Mi ci sono voluti ventisei anni, ma alla fine ci sono riuscito a vedere Eddie Vedder da solo. Che poi, solo, c’erano altre cinquantamila persone, ma almeno non c’erano i Pearl Jam. Che mi piacciono, eh, tre anni fa a San Siro mi sono goduto un concerto straordinario. Che poi, straordinario, sarebbe stato straordinario se non fossi stato io sotto un treno, ma anche così è stato un grande spettacolo (e l’ho raccontato qui).

È che a me è sempre piaciuto lui, per la voce, la presenza, il carattere; non è un caso se le mie canzoni preferite dei Pearl Jam sono tutti pezzi piuttosto lenti; la colonna sonora di Into The Wild sarebbe in cima alla mia classifica se mi prendessi la briga di stilarne una, e resta una delle ragioni per cui ho un ukulele in casa.

Il concerto di ieri è stato uno dei migliori concerti della mia vita di frequentatore di concerti. Tipo uno dei primi tre. Per le ragioni qui sopra, e perché è stato un concerto straordinario. Ma partiamo dall’inizio.

Se invece non volete partire dall’inizio potete saltare subito alla recensione, che inizia qui.

quando ti porti l’ukulele in spiaggia per rimorchiare le pugliesi ma la sabbia scotta e già ti sei vestito di nero almeno un paio di ciabatte le potevi mettere

Partiamo da me, che vado a prendere John Malkovich e facciamo colazione in una pasticceria sotto casa sua, dove mi deposito nello stomaco un krapfen con tanta crema da riempirci il lavandino. Pesa anche come il lavandino, ma è buono e non mi si riproporrà per le due ore e passa del viaggio fino a Firenze, dove arriviamo giusto in orario per il pranzo. Che uno dopo un lavandino alla crema non avrebbe neanche tutta questa fame, ma devi considerare che durante il pomeriggio sarai bloccato dalla folla e ti riuscirà difficile andare a farti un panino al banchetto dei panini toscani. Che poi chissà cosa se lo fanno pagare un panino a un evento del genere.

Ma prima c’è da raccogliere Concertillo, che è salito in treno da Roma e ci aspetta davanti alla stazione, poi da andare in albergo a Fanculonia a lasciare gli zaini, poi da tornare in città e cercare posteggio dalle parti dell’ippodromo, o perlomeno a Firenze. Poi da tornare di corsa in albergo, perché dentro lo zaino ci ho lasciato i biglietti, e una volta trovato un altro posteggio veramente vicino ai cancelli possiamo dedicarci all’approvvigionamento: ci accomodiamo in un vero diner americano dove ci servono degli hamburger enormi, roba che al mio potrei far indossare il casco e legargli la cinghietta all’altezza della fetta di edamer. Ma asciutti come un sacchetto di calce. Anche inzuppandoli di salsa è come mangiare cartongesso. Anche perché la salsa ce la devi grattugiare sopra.

E poi entriamo. Pesanti come donne all’ottavo mese superiamo i controlli, ci facciamo legare al polso il braccialetto di riconoscimento e ci affacciamo sul terreno dell’ippodromo.

L’ippodromo del Visarno è come puoi immaginarti un ippodromo: un prato enorme, lunghissimo, senza un albero o qualunque cosa che proietti ombra. Ci sono stand lungo il perimetro, una piccola tenda al centro dove si sono accampate persone fino a riempire l’ultimo centimetro protetto dal sole, e i banchetti che ti cambiano i tokens.

come un cantiere ma senza l’umarell

Sono la moneta corrente all’interno dell’area. Con 15 euri ricevi cinque pezzetti di plastica quadrati che puoi spezzare a metà: una bottiglietta d’acqua costa mezzo token, un gelato uno, una birra due. C’è anche un barbiere, se uno volesse approfittare dell’attesa per sfoltirsi la pelliccia dovrebbe sborsare lo stesso numero di gettoni che ti servivano negli anni 70 per telefonare in America da una cabina.

Il pubblico è diviso in diversi settori, ci sono i Paganti che stanno nel grosso del parterre, i Più Paganti che hanno accesso a un’area davanti al palco capace di contenere qualche migliaio di persone, gli Strapaganti che godono del privilegio di occupare due piccoli recinti davanti al palco, della capacità di boh, due-trecento persone ciascuno, e i Non Oso Immaginare Quanto Paganti che si guardano tutto il concerto sul palco, insieme ai tecnici. Quest’ultima soluzione mi sembra un pacco, una volta ho assistito a un concerto di Patti Smith da una posizione analoga, e va bene, stavo bello largo e vedevo tutto quello che succedeva dietro le quinte, ma l’energia che trasmette un concerto va a finire tutta davanti, così è come in televisione.

Noi siamo fra i Più Paganti, andiamo a collocarci a ridosso del piccolo recinto di destra e aspettiamo che cali il sole sperando di non calcificarci.

Ci sono gli addetti della sicurezza che smazzano bottigliette d’acqua caldissime e ci innaffiano con l’idrante durante le ore più calde, e un tizio sul megaschermo ci ricorda a intervalli regolari che ci ruberà solo pochissimo tempo per informarci sulle misure di sicurezza, le stesse che il tg4 raccomanda all’inizio di ogni estate: bere tanta acqua e non svenire. Ci ricorda che in caso di incidenti occorre evitare di seminare panico e non bisogna muoversi in modo disordinato.

Ci si domanda come si fa a muoversi in modo disordinato, qualcuno prova a muovere in modo disordinato un braccio per vedere che succede e lo infila nell’occhio del vicino, ma non scoppia nessuna rissa grazie ai preziosi consigli del tizio nel video. E perché fa troppo caldo anche solo per pensare.

Alle cinque e mezza salgono sul palco gli Altre Di B, un gruppo di Bologna che canta in inglese. Il cantante somiglia a quello dei Thegiornalisti, solo più basso. Sono belli vivaci, contenti di esibirsi davanti a una marea di persone e del tutto a proprio agio. Mi ricordano un po’ gli Arctic Monkeys, oppure li confondo con uno di quei gruppi che ascolto ogni tanto senza guardare chi sono. Sono bravi, comunque, molto meglio di quelli che verranno dopo. E sono venuti a suonare a Genova ai Giardini Luzzati, ma l’ho scoperto solo adesso cercando un video su youtube.

gli Altre Di B spaccano

“Quelli che verranno dopo” dovevano essere i Cranberries, ma la cantante ha problemi di salute e hanno annullato la tournèe. Sale sul palco una tizia avvolta in una specie di mantello nero, indossa un top nero e dei pantaloni aderenti dello stesso colore. È magrissima, sennò avrei pensato subito a Batman. Invece è Eva Pevarello, che mi dicono essere venuta fuori da X Factor. Non il gruppo di mutanti che lavorano per il governo americano, ma la trasmissione televisiva che spinge talenti musicali precotti verso una fama di un paio di mesi prima di lasciarli liberi di esibirsi alla Sagra della Provola. Fra un anno a Coachella e fra due anni a fare il benzinaio, dicevano quelli là.

È timidissima, propone tre o quattro pezzi che non ricorderò, e se ne va a difendere Gotham dal crimine, ignorata da un pubblico che sembra avere di meglio da fare. È simpatica, dai, ma con me le ragazze magrissime che si chiamano Eva partono avvantaggiate.

e comunque ho visto Eve migliori

Poi guadagna il palco uno che sembra un incrocio fra un salumiere e un Teletubbie, guarda se non somiglia a Dj Ringo di Virgin Radio. Cazzo ma è lui! È Dj Ringo! Ringaccio!

Io lo adoro, Ringaccio, perché è uno di noi! È il tizio che incontri la mattina al bar mentre cerchi di leggere il giornale e ti blatera addosso un luogo comune a caso sul governo che ruba. È l’altro tizio che al pub vuole presentarti un suo amico che sa fare Balliamo Sul Mondo coi rutti. È quello che fa la battuta a sfondo sessuale invece di quella divertente. Che ti manda le donne nude su whatsapp. Che beve la Guinness. Che ascolta il mitico Blasco. Che prima o poi farà la mitica Route 66 su una mitica Arlei Devinso. È uno di noi, quello che di solito cerchi di evitare.

