il cartellino col nome, e mi ripetevo noncipossocredere noncipossocredere.

Sfatiamo subito il mito: lo Spirito Con La Scure non è alto, moro e muscoloso, è un quarantenne pelato e sovrappeso, con un paio di baffetti e occhiali dalle lenti rotonde. Una specie di Cico, insomma. In italiano sa dire solo grazie e ciao, ma con l’inglese se la cava abbastanza bene. Però è vero che è molto cordiale e se può cerca di risolverti i casini.

Prima di salire in camera gli ho chiesto dove potevo andare a cena, e mi ha indicato qualche posto, poi ha capito che non avevo capito e si è offerto di accompagnarmi, che tanto smontava entro un’ora. E ti pare che rinuncio ad andare a cena con un eroe dei fumetti? Sono andato a farmi la doccia e ridacchiavo pensando che se tanto mi dà tanto prima di tornare in Italia incontro Batman.

Un’ora dopo passeggio per il centro con la mia guida, e mi perdo in riflessioni sulla difficoltà ligure di fare amicizia e sulla mia in particolare di chiedere indicazioni, e forse dipende dal fatto che siamo quasi colleghi, più per la professione alberghiera che per quella di angelo custode degli indiani algonchini.
La strada sale, e finiamo in una piazza dove sorge la chiesa dei lego, con le tegole colorate a comporre due bandiere. Il ristorante è subito dietro, alla fine di un vicolo. Ha una botte davanti alla porta e i tavolini sulla strada, ne occupiamo uno.

“Allora, dove vai?”, mi chiede Zagor, distogliendomi dal grande interrogativo della serata: sono pronto a mangiare le rane col prosciutto?
“Sarajevo”, gli rispondo, mentre scuoto decisamente la testa e mi oriento verso meno ardite frittelle al formaggio.
“Per lavoro?”
“Turismo. Più o meno”. Non gli spiego tutta la faccenda, né lui mi domanda, e torniamo ad argomenti meno spinosi. Gli confido le mie incertezze sul fatto che da quelle parti non ho praticamente organizzato nulla, ho giusto qualche indirizzo di alberghi qua e là, ma pare che non ci sia tanta richiesta, mi hanno detto di andare tranquillo.
“È un peccato che pochi turisti visitino la Bosnia, perché è un paese molto bello. Basta evitare i campi minati e non ci sono praticamente pericoli!”
“Hehe! Che stupidi i turisti!”

La notte passa bene, l’anguilla grigliata se ne resta tranquilla nello stomaco senza agitare la coda, e quando scendo alla reception sono pronto per una buona colazione. Il mio problema all’estero è che voglio sempre mangiare le cose dal nome più esotico, e finisco regolarmente per ordinare cose che conosco già e neanche mi piacciono, come la Rožata, che uh chissà cos’è prendiamola, e poi è una quantità spaventosa di creme caramel, e dopo i primi due cucchiai mi sembra di ingurgitare blob.
Stavolta evito la torta alla crema di Samobor, che sarà anche un bel posto, ma quel dolce lì è troppo simile a quelle robe secchine e sbriciolose piene di crema da cui ho imparato a tenermi lontano. Non sono molto aperto ai dolci, non so se si è capito.

Stringo la mano a Zagor, doviđenja, sretan put, sretan put ce lo dici a tua sorella, e sono di nuovo in viaggio.

Il mio primo incontro con la Bosnia-Herzegovina avviene in un posto che si chiama Dobrljin, che suona molto simile a Du belin, e infatti non è che ci sia altro da dire, spero che si tratti di una triste stazione di frontiera e niente più, che se la media è questa scendo alla prossima e torno a farmi una pinta di Velebitsko insieme a Zagor.

Poi la situazione migliora, già a Novi Grad sembra di stare a Busalla, Prijedor sembra Novi Ligure, e alla stazione di Omarska piove e non trovo nessuna differenza con la piana di Arquata Scrivia. Un fracco di chilometri e sono di nuovo dietro casa mia. I uoddefàcc si sprecano.

A Banja Luka il treno si ferma e non riparte più. Che succede? Ci attaccano i serbi? Il controllore non parla la mia lingua né nessuna che conosco, mi fa solo segno di seguire gli altri passeggeri giù dal treno. C’è una coppia di tedeschi con grossi zaini, capisco la nazionalità inorridendo davanti ai calzini sotto i sandali, prima ancora che dall’idioma, e provo a chiedere a loro. Mi spiegano che c’è stata un’alluvione a maggio, e i binari sono ancora fuori uso. Il treno si ferma qui, bisogna travelen mit coach. Cakkien.

Scendo, e le pensiline sono parecchio austere e sovietiche e hanno i cartelli in cirillico, ed è anche una figata a pensarci, solo che io e il cirillico siamo andati in due scuole diverse, e quando lui imparava ad orientarsi nelle città bosniache io leggevo i fumetti del portiere di Zagabria, e l’aspetto da pensilina ma più grossa che ha la stazione mi inquieta un po’, e forse adesso avrei potuto essere da solo sul prato di Gaia a prendere il sole guardando Porto, ma oramai è tardi per i ripensamenti, voglio arrivare a Sarajevo, e si passa per questo squallodromo.

Peraltro ci sarebbe questa cosa della Bosnia Herzegovina che mi inquieta un po’: nonostante guggolmèps lo mostri come uno stato solo quando vai a vedere da vicino scopri che sono due, ma non due regioni tipo Lazio e Campania, due paesi proprio, con due etnie differenti, religioni diverse, tipo Valloni e Fiamminghi, e si stanno sul cazzo da morire. Dove voglio andare io è Federazione di Bosnia Herzegovina, un distretto a maggioranza croata e musulmana, dove sto adesso è Repubblica Srpska, e sono serbi. Quando dico che si stanno sul cazzo da morire intendo in senso letterale.

Ha un suo fascino, se sei un canarino.

Fuori nel piazzale ci sono dei pullman, e su uno leggo CAPAJEBO, che è il cirillico che cercavo: è vero che siamo andati in scuole diverse, ma durante l’intervallo ci incontravamo nel piazzale a scambiarci le figu, così adesso i caratteri li so leggere, anche se di solito ignoro cosa vogliano dire.
O come si chieda “a che ora parte” all’autista, che sta seduto a fumare e non mi caga di pezza, o “dove si fanno i biglietti”, “quanto costa”, “ma è vero che in questa città sono tutti nazionalisti serbi e i bosniaci li vorrebbero sterminare tutti un’altra volta?”, insomma niente, provo a salire, ma le porte sono chiuse, tabacchini non ce n’è, e anche i due tedeschi di prima sono scomparsi verso la città, che per la cronaca sembra la periferia di Alessandria.
Sto seriamente rivalutando Tortona.

Vado dall’autista e lo fisso in mezzo agli occhi, come mi hanno insegnato a fare al corso di Farsi rispettare dal proprio gatto e dagli autisti serbi, e senza paura gli dico “Sarajevo”. Lui neanche mi guarda, alza una mano e col pollice indica un punto alle sue spalle, che potrebbe essere la direzione in cui si trova la città, la stazione da cui sono arrivato o la biglietteria più vicina. Non mi perdo d’animo e gli dico, sempre duro e cazzuto, “ticket”.
“Odjebi”, mi risponde, e la nostra conversazione finisce nel momento in cui cerco di tradurlo col telefono, che in certi frangenti è meglio usare la diplomazia. “Tua sorella” glielo dico in italiano, e me ne vado.

Il cartello col bersaglio indica il centro città in tutto il mondo, credo, ma mi basta che lo indichi in questa città che dal mio privilegiato punto di vista mi offre tante attrazioni quante la corsia del reparto infettivi, così abbandono il piazzale e seguo la freccia. Il cielo si sta facendo nuvoloso, sfoglio un inventario mentale di quello che sto trasportando, e alla voce poncho sospiro sollevato.

Devo trovare un biglietto, ma anche da mangiare, visto che è l’una e mezza, così mi infilo in un barcone sul fiume, dalle parti del castello, che a Banja Luka c’è un castello, e pure una cattedrale che definirei bizantina se avessi voglia e tempo di entrarci, ma ho fame, voglio il mio biglietto che metta a cuccia l’autista del pullman e voglio mangiare, e fra una cattedrale e un fiume scelgo il fiume, che peraltro è un bel fiume pieno d’acqua che corre, e il barcone mi promette di mangiare seduto davanti al fiume, perciò entro senza preoccuparmi del costo, che ho capito che da queste parti posso scialare.