Lui e un altro dj di cui non ricordo il nome ci fanno ascoltare diverse pietre miliari del rock, ma solo una ventina di secondi ciascuna, sennò Spotify gli chiede di pagare l’abbonamento, e per ognuna di esse ci regala un commento che se stava zitto era uguale. Ogni tanto punta un cannone di plastica verso il pubblico e ci spara addosso delle magliette. Se qualcuno se lo stesse chiedendo sì, prima se lo mette in mezzo alle gambe e finge che sia il suo grosso uccello, poi mima di ficcarlo nel culo di un tecnico. Haha.

Si congeda ricordandoci che siamo più forti di quegli stronzi che cercano di farci paura, e mostra il dito medio al suo nemico immaginario. Mi domando se avrebbe accettato di salire sul palco in un paese dove il terrorismo è una minaccia reale e non qualcosa che vedi in televisione, ma sono argomenti di cui non mi sento in grado di parlare, preferisco raccontare le mie cazzate.

Mentre va via gli urlo “Ringo, tua mamma ascolta 105!”, ed è una soddisfazione che volevo togliermi da anni.

Samuel ce l’ha ‘sta fissa delle mani

Il primo artista che non devo cercare su google è Samuel, il cantante dei Subsonica recentemente lanciatosi in un’avventura solista. Si presenta disinvolto come un vero animale da palco, canta una canzone e poi ci saluta: “Mi dispiace tantissimo per i Cranberries”, dice ridacchiando, “Avevo anche comprato il biglietto, ho dovuto rivendermelo. Vorrà dire che vi farò sentire il mio nuovo disco, anche a quelli che avrebbero preferito non ascoltarlo”. Ed è di parola, ce lo fa sentire tutto. Tutto. Non finisce più, dopo quattro o cinque canzoni la gente comincia a sedersi, tira fuori le carte, dei libri, parte un esodo verso il bar. Lui prova a coinvolgere il pubblico, urla “tutte le mani!”, ci mostra come batterle, ma lo seguono in tre. Finisce e se ne va raccogliendo gli stessi applausi di Eva Pevarello. Finora la gara dell’applausometro l’hanno vinta i tizi sconosciuti di Bologna, di lì in poi è stato un calo. Non è il caldo, è la pochezza.

Ci vuole Glen Hansard a cambiare la situazione.

Per chi non lo conoscesse, e io ero fra questi fino a sabato mattina, si tratta di un cantautore irlandese, ha fatto diverse cose interessanti, tipo vincere un oscar per la miglior canzone di un film e recitare in The Commitments, quel film straordinario di tanti anni fa che se non l’avete visto vergognatevi.

Si presenta sul palco con un paio di polacchine invernali e una chitarra tutta scavata dalle pennate del plettro. Suona canzoni di tre accordi, un ritornello semplice, e ottiene centomila mani alzate. Samuel è nel recinto supervip a mangiarsi il cappello come Rockerduck.

secondo me le buca apposta per scena

Quando gli cambiano la chitarra gliene danno una che devono averci fatto il nido i topi, ha due grossi buchi appena sotto il foro centrale, e ci vuole poco a capire come sia successo: l’uomo dalla folta barba comincia a picchiarci sopra a una velocità e una potenza che io così rapido so solo fare le pulizie di casa e infatti non viene mai nessuno a trovarmi. Il pubblico è suo, può fare di noi quello che vuole. Quando ci saluta qualcuno gli urla “bis!”, sebbene dopo di lui sia finalmente il momento di Eddie Vedder.

E finalmente..

Il palco sembra il negozio di un rigattiere, ci sono strumenti dappertutto, valigie aperte, un vecchio organo in legno, un registratore a bobina e una scatola piena di adesivi sul pavimento che non si capisce a cosa serva.

Alle spalle della bottega una fila di steli reggono delle lampadine che trasmettono un calore da soffitta, e sullo sfondo un cielo stellato. È già bello così.

foto a fuoco non ne ho trovate

Il nostro eroe arriva, fa un inchino goffo e ci saluta in italiano, leggendo da un foglio. Dice che è la prima volta che viene nel nostro paese da solo, e anche la prima che suona a un evento così grande. “Queste cose succedono solo in Italia”, dice. Ha un legame particolare con l’Italia da quando, durante la sua prima tournèe, ha conosciuto sua moglie a Milano, e non manca di ricordarcelo anche stavolta.

Ho inserito il link ai video che ho trovato su youtube per ogni canzone, almeno dov’erano disponibili. Non ringraziatemi tutti insieme.

Attacca Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town e John Malkovich inizia a darsi sberle in faccia dall’entusiasmo. Poi fa Wishlist e Immortality, sempre del suo gruppo, e il mio compagno di concerto non riesce a trattenere la gioia. Ascoltillo è più tranquillo, lui i Pearl Jam li conosce poco, ma si vede che sta attento.

La prima cover è di Cat Stevens, Trouble, a cui attacca una melodia che non so gli altri, ma io ho iniziato a ululare: Brain Damage, dei Pink Floyd!

Prima di posare la chitarra elettrica fa Sometimes, poi si alza e tira fuori una bottiglia di rosso. Ci ricorda che quella sera è San Giovanni Battista e brinda a lui e a tutti quelli presenti, uno per uno. Poi dice vaffanculo in italiano, prende l’acustica e inizia I Am Mine, dove ceffa subito un accordo e dà la colpa al bere.

Posa la chitarra e passa all’ukulele. Brividi, che Ukulele Songs è un disco pesantuccio.

Tranne Can’t Keep e Sleeping by Myself, e per fortuna canta quelle.

Le canzoni vengono via veloci, ne ha già presentate una decina e ancora non ha toccato i miei mostri sacri. Sono già esaltato così, mi chiedo cosa succederà quando arriveranno.

Non devo aspettare molto, mi spara quattro canzoni da Into The Wild, Far Behind, Setting Forth, Guaranteed e Rise. Su Guaranteed mi sono bagnato le mutande.

“Ehi, questa la so fare anch’io!”, mi dice Chitarrillo, che riconosce prima di me The Needle and the Damage Done di Neil Young. Nessuno dei due capisce che quell’abbozzo di melodia che segue è Millworker, un pezzo di James Taylor che di solito suona per intero.

Di Unthought Known non racconto niente.

Poi fa un collegamento fra San Giovanni e i Soundgarden, e s’incupisce, e ci dice delle cose tristi, e parla di Chris Cornell e poi io una versione così triste di Black, madonna, quell’altra volta a Milano ho pianto come un bambino perché mi ero appena lasciato con una, ma non è che posso piangere tutte le volte, dai. Facci qualcosa di forte. Ochei, mi risponde dal palco, e spara Lukin, e Porch.

Poi va all’organo. Non era coreografico l’organo, ci si siede davanti dandoci le spalle e spera di non fare casino. Legge il testo su due tablet appoggiati uno sopra l’altro in un equilibrio che vabbè, e ogni tanto si gira verso il pubblico con la faccia di quello che non credeva che ci sarebbe riuscito.

La canzone è Comfortably Numb, e no, non c’è riuscito, se n’è dimenticato un pezzo, si è perso a metà, ha improvvisato ed è arrivato in fondo con qualche difficoltà. E comunque Comfortably Numb all’organo non si può sentire.

Presenta Imagine, che non ha bisogno di presentazioni, e succede una cosa che se avevi la sensazione di trovarti a una funzione religiosa questo è il momento in cui ti inginocchi e rinneghi il tuo dio di prima: da sopra il palco cade una stella cadente. Alla fine della canzone più abusata del mondo per parlare di amore universale cade una grossa stella cadente. A voler essere cinici era una cosa che si poteva organizzare senza grossi problemi, spari qualcosa da dietro il palco, nel casino chi vuoi che la noti la differenza, ma onestamente non so se sarebbe così facile, e poi me ne frego, era una stella cadente, era la prova che Eddie Vedder è Dio e l’anno prossimo l’otto per mille ce lo dobbiamo spendere in cofanetti dei Pearl Jam.

Better Man è sempre mioddio Better Man, Last Kiss è una canzone divertente di Wayne Cochran, di Untitled e MFC non ho trovato nessun video.

Fine.

No, scherzo, a questo punto torna sul palco Glen Hansard e cantano insieme il pezzo che ha vinto l’oscar di cui parlavo prima, Falling Slowly. Sullo schermo inquadrano una ragazza che piange fra il pubblico. Lei se ne accorge e la cosa la fa piangere anche di più, che oltre a sentirsi una merda per quella canzone si sta sentendo una merda in mondovisione.

Ci avviamo verso la fine del concerto, iniziano a suonare un altro pezzo di Hansard, Song of Good Hope, e il ciucchettone di Seattle viene a sedersi a bordo palco. Canta da lì per un po’, poi non gli basta e allora scende. Percorre tutto il corridoio fra palco e transenne accompagnato da due giganti della security, stringe mani alle prime file, e tutti và che culo quelli lì! Poi entra nel recinto supervip, quello che sta davanti a me, e tutti oh! Cazzo! Poi si arrampica su una transenna e me lo ritrovo a boh, tre metri, quattro, e in mezzo a tutte le mani tese a implorare una benedizione c’è anche la mia, e l’immagine di qualche libro di catechismo coi lebbrosi che si sporgono verso un europeo biondo e un po’ hippy mi attraversa la mente come la stella di prima. Me ne sbatto le balle, toccami la mano Eddie! Rendimi degno!

Lì! Era lì! (grazie ad Andrea per la foto)

Siamo così scossi fra tutti che neanche ci rendiamo conto che nel frattempo è risalito sul palco e ha iniziato a cantare l’altra canzone che aspettavo da tipo sempre, Society.

Finale con Smile, dei Pearl Jam, e l’immancabile Rockin’ in the Free World.

Escono, rientrano, fanno Hard Sun tutti insieme, compreso il gruppetto che prima accompagnava Glen Hansard.

Amen, scambiamoci un segno di pace. E io davvero, un concerto così intenso e intimo, nonostante fossimo un ippodromo di gente, non lo credevo possibile.
Poi vabbè, la suggestione e l’emozione e la stanchezza, lo so anch’io che i paragoni con la religione sono esagerati, grazie tante.
E fa tanto anche la fame, sulla via del ritorno non riusciamo a trovare un porchettaro aperto, un kebabbaro, un self 24h, niente di niente, il deserto.
Ci mangiamo i pani e i pesci che ci hanno moltiplicato al concerto e andiamo a dormire.

Drusilla ha ventisette anni e gli occhi colore del lago in cui mi tuffavo da bambino. Porta la maglietta a righe d’ordinanza Estate 2016, e la presunzione della sua giovane età la tiene in bilico sulla punta del naso, che mi agita davanti come un fioretto quando si volta a chiedermi “Ma li hai visti?”

Si riferisce alla coppia male assortita che, davanti ai nostri sguardi attoniti, si è esibita in un numero di solitudine acrobatica livello SuperPro.

“Quelli che si sono fatti la foto?”
“Sì! Hai visto che espressione schifata aveva lei quando si è messa in posa?”
“Le mancava la didascalia – Facciamo contento questo povero fesso – ”
“Ma è pazzesco! Come fanno a esistere coppie così? Ma meglio da soli, dai!”

La classica frase da Drusilla che sa sempre quello che vuole e non accetta compromessi. Vorrei possederla io la sua sicurezza, mi permetterebbe di mantenere la rotta e smettere di incagliarmi nelle secche in cui finisco con la regolarità di un temporale nel fine settimana.

Siamo a giugno, due anni che è morto il mio unico grande infinito amore, il mio canarino Chico Buarque, la sola creatura che abbia mai amato.
Non sono una preda facile per i sentimenti, quasi tutte le mie ex mi hanno lasciato dopo pochi mesi lamentandosi dei miei rari slanci affettivi. Sono uno che quando la ragazza gli dice seria al telefono “Sto mettendo in discussione il nostro rapporto” le risponde “Va bene, fammi sapere domani cos’hai deciso, buonanotte”.

Con Chico Buarque era stato diverso fin dall’inizio. Intanto non mi aveva chiesto nessuna attenzione particolare, giusto un po’ di becchime e dell’acqua fresca, e poi la riconoscenza con cui rispondeva alle mie premure! Ogni mattina si metteva a cantare, e la sua gioia mi contagiava, uscivo di casa dimentico di ogni problema e andavo a lavorare alla miniera di carbone col cuore leggero.

Fra noi era stato un avvicinamento graduale, nessuna pressione, solo il piacere di stare insieme giorno dopo giorno. Lentamente il nostro rapporto si era consolidato fino a diventare qualcosa di indistruttibile, cui non avrei più saputo rinunciare. Non l’avevo mai vissuta una storia così intensa. Per festeggiare il nostro primo anniversario eravamo andati alle Canarie a conoscere i suoi genitori. Non lo avevamo detto a nessuno, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggio da fidanzati, avevamo intenzione di sposarci. Magari non in Italia, dove i matrimoni fra uomini e canarini non sono ammessi.

Due mesi dopo era morto. Una rara malattia chiamata gatto dei vicini lo aveva stroncato all’improvviso.

È stato come se mi avessero sostituito il cuore con un sacchetto di ghiaia, ho rinunciato alla speranza. Tutto ciò che è arrivato dopo mi è scivolato addosso senza lasciare traccia.
Solo una volta ho provato una specie di emozione, ma non è durata molto: era una gracula religiosa, ci eravamo trovati molto bene all’inizio e sembrava che potesse funzionare, ma presto si era rivelata una gran scassacazzi. E poi parlava sempre a vanvera.

In questi due anni non ho fatto che passare dall’allegria a una depressione improvvisa, come un ballerino di tip tap in un campo minato. I miei amici hanno preso le distanze, le relazioni si sono diradate, anche quelle impostate sulla mercificazione sentimentale, tipo “tu mi caghi io ti trombo va bene così”. Sono diventato uno di quei matti con la felpa stropicciata che portano in giro il cane la mattina presto, quando non corrono il rischio di incontrare altri esseri umani con cui dover interagire.

Per convincermi a stirarmi la maglietta e affrontare questa trasferta bolognese c’è voluta la giovane scapestrata Drusilla. È lei che mi allontana le nuvole dalla testa, e quando il canto di un uccello lontano mi riporta alla mente pensieri cupi è rapida ad intercettarli e abbatterli con un dito nodoso sulle reni. Oppure mi viene vicino e mi spinge da dietro, mi colpisce con un giornale, mi abbranca per un braccio e mi trascina davanti alle scarpe più ridicole mai esposte in una vetrina.
È bello averla vicino, certe volte mi chiedo se non dovrei abbandonare questa mia ritrosia e darle un bel morso, per vedere che succede.
Poi mi ricordo di Chico Buarque e che il mondo fa schifo e dobbiamo tutti morire soli, compresa Drusilla, e vado ad addentare un panino al prosciutto.

A Palazzo Fava è allestita la mostra di Edward Hopper, forse l’unico luogo in cui essere tristi rappresenta un beneficio, invece che un handicap.

Perché il pittore di Nyack è un artista malinconico, apre finestre sulla solitudine che hai dentro e la costringe ad affacciarsi. Il modo migliore per apprezzare le sue opere è di avere l’anima dissodata di fresco. È come annusare certi fiori prima di assaggiare un vino di qualità.
È così. Mi aggiro per le sale lasciandomi travolgere dalla desolazione dei suoi paesaggi e delle persone che li abitano.
Quando mi trovo di fronte a Soir Bleu mi tremano le gambe. La faccia del clown, il contrasto col suo abito e ciò che rappresenta. La donna in piedi è una prostituta, un corpo in vendita, eppure è altera e distante come un pianeta inaccessibile.

“Questo si intitola Carnevale Sull’Enterprise. Il capitano Picard, al centro del  quadro, si è vestito da clown convinto di vincere il premio per la maschera migliore, ma verrà battuto dall’androide Data, che truccato da donna risulta davvero irriconoscibile”.
“Scema, non ti ci porto più alle mostre! Che figure mi fai fare?”
“Usciamo? Qui vicino c’è una mostra fotografica su Jeff Buckley con cui puoi torturarti ancora un po’”
“Ma tu come fai ad essere sempre così imperturbabile? Non c’è niente che ti pesa addosso, un ricordo, una speranza? Io sono eccessivo nel mio malessere, certo, ma tu così impermeabile alle emozioni sei sicura di essere normale?”
“Chi ti dice che sia imperturbabile? Magari non mi va di mostrarlo come fai tu”
“Cosa ti ha lasciato questa mostra?”
“Ansia. La stessa che mi mettono i racconti di Carver. Credo che il mondo che descrivono sia lo stesso, uno racconta cosa succede nelle case dipinte dall’altro. L’anziano seduto al sole, con la moglie che gli grida dalla finestra, quando si alzerà saprai che sta per succedere qualcosa di brutto. La donna in piedi sulla porta ha visto qualcosa che non vuoi sentirti raccontare. La vita che trapela dall’opera di Carver è difficile, di quella che ti ci vuole una bottiglia vicino per reggerla, ma Hopper va oltre, dove la bottiglia non basta più. Uno è dolore, l’altro rassegnazione. E a me la rassegnazione mette ansia più del pericolo.”

Guarda qua. Neanche trent’anni di roba. Una che non ha mai conosciuto la Cortina di Ferro, il Patto di Varsavia, Berlino Est. Una che girava in pannolone mentre i Nirvana scardinavano la musica e il gusto per le camicie.
Una fottuta hipster.
E mi lascia muto, inadeguato e ammirato.

Io a 27 anni stavo a Londra, dormivo per terra e spendevo tutto lo stipendio da Reckless Records. A 27 anni scoprivo Jimi Hendrix, manco sapevo chi erano Hopper e Carver. Ed è questo che separa inesorabilmente il mio mondo dal suo e ci porta ad imboccare strade che finiranno per allontanarci sempre di più, fino a perderci di vista. Perché un giorno lei sarà un avvocato inserito nel sistema e leggerà Marcuse per credersi anticonformista, sposerà un ricco ingegnere appassionato di mobili antichi e farà la borghese radical chic, mentre io sarò fuori da casa sua a fregarle le gomme della mercedes, che rivenderò per una dose della mia ultima scoperta, l’eroina.

(continua)

L’anziano rudere che si dondola sulla poltrona in multistrato di faggio curvato acquistata presso il mobilificio massificante non ha più niente del fascino che lo contraddistingueva in gioventù: i denti se ne sono andati un po’ alla volta per le porte che si è visto chiudere in faccia, o per i dolci su cui ha cercato di sfogare la delusione; la testa è coperta ormai da pochi peli grigio topo, nessuna traccia dei riccioli neri che avevano fatto cadere ai suoi piedi frotte di ragazzine ingenue e sensibili al suo atteggiamento da intellettuale. E neanche l’aria sofisticata è riuscita a sopravvivere al disfacimento della memoria, al crollo della razionalità e con essa della speranza. Ormai tutto ciò che gli resta è il sonno in cui si rifugia appena può, dove non importa più se i ricordi che continuano a fargli visita sono reali, tanto nei sogni vale tutto.

“Ti ho mai raccontato di quella volta che siamo andati in bici in Costa Azzurra, io e la nonna?”, chiede al bambino che sta giocando alla playstation 24 sul megaschermo a ioni, dall’altra parte della stanza.
“Oggi sette volte”, risponde lui, senza smettere di guardare le sagome luminose che gli saettano davanti.
“Eeeh, come ci siamo divertiti quella volta..”, mormora il vecchio, poi comincia a raccontare con la sua vocina tremolante, mentre un filo di bava gli cola lungo il mento flaccido..

Ponchià riapre gli occhi e la prima cosa che vede è una tovaglia a quadri bianchi e rossi. Se la toglie dalla faccia e scopre di essere sdraiato su una panca, in una stradina di Cannes piena di locali. Intorno a lui i suoi compagni di viaggio, più una signora fricchettona sui sessanta, che domanda a Michela se il suo amico stia meglio.

“Ma cos’è, in Francia non li vendono gli orologi? Le nove e mezza!”, risponde lei.
“Ma che succede? Dove sono?”
“Sei svenuto nella hall, e la signorina alla reception voleva addebitarci un letto extra perché non era previsto che ti fermassi a dormire lì, così ti abbiamo trascinato fuori. E siccome avevamo fame ti abbiamo portato in trattoria, tanto lì o qui faceva poca differenza per te, ma almeno noi possiamo mangiare.”
“Hanno le coquillages?”
“No, mi spiace”
“Ma siete degli stronzi! Lo sapete che volevo mangiare le coquillages! Sono venuto in Francia apposta, sennò me ne andavo in bici a Sturla e finiva lì! Il ristorante più famoso dove mangiare le coquillages in città è Chez Le Zozzòn, dovevate portarmi lì!”

Fermo Sara un attimo prima che gli affondi la forchetta nel collo. “Era chiuso”, mento.
Placati gli animi più bellicosi ordiniamo una sfilza di ghiottonerie che vengono consegnate in un attimo al tavolo accanto al nostro, di proprietà di un altro ristorante. In cambio il cameriere di quel ristorante deposita sul nostro tavolo degli alimenti di aspetto discutibile e di sapore che l’aspetto è meglio, ma l’alternativa era saltare la cena o finire da Le Zozzòn a mangiare arselle crude pagandole come un attico in centro. Naturalmente Ponchià non è soddisfatto, lui voleva le coquillages.
Sara, che è appena tornata dalle ferie serie tira fuori dal suo zaino una confezione di Sigari Cubani Fatti Dal Vero Contadino Cubano e gliene fa dono. Lui si rabbonisce, e il mio cuore ha un sussulto, perché sta in alto e a sinistra. Mi prendo un gelato, lei mi dice “sono i miei gusti preferiti!”, io mi sciolgo. Il gelato no, e sarebbe stato meglio perché faceva cagare, invece così mi tocca pure mangiarlo.
Poi è l’ora di tornare in albergo. Faccio la faccia rapace, che francesi in boulangerie non ne ho conosciute, l’unica carina l’ho incontrata ad Antibes, aveva sessant’anni e ha ignorato i miei sorrisi languidi. Ma non mi do per vinto, è tutto il giorno che tramo intricate strategie per riuscire a concupire almeno una delle mie compagne di viaggio, è il momento di incassare ciò che mi spetta! Mi infilo in camera spavaldo, indosso il mio pigiama più sensuale (quindi non quello con Zio Paperone che dice “Il mattino ha l’oro in bocca”) e aspetto che l’apertura della porta riveli la mia preda. Dopo dieci minuti entra Ponchià. Mi giro dall’altra parte e fingo di dormire.
Fingere di dormire sarà peraltro l’attività di tutta la notte, perché il mio coinquilino russa che sembra l’attacco di chitarra di Zoo Station, roba da mettersi a ballare su un piede solo davanti alla tele. E lo faccio, tanto non c’è verso di chiudere occhio, e la mia prestazione è così buona che sarebbe un peccato non mostrarla a nessuno, così sveglio Ponchià perché mi stia a guardare, ma mi ritrovo senza accompagnamento musicale. Lui non capisce, dice qualcosa di poco carino su mia madre e torna a dormire. E a russare.

La mattina a colazione abbiamo tutti delle facce che sembriamo usciti dalla visione di Vincitore Del Premio Della Critica al festival locale: Ponchià è irritato per la sveglia notturna, Michela e Sara risentono dei danni della pedalata, e soprattutto la seconda non ha trovato un fornello su cui prepararsi il caffè, le è toccato bere la sbobbazza dell’hotel, e nessuno da azzannare come parziale risarcimento, poteva mica prendersela con la sua amica, poveretta, guarda già com’è conciata. Io vabbè, chevvelodicoaffare, mi siedo direttamente davanti al carrello del buffet e genero un deficit fra gli incassi dell’hotel e le previsioni di spesa per la colazione. Va detto che i mini croissant sono buonissimi.

Più tardi, appoggiato alla balaustra del terrazzo, mi godo la distesa di tegole che arriva al mare, e un po’ sospiro. Perché quando sei lontano da casa un minimo di malinconia è d’obbligo anche se ti stai divertendo, e perché mi divertirei di più se le mie compagne di viaggio non fossero una misandr.. misandri.. una che le stanno sul cazzo i cazzi, insomma.. e un sicario del Mossad.
Che in questo momento sta strangolando la signorina della caffetteria, rea di averle domandato il numero della stanza.

“Sara, dai! Lasciala in pace, sta lavorando!”

La osservo mentre cerca di infilare un cucchiaino nell’orbita della malcapitata, e penso che in fondo ce le abbiamo tutti le nostre forme di difesa. Sono sicuro che sotto gli aculei e l’armatura e il fossato coi coccodrilli e il campo minato sia anche lei una persona capace di grande affetto. E poi è così tenera con la faccia sporca di marmellata alla fragola..
No, non è marmellata.

“Saraa! Ma la lasci in pace?”

Per entrare nelle sue grazie mi offro di scambiare gli zaini, anche perché Ponchià è ormai un disabile, non ci arriverebbe a Nizza sotto tutto quel peso. Sara accetta, e mi regala un bellissimo sorriso quando scopre che il mio bagaglio peserà sì e no due chili. Poi capisce che tutte le mie lamentele del giorno prima erano finte e lo usa per picchiarmi, ma intanto su Cannes è uscito un po’ di sole e parto contento.

A Genova è la domenica del derby, tutti i miei compagni di viaggio sono tifosi della seconda squadra cittadina, e io ho commesso la leggerezza di rivelare a Ponchià la mia fede opposta. Adesso lui indossa i suoi colori del cuore e si bulla di volerci arrivare fino a Nizza, alla facciazza mia. Per la verità non ci vedo niente di sbagliato, mi sembra una divisa più che adeguata al mezzo di trasporto, gli manca solo il caschetto multicolore, ma quasi quasi gli buco una gomma, giusto per rinverdire antiche rivalità.

Nelle retrovie Michela soffre come San Simeone lo Stilita, ha le allucinazioni e ci chiama tutti quanti per mostrarci Padre Pio che la rimbrotta da un sasso.

“Mi ha detto che devo lasciarvi qui e tornare a casa in treno!”
“Ma smettila, lo sanno tutti che Padre Pio non esiste!”
“Ma come no! E quello lì sul sasso chi sarebbe?”
“Obi Wan Kenobi”
“Chi?”
“Mi sembra evidente che io e te non abbiamo proprio niente in comune. Sara, tu lo sai, vero, chi è Obi Wan Kenobi?”
“Guerre Stellari mi ha sempre fatto cagare”
“Vabbè, tanto avevo deciso di morire solo e incompreso”

Serpeggia l’inquietudine, Ponchià vuole arrivare ad Antibes per mangiare le coquillages, Sara vuole un caffè, Michela resta indietro di chilometri e mi obbliga a fare la staffetta fra lei e il gruppo per recapitare dispacci, che solitamente si riducono a “Sbrigati piaga” e “Morite stronzi”.

Ci fermiamo in un chioschetto a Juan-Les-Pins dove un anziano signore con grosso cane ci racconta di quando è stato lui a Genova, che l’hanno portato a mangiare in un ristorante buonissimo che però non ti nascondeva le fette di cetriolo sotto ogni pietanza compreso il caffè, e a lui che è francese questa cosa l’ha fatto sentire fuori posto. Michela ci raggiunge in tempo per fare la sua solita figura di merda e chiedere “ma chi è sto stronzo?” prima che qualcuno possa avvertirla del buon italiano parlato dal soggetto. Paghiamo il caffè e ce ne andiamo quatti quatti.
L’unico che se ne va sgommando è Ponchià che mi frega la bici, lasciandomi a trascinare il suo cancello a pedali più zaino di Sara più abbuttamento generalizzato. Non lo do a vedere, nessuno può mettere Pably in un angolo! Mi lancio all’inseguimento del ladro come l’attacchino del film di De Sica, e contro ogni pronostico riesco a raggiungerlo alle porte di Antibes. Non è merito mio, si è fermato davanti a un ristorante che espone la qualunque in termini di conchiglie e varia crostaceità.

“Mangiamo qui!”
“Ma sei fuori? Costa più dell’albergo di Cannes!”
“Ma ha un assortimento faraonico!”
“Se è per quello ha pure il faraone, l’età media dei clienti supera l’ottantina!”
“Voglio le coquillages!”

Arrivano le altre due che si dicono entusiaste di fermarsi a pranzo ad Antibes, ma piuttosto che infilarsi lì dentro si fanno una rustichellà all’autogrill.

“Eh no cazzo! Mi avevate promesso che avrei mangiato le coquillages! Adesso me le dovete dare, cazzo!”
“Vuoi le coquillages?”, replica Sara con un tono di voce che non le avevo mai sentito finora. “E andiamo a mangiare le coquillages”. Poi lo prende per il collo e lo trascina in spiaggia, entrano insieme in acqua e proprio quando penso che lo voglia affogare si fermano. Lei infila un braccio fra le onde, raspa un po’ e poi tira su qualcosa, che offre a Ponchià.
Lui sembra contento, se lo infila in bocca intero, quindi tornano a riva sorridenti.
Io e Michela siamo basiti.

“Credevo che lo avresti ucciso”, le fa.
“Ma figurati, e perché?”, risponde lei, innocente come il mio gatto quando mi piscia nella libreria.

Ponchià comunica che quella conchiglia cruda gli ha aperto lo stomaco, e che adesso non potrà più esimersi dal fiondarsi in un ristorante adeguato, e che se non vogliamo seguirlo poco importa, siamo noi che ci perdiamo. Quindi salta sul suo cancello a pedali e sparisce fra le case.

Per noi tre si tratta di un pranzo qualunque, non dell’ultima possibilità nella vita di assaggiare qualcosa di pazzesco, perciò decidiamo di non essere ricchi abbastanza per andare al ristorante chic e ci facciamo bastare una più che dignitosa crêperie che si chiama Passeulementcrêpes ma fa seulement crêpes. Michela dimostra la solita incompatibilità col mondo bevendoci dietro un bicchiere di sidro, che è un po’ il google+ delle bevande, ma solo perché in Europa non abbiamo la Dr.Pepper.

Al metà pranzo ci passa davanti un’ambulanza, che sta andando a prelevare un rene a Ponchià per pagare il conto. Noi invece ce la caviamo con pochi spicci, e abbiamo mangiato bene. A parte il sidro, dai, non siamo mica druidi, sarebbe ora di finirla con queste malinconie.

Del resto del viaggio ho poco da segnalare, la tarte aux pommes è più bella che buona, la costa prima di Nizza è ventosa e cupa, ma permette belle foto drammatiche, dove l’aspetto drammatico è interpretato da Michela che non riesce più a stare su una bici, ma anche da me che accetto di fermarmi a tenerle la manina finché non si riprende, e se non siete mai stati da soli su una panchina ventosa a guardare il mare insieme a Michela non credo che possiate cogliere tutta la drammaticità.

A Nizza ognuno rende quel che ha, chi le biciclette al legittimo proprietario, chi il pranzo a base di coquillages costosissime (ma è colpa sua, se non avesse voluto sapere com’era finito il derby il suo stomaco non ne avrebbe risentito), chi storpio il guardiano del posteggio (“Mi aveva detto che era gratis!”, “Ma tu non parli francese, sei sicura di avere capito bene?”, “Mi aveva detto che era gratis!”, “Ochei, ci credo, lasciami il braccio!”).

Resta il tempo per un giretto in centro storico, un aperitivo servitoci da una cameriera che per risultare più antipatica avrebbe dovuto uscire dalla tele coi capelli sulla faccia, ed è ora di tornare per davvero, a casa quella vera.

L’anziano bavoso smette di parlare, e la stanza si riempie dei suoni emessi dalla consolle.
“Nonna!”, chiama il ragazzino, “Il nonno si è addormentato!”
La porta si apre e un decrepito Ponchià viene a ripulire la carcassa buttata sul dondolo.
“Guarda qua, ti sei tutto sbausciato”, mormora con voce affettuosa. Poi gli deposita un bacio leggero sulla fronte ed esce dalla stanza.

“Comincia il festival di Cannes!”, mi dice Michela, che non sapevo appassionata di alcunché tranne la spiaggia. “Ci sarà ospite la mia popstar preferita, Sabrina!”
“E chi minchia è?”
“Ma che razza di ignorante! È conosciuta in Cina e in Ucraina, non l’hai mai sentita Avacada?”
“Io sto a Ronco in mezzo ai grebani, non in Cina e in Ucraina. E l’unica radio che ascolto è radio3.”
“Sei un intellettualoide alternativo del cazzo.”

Se ne accorgono tutti, appena prima di scoprire che è solo una posa e in realtà sono un minorenne con la barba che cerca di darsi un tono.

Michela mi dice di avere già prenotato per quattro persone in un albergo a Cannes, appena dietro la Croisette. Saremo noi e i suoi amici Sara e Ponchià, che ho già incontrato in altre occasioni e trovo piuttosto gradevoli. L’unico problema è che la Costa Azzurra in quei giorni sarà impraticabile, dovremo lasciare la macchina a Nizza e proseguire in bici.
L’idea di farmi quaranta chilometri su una ciclabile più altri quaranta al ritorno, e tutto per vedere una tizia che non ho mai sentito nominare, nel paese dei mangiatori di rane, mi sembra così folle che accetto. E poi ho sempre desiderato incontrare una ragazza francese in una boulangerie e innamorarmi di lei davanti a una crêpe suzette aux escargots. Non so cos’abbiano le ragazze francesi per attirarmi così tanto, forse l’accento che le rende tutte leziose e un po’ ingenue, e io alle ragazze leziose e un po’ ingenue non so resistere neanche quando si rivelano dei vampiri implacabili: resto lì a farmi succhiare la linfa con l’espressione appagata di chi riceve attenzioni dentro le mutande, e mi dico che forse non ho capito bene, e lei mi ama davvero.
Dovrei fare qualcosa per questo problema, ma nel frattempo preparo lo zainetto. Leggero, che non puoi portare pesi inutili, l’ha scritto anche Ponchià sulla chat della gita. Ah, fra l’altro non avrò l’internet oltrefrontiera, bello scazzo.

Il giorno della partenza mi faccio trovare in perfetto orario al posteggio di Genova Est. Sono sceso in moto per evitare gli strali della municipale, e ho scoperto che le strade sono deserte e i posteggi tutti liberi. Bravo. Vabbè, però il giorno dopo ci sarà il derby, metti che scoppiano tafferugli e la mia macchina viene ribaltata e data alle fiamme. Con lo scooter invece non succede perché di solito te lo rubano prima.

Le mie compagne di viaggio arrivano insieme: Michela ha un bagaglio abbondante, ma non avevo dubbi, lei non esce di casa se non ha almeno venti centimetri di tacco e il set di trucchi della Industrial Light & Magic, ma rispetto a quello di Sara sembra una pochette. È la casa della lumaca, un mostro di sessanta chili contenente lo stretto indispensabile, che per lei comprende tre cambi d’abito compreso quello da cerimonia metti che mi fanno sfilare in passerella scambiandomi per Julianne Moore, le scarpe da ballo di sei balli diversi compresi i doposci per fare quella roba russa, il phon perché in Francia non ce l’hanno e la moka da sei perché il caffè fa schifo lo sanno tutti.
Con quella roba sulle spalle la sua figura minuta rimpicciolisce ancora di più. La amo già, ma non glielo faccio notare, anche perché ci ordina di salire in macchina e parte alla bersagliera bruciando tutti i semafori e tagliando la strada a chiunque. Una così è capace di azzannarti alla gola se solo le rivolgi uno sguardo un po’ più ambiguo. Rimango sul progetto iniziale di conoscere la francese, che mi pare più facile.

Percorriamo la tratta Genova-Nizza senza problemi, l’autoradio propone una playlist fighissima che potrei avere composto io, ma la sadica pilota me la stoppa ogni volta che deve dire la sua sull’argomento del giorno: inviti al matrimonio di una loro conoscente antipatica.
Io sono l’imbucato su questa macchina, non posso intervenire se non dicendo minchiate a caso, così tiro fuori il quaderno e provo a lavorare sulle mie robe: devo scrivere il finale di un racconto e una lettera a una persona, ma non riesco ad andare avanti con nessuno dei due lavori, gli aneddoti dei miei compagni di viaggio sono una droga.

C’è questa tizia che ha invitato al matrimonio tutti i suoi acerrimi nemici, forte del detto “Si fa pace coi nemici, non con gli amici” (ebbene sì, anch’io guardo Game Of Thrones), e non ha invitato gli amici perché non c’era più posto. Questi si sono offesi e l’hanno costretta a divorziare e sposarsi di nuovo con un altro per invitare gli ex amici, nel frattempo diventati nemici. I vecchi nemici non l’hanno presa bene, si attendono sviluppi.

..

A Nizza ero stato una volta con la scuola, ma avevo visto pochissimo; un’altra volta con Francesillo, e avevamo visto solo negozi di cidi usati. Stavolta la prima cosa che vedo appena siamo in centro è un francese in motorino vicinissimo alla mia portiera, e Sara che gli mostra un campionario di gesti che non ho mai visto. Conosce anche il linguaggio dei sordomuti, ma che donna straordinaria!
No, aspetta, il dito medio è inequivocabile. E quelle sono corna. Come non detto, lo sta insultando.
Quello ovviamente si ferma al semaforo e si toglie il casco. Lei gli si ferma addosso e si toglie la felpa. Ponchià scende con aria bellicosa e si toglie i pantaloni.
Io sono vestito leggero, resto in macchina e li lascio a sbrigarsela da soli, tanto è una cosa veloce, devono solo sbarazzarsi del cadavere e bruciare il motorino per mostrare al resto del branco chi è che comanda in città, poi ripartiamo.

Il noleggio delle bici è poco più avanti, ancora udiamo in lontananza il vociare della piazza nella quale i miei compagni di viaggio hanno dato prova di capobranchismo. Forti del nuovo ruolo che hanno saputo ritagliarsi se ne vanno a cercare un posteggio gratuito nei paraggi. Nessuno dei due parla francese, ma si è capito come ciò non rappresenti un ostacolo. Io e Michela entriamo nel negozio e trattiamo l’affare con un giovane piuttosto simpatico che ascolta Charles Trenet.
Ci prova lei a stabilire una comunicazione, io ormai sono entrato nel loop della chanson, solo che lo fa in un inglese che sembra me quando parlo tedesco, e quello ci propina quattro bici da passeggio col cestino davanti, le famigerate Graziellà.

“Ma con queste mica ci arriviamo a Cannes!”, obietta in esperanto.
“Je suis Brigitte Bardot!”, risponde quello.

“Oh, ma mi aiuti o no, invece di fare la faccia da cretino? Questo non capisce un cazzo!”

Scosso dall’autorità ritorno sul vostro pianeta e provo a spiegare al giovane impiegato del ciclonoleggio che avremmo bisogno di mezzi più performanti. Il mio francese è un po’ arrugginito, ma è pur sempre la sua lingua madre, e in qualche modo riusciamo ad accordarci per tre mountain bikes e una bici da corsa supertecnica.
Arrivano Sara e Ponchià, e tutti e due osservano il manubrio ripiegato con scetticismo. Lui prova a suggerire un timido “casomai facciamo un po’ per uno per.. quella”, ma decido di accollarmelo io l’intero viaggio sul trespolone. I tre mi ringraziano per il sacrificio, ma è perché non conoscono la differenza fra il condurre un mezzo di cinque chili e uno di venticinque, poveri stolti!

Il viaggio è lento ma piacevole, Ponchià suda come un cane masai sotto il peso dello zaino di Sara, che ci si stava schiantando sotto già fuori Nizza e gliel’ha affidato; io e Michela ci facciamo prendere dalla febbre da selfì e ci scattiamo foto ogni due pedalate.

Al Marché du Ciarpàm di Antibes Ponchià trova un indispensabile schiaccialimoni in granito, che aumenta il peso del suo zaino di trentacinque chili. Sara ringrazia, che lo zaino di Ponchià lo sta portando lei.
Sulle mura cittadine un algerino romantico ascolta hip hop in arabo-francese, ma appena ci sente parlare cambia playlist e condivide con noi un pezzo dello stesso artista, ma in italiano. Lo canta con trasporto e molta malinconia: parla di immigrati che si sentono soli lontano da casa e non riescono ad integrarsi. Dice anche banalità sulla mamma, ma almeno ci risparmia la pizza, dai. Vorrei abbracciarlo e dirgli coraggio fratello, non tutto il male viene per nuovere. Pensa che il nostro rapper più famoso è Fedez.

Durante la seconda parte del viaggio facciamo conoscenza con un ciclista francese in preda all’arrunchio, che ignora me e Ponchià e si butta secco sulle ragazze. Michela gli fa capire che non ce n’è, che a lei quelli che ci provano stanno sul cazzo e il suo uomo ideale non la caga, la tratta male e non la cerca mai: “Non mi metterei mai con uno che cercasse di mettersi con una come me”.
Lo sventurato va a provarci con Sara, che gli infila un bastone nei raggi della bici e lo fa cappottare.

Promemoria: se vuoi provarci con Sara aspetta che sia a piedi e disarmata.

Ci fermiamo dieci minuti in una caletta che invita al riposo, e il ciclista riesce a raggiungerci, si avvicina alla donna meno pericolosa per un approccio più blando:

“Parli francese?”, le chiede in francese.
“Le due e mezza”, risponde Michela.
“Sei molto carina”, dice lui un po’ confuso.
“Ich habe eine schöne Bratwurst in meine Lederhose”, replica lei, convinta di dire tutt’altro.
Lui svolta al primo bivio e non lo vediamo più.

Michela ci resta un po’ male, che sotto sotto coltivava il sogno di incontrare in una boulangerie un francese che le offre la baguette, ma liquida l’episodio con superiorità: “I francesi mi stanno tutti sul cazzo. Sarà l’accento che li rende tutti degli stronzi spocchiosi.”

Arriviamo a Juan-Les-Pins all’ora dell’aperitivo e ci buttiamo in spiaggia come quattro sciuri, dove ordiniamo delle bibite di gran classe, tipo la sciuèps e la morettì. Da quelle parti non usa portare mangerie, oppure il cameriere ci ha inquadrati come quattro pezzenti che meritano giusto quattro olive condite con un sacco d’aglio. Ce le spazzoliamo io e Michela, imponendo automaticamente una selezione sugli eventuali limoni. Vabbè, tanto Sara brandisce uno stuzzicadenti con cui potrebbe uccidermi in almeno dieci modi diversi, non è cosa.

“Ragazzi, c’è una cosa che non capisco”, dice Ponchià, “Avevano detto che arrivare a Cannes sarebbe stato un casino, col traffico e tutto, ma qui non c’è un’anima. Potevamo venire tranquillamente in macchina.”
“Dici così solo perché sei stanco di portare lo zaino!”, replica Michela che non ama venire contraddetta.
“No, ma figurati! Cioè, non potrò mai più camminare eretto, ma non lo dicevo per quello.”
“È vero”, si aggiunge Sara che cerca di spostare la conversazione su argomenti meno personali, “Siamo sicuri che Sabrina attiri così tante persone?”
“Ma state scherzando?? Sabrina è conosciutissima! Ha riempito la piazza centrale di Kudrivka la settimana scorsa! È andata a vederla gente perfino da Volynka!”
“Ma che posti sono?”
“Se non conoscete la geografia non è mica colpa mia! Adesso muoviamoci che stasera c’è il concerto e non voglio perdermi la prima fila per colpa di grezzoni ignoranti come voi!”

Ci rimettiamo in marcia su una strada che più deserta non si può, e meno di due ore dopo siamo a Cannes. Che è vuota.

“Sono già tutti al concerto! Siamo in ritardo!”
“Dove lo fanno? Posiamo i bagagli in albergo e andiamo, dai!”
“Sulla Croisette. C’è un palco in spiaggia dove suoneranno tutte le grandi star internazionali. Non è lontano dall’albergo, ma dobbiamo sbrigarci!”

Ci buttiamo in strada come dei pazzi, percorriamo l’ultimo tratto di strada senza curarci dei pedoni e delle auto, infrangiamo ogni possibile legge compresa quella del menga, e tre minuti prima di quando siamo partiti entriamo nella hall dell’albergo, che sta fra la zona chic del lungomare e quella pulciosa della stazione ferroviaria. Indovinate il nostro albergo in quale delle due si colloca.

La signorina alla reception mugugna per farci tenere le bici, ma Sara le chiede se le piace il cinema, lei risponde sì certo, a tutti piace il cinema qui, siamo a Cannes, e Sara le chiede se ha visto il Batman con Heath Ledger, lei risponde di nuovo sì certo, tutti hanno visto il Batman con Heath Ledger, siamo a Cannes, allora Sara mette una matita in piedi sul banco, con la punta rivolta verso l’alto, e la signorina non risponde più, ma si vede che ha capito, perché ci mostra dove mettere le bici.

“Scusi, dov’è il concerto di Sabrina?”, chiede Michela.
“Di chi?”
“Non ci posso credere! Il concerto che apre il festival del cinema di stocazzo! Dov’è che suonano gli artisti? Eh?”
“Ma il festival comincia la settimana prossima.”

Ponchià sviene.

(continua, ma intanto qui potete vedere le foto)

 

“Vorresti trascorrere un fine settimana in un antico borgo medievale, assistere a un suggestivo spettacolo teatrale, gustare le prelibatezze della cucina ligure e finire la giornata su una meravigliosa spiaggia? Con Izzy Travel puoi! Con soli otto euro potrai aggiudicarti il nostro fantastico pacchetto Ceccere Cecce e trascorrere un weekend indimenticabile!”

È così che immaginavo di ricevere l’invito, in una busta rossa col mio nome scritto in caratteri dorati pieni di ghirigori, recata da un messo in calzamaglia bicolore con un buffo cappello, che scende da un cocchio trainato da quattro cavalli, due bianchi e due neri, e si fa accompagnare da un paggio col tamburo che sottolinea ogni puntoacapo con un rullo, tipo annunciaziò annunciaziò. In realtà il messaggio è più sul genere “Domani vieni ad Apricale con me, Matteo e Roberto. Non rompere il cazzo e fatti lo zaino, ci vediamo alle quattro e mezza davanti al Saturn”, perché con Giulia le cose sono sempre piuttosto dirette. Potrei rifiutare, ma non ho niente di meglio in programma, poche cose sono migliori di un fine settimana in un antico borgo medievale eccetera eccetera, e poi mi fa piacere conoscere persone nuove. Matteo e Roberto li ho visti recitare in una webserie insieme alla mia amica, ma non ci conosciamo peddavvero, quindi è come se.

Ad andare in giro con degli attori non ti annoi mai

L’indomani sono puntuale davanti al Saturn, ma lei no, così entro e scopro che il tablet Nexus 7 di cui i miei amici hanno tessuto lodi te lo tirano dietro per tutto agosto grazie a una clamorosa offerta e a un raid notturno in un magazzino dalle parti di Alessandria. Sono lì che penso che in fondo posso vivere ancora un po’ senza libreria e materasso, e anche il bollo della macchina ma chi lo paga, dai, se vado avanti a crackers per tutto agosto e settembre rientro nelle spese in un attimo, e ho sentito dire che con un solo rene si vive benissimo, ma in quel momento mi arriva un messaggio della donna di pietra: “sono fuori, sbrigati”. Il mio conto corrente è salvo per un pelo.

È lì con le sue borse come se dovessimo partire per l’Alaska, indossa un paio di stivali borchiati e un vestito leggero senza maniche. Sembra un incrocio fra una commedia italiana estiva degli anni ’70 e un video dei Metallica. Sta benissimo, ma è lei a fare la differenza, potrebbe indossare scorpioni e non perderebbe un colpo.

Dopo poco arriva Matteo, che conosco anche per averlo visto recitare in uno spettacolo orrendo, e lui conosce me, ma non si spiega la ragione, e io mica posso dirgli che il suo spettacolo era orrendo, così traccheggio.

“Com’è che ti conosco, io?”
“Perché quando provavi per lo spettacolo dello Strehler de noatri io ero allo stage di improvvisazione cantata e ci incontravamo fuori.”
“No, non mi ricorderei di te così bene.”
“Boh, tu mi ricordi uno che però non posso dirti di più perché c’è un fascicolo secretato fino al 2047.”
“Eh?”
“Il tuo spettacolo era orrendo.”

Potremmo approfondire la questione, ma non sappiamo dove andare a sbattere, e Giulia non riesce ad aiutarci, perlopiù confonde le cose: “No, loro provavano la domenica, tu il martedì, impossibile che vi siate visti!” oppure “Avete entrambi dei sosia che si sono conosciuti in un’altra vita sotto ipnosi”, che è una scusa fighissima e la prendiamo tutti per buona.

Roberto, che dovrebbe essere il terzo, e che conosco anche per averlo incontrato poco tempo prima alla Fiera del Cappello Buffo non c’è, è stato quello che ha lanciato l’idea della trasferta e poi si è tirato misteriosamente indietro e nessuno sa la ragione, si nega al telefono, se gli suoni il campanello non risponde, se lo incontri per strada si butta per terra e fa il morto. Essendo un noto beccione tutti sospettano una qualche avventura a sfondo sessuale, ma Giulia suggerisce che possa essere stato catturato da un branco di pinguini e costretto a nutrirsi di torte a base di pesce. ancora una volta la spiegazione più assurda è la migliore, e ce ne stiamo.
In realtà deve avere letto il bollettino del traffico e si è tirato indietro per non dover subire la coda più lunga dall’invenzione della macchina, ma lo capiamo soltanto all’ingresso in autostrada..

Il viaggio è interminabile, stiamo imbottigliati da Voltri a Bordighera, poi dal casello di Bordighera alla provinciale per Apricale ci mettiamo tanto quanto arrivare a Barcellona in bici. Il tempo scorre impietoso come addosso a quelle che con me non ci sono volute stare,  c’è il rischio di perdere lo spettacolo, che non puoi entrare in ritardo, non si fa, e ad Apricale c’è questa tradizione di gettare i ritardatari giù dalla rupe nel torrente Merdanzo, che veramente, come fai a chiamare così un corso d’acqua, e poi magari ti aspetti che la gente ci faccia il bagno dentro, “andiamo a tuffarci nel Merdanzo!”, ma seriamente, dai.. Per recuperare il tempo perduto sperimentiamo varie tecniche, dal leggere Proust al costruire una macchina del tempo dentro una DeLorean, ma alla fine il metodo migliore risulta essere quello di Matteo, che si arrampica su per la montagna con uno sprint da rallista. All’arrivo il parabrezza non ha le mosche spiaccicate, ha i daini.

Però lo spettacolo lo vediamo tutto, e ne vale la pena: è un itinerario nel centro storico del borgo, a farsi raccontare storie dai pezzi di una scacchiera, che detta così fa ridere la minchia, ma vi giuro che è bello: c’è il re costretto a sposare una donna che non ama, l’alfiere maneggione, la torre insicura e il pedone dietro lo specchio. C’è la Morte e l’Autore, e soprattutto c’è il chiosco dei panini col salame che mi salva da un destino orribile, perché quando è stata l’ora di fermarsi all’autogrill qualcuno ha suggerito di non comprare da mangiare, che avremmo avuto tutto il tempo per farci l’aperitivo in piazza, e io ho nello stomaco solo un’insalata.

 

Sad king is the best king

Sad king is the best king

Si, ma dove avete dormito? Che Apricale ha degli alberghi, ma costano come l’Angst di Bordighera, dove per passarci la notte devi chiamarti Ghella e avere uno specchio in camera.
Avremmo dormito a casa di Alessandro, che recitava nello spettacolo ed è una persona squisita, se avessimo dormito, ma prima si è tirato tardissimo a fare discorsi di Cartesio e calciatori fuoriclasse e musica dodecafonica (giuro) e castelli austriaci e nessuno che divagasse su quale sia il miglior cortometraggio di Tex Avery, tutti dritti sui propri binari, anche un altro Roberto che ho conosciuto lì e viene aggregato al gruppo per sostituire quello tiraculi, che se non ti chiami Roberto non puoi dormire in casa, si vede che c’è una prenotazione e il nostro ospite è molto fiscale, che ne so. Poi molto fiscale non mi sembra, nella serie di cui sopra indossa buffi occhiali e circuisce uno che gli ha portato la pizza, ha più l’aria del cazzarone.

Verso le tre andiamo a dormire, ma c’è una tele che trasmette solo finali di film, e ci facciamo irretire dal fascino del fuori orario. Alle cinque siamo ancora tutti svegli che improvvisiamo doppiaggi su vecchie pellicole in bianco e nero: Bande à Part diventa la storia di un pistolero francese che spara a uno zombi in una stranissima pellicola con una coppia che corre avanti e indietro e una tizia che viene chiusa in un armadio e poi non si sa più come riaccenderla; Mastroianni balla ceccere cecce e poi litiga al bar con un amico innamorato di Milly D’Abbraccio; una tizia si spoglia, si fa cospargere di budino e invita tutti i presenti a pasteggiare su di lei, poi ci ripensa ed esce dalla finestra su una moto, ridendo come una cretina. Quest’ultimo era già assurdo così, l’abbiamo lasciato intatto.

….

Della parte in cui ci si sveglia e si torna presentabili al mondo preferisco non parlare, cinque persone adulte che passano la notte nella stessa stanza proiettano un’immagine dagli effetti devastanti in soggetti sensibili: perdita della fiducia nella vita, abbandono dei progetti, inappetenza, atarassia, desiderio di accoppiarsi coi leghisti. Non voglio essere responsabile se una donna porterà in grembo il figlio di Borghezio, lasciamo perdere.
Diciamo che siamo usciti di casa e scesi in piazza a fare colazione in mezzo ai tedeschi che si scofanavano torte salate e pastasciutte.

“Guarda che mangiano veramente male i nordici eh? Pastasciutta per colazione, ma come si fa!”
“No, siamo noi in ritardo, è l’una e un quarto.”
“Ah.. Comunque il tuo spettacolo era orrendo.”

Ho visto cose otto quegli ombrelloni che voi umani non potreste immaginare, tedeschi da combattimento in fiamme al largo dei Bastioni del Merdanzo..

È un’atmosfera eccitante quella che si respira nella piazza di Apricale, e non solo per gli sguardi appiccicosi che Roberto indirizza al tavolo delle ragazze scosciate, lì accanto. Sono in sei, un dannato hipster con la barba lunga, che adesso va di moda la barba da naufrago, e cinque ragazze che coprono tutta la scala estetica da Apparizione Mistica ad Arbanella di Sottaceti