Ho scelto bene, il cameriere parla inglese e lo stufato è straordinario. Gli chiedo dei biglietti, ma non mi risponde, così lo chiedo al cameriere (haha).
Lui mi spiega che li vendono in fondo alla via dello struscio. Non mi dice via dello struscio, ma c’è una strada analoga in ogni città, è quella dove trovi i negozi di abbigliamento e di telefonia, e se la città è abbastanza grande e importante anche quelli di carabattole per turisti e il kebabbaro; a Banja Luka si chiama Gospodska Ulica, è una strada piuttosto breve, ma non le manca niente, per esempio se siete appassionati di farmacie avete l’imbarazzo della scelta.

Sarà la prospettiva, o la voglia di guidare un robottone, ma a me ricorda Gundam.

Il tabacchino è dentro un grosso centro commerciale di fronte alla cattedrale che se avessi tempo e voglia l’ho già detto prima, e ovviamente la signora dietro il banco non parla nessuna delle lingue che conosco. Le chiedo ticket, ma non so dire corriera, autobus, pullman né nessun altro sinonimo compreso torpedone, così le faccio brum brum con la bocca e mimo di sterzare un grosso volante. Ride. Ride anche quando le dico Sarajevo, e mi dà il biglietto. Si vede che era proprio l’autista ad essere stronzo.

Torno al piazzale della stazione, ma il pullman è già partito. Con la mia poca conoscenza dei caratteri russi riesco a capire che il successivo partirà in un’ora e mezza, ma il centro non è proprio dietro l’angolo, non mi ci vedo a tornare a piedi fin laggiù. Mi siedo su una panchina e provo a leggere qualche pagina di questo romanzo che mi sono portato, sperando che succeda qualcosa: è la storia di questo tizio che va a cena di una e la serata si mette bene, solo che lei muore, e lui non è che può chiamare aiuto, cosa lo chiami a fare se tanto è morta, e poi è meglio se non si viene a sapere che eri lì visto che la donna è pure sposata, cioè, lo era, adesso non lo è più, e allora tiriamoci quattro pagine di considerazioni sulla morte senza troppa punteggiatura, alla Saramago, solo che Saramago lo sapeva fare meglio, e poi a metà libro esce di casa e qualche pagina dopo va al funerale di lei e poi mi è venuta voglia di leggere Saramago. Non è un brutto libro, me l’ha consigliato un’amica del cui giudizio mi fido, ed è la ragione per cui trattengo una serie così lunga di sbadigli che se fossero telefilm avrebbero per protagonista Larry Hagman.

Nella prossima puntata vi racconto di Sarajevo, se ci arrjevo.

 

Fino a Venezia non te ne rendi conto: è un viaggio che hai fatto mille volte su un treno stipato di coscritti, quasi sempre da solo, che i tuoi coetanei li sopporti poco anche fuori dalla convivenza forzata. Scendi a Santa Lucia che è mattina piena, e non hai ancora fatto colazione. Il treno per Zagabria partirà fra quaranta minuti, hai tutto il tempo per un cappuccino, ma il bar della stazione fa tristezza, e poi è o non è un viaggio di scoperta? Lasci lo zaino al deposito bagagli e ti incammini deciso verso il ghetto ebraico, dove ricordi una pasticceria interessante. Dieci minuti più tardi sei seduto al tavolino ad ammirare i ricciolini di tre personaggi dal caratteristico copricapo a tesa larga, e ti domandi se la mancanza di coraggio ad indossarlo in pubblico sia abbastanza come deterrente all’acquisto, che tu e i cappelli avete una relazione complicata.
Magari al ritorno, se ti resterà tempo e denaro e spazio nello zaino.

La prima scoperta è che per arrivare in Slovenia si passa dall’Austria, e due ore a Villach sono un’esperienza che avresti evitato volentieri. Non c’è un cazzo a Villach, è la tipica cittadina austriaca che giri in venti minuti, poi scegli il ristorante dall’aspetto meno lupesco e ti fai un piatto pesante a base di weißwurst e patate, seduto dentro, che fa freddo da quelle parti, e oggi non c’è neanche il sole, perciò niente escursione sulla Villacher Alpenstraße. Per fortuna ti sei portato da leggere più di un libro, che questo tizio che scrive come Saramago non è per niente Saramago, e dopo un po’ meh.

Poi si entra nel Paese della J, Jesenice, Spodnje Gorje, Radovljica, paesi dagli angoli acuti di cui non sai pronunciare il nome, e meno male, che la cazzo di macchia mediterranea ci ha tolto la sensazione del viaggio, questa valle boscosa è identica a quella dietro casa tua. Le auto che corrono sulla strada accanto ai binari non hanno conservato niente dell’austerità socialista, sono le stesse Peugeot e Volkswagen che trovi nel piazzale del supermercato la domenica mattina. Giusto i vagoni merci, con le pareti spesse e tozze, da carro armato, ma sei deluso. Dov’è l’ombra di Tito? Ci sono ancora tracce del suo passaggio su queste terre, dopo trent’anni dalla sua scomparsa? È la ragione del viaggio, la ricerca di un passato che ti ha sempre sfiorato, senza mai toccarti. Nei tetri anni ’90 la guerra dei Balcani si portò via il benessere ostentato, gli scaldamuscoli fucsia e quelle cazzo di pettinature cotonate. Era difficile ascoltare Tarzan Boy quando ci si ammazzava appena fuori casa tua, ma tu vivevi nella tua bolla di irrealtà, avevi appena scoperto Mtv, e anche il servizio militare te lo sei fatto scivolare addosso sulla sponda sicura dell’Adriatico.

Poi un giorno ti svegli e decidi di andare a vedere se è rimasto qualcosa di quegli anni, come a volerti riappropriare di una fetta della tua vita di cui non ti sei curato. Forse è un modo per recuperare a strascico anche questi ultimi mesi balordi, forse entrare in contatto con qualcuno che è stato peggio di te ti aiuterà a ridimensionare i tuoi problemi alle cazzate che sono, e a lasciarteli alle spalle.

Ljubljana è un pezzetto di quel passato di cui sopra: una possibile meta delle tue vacanze di allora, quando passavi tutte le sere a casa della fidanzata e lei ti raccontava della città di sua nonna, guardavate le foto e progettavate un viaggio insieme. Poi siete finiti in Andalusia, e casomai a trovare sua nonna ci sarà andata da sola, dopo. Quattro minuti di sosta e una carrellata di palazzi grigi e spessi come i carri merci di prima sono un’impressione sufficiente con cui pagare il transito al tuo passato, la parte bella e antica che vedevi in fotografia la ritroverai un’altra volta se sarà il caso.

Glavni Kolodvor, dice la scritta alle mie spalle, sulla facciata di questo grande edificio rosa, con le statue ad affollare il timpano come un tempio greco. E proprio come se fosse scritto in greco non ho idea di che cazzo significhi Glavni Kolodvor, sarò sceso alla stazione giusta? Sul binario c’era scritto Zagreb, l’aspetto è quello del centro città, ma mi sento un po’ sperso. Tutto ad un tratto l’idea di viaggiare da solo in un posto di cui non so niente di niente non mi appare più così affascinante.

La piazza della stazione somiglia un sacco ad Avenida dos Aliados, a Porto, tranne che questa è orizzontale, e ti toglie tutta la scenicità, se mi passate il termine, ma cercate di capire, sto in una città che non conosco, non parlo la lingua, sono le nove di sera e devo comunicare con gli autoctoni per raggiungere un albergo che non so neanche se mi aspetta, visto che tutta la corrispondenza con la reception è stata effettuata grazie alla mediazione di google traduttore.

La mappa dice che posso arrivarci a piedi e scamparmi il trauma della comunicazione, così mi incammino lungo la piazza, davanti a questi palazzi che se non fosse per la bandiera croata potrei essere a Vienna. Mi infilo in una strada da vecchia Europa, e sbuco in una piazza vivace, ariosa, con palazzi del settecento pieni di insegne moderne, che è come prendere un quadro neoclassicista e colorarlo a pennarelli. Josip Jelačić indossa un buffo copricapo che vorrei assolutamente e punta la spada verso un negozio che si chiama Pan-Pek, e ha tutta l’aria di essere un panificio. Sento il riflesso pavloviano agitarmi lo stomaco, ma no, prima l’albergo, ormai dovrebbe essere qui intorno.
Mi infilo in una strada nuova, piena di boutiques, e sopra il negozio di Givenchy campeggia una bella insegna spartana che dice Dubrovnik. Eccululà.. Caasa. Vado a fare il check in e mi sbatto in camera, ma che delusione, l’austerità dell’insegna non viene affatto mantenuta all’interno, sembra una nave da crociera, con le camere che si affacciano sul salone e tutti i piani arredati con vasi di fiori. Dalla finestra che si affaccia sulla piazza vedo di nuovo il mio amico Josip, sempre intento a minacciare il panificio col suo sciabolone. Adesso sì, è ora di cercare da mangiare. Domani mattina si riparte, e sarà la parte difficile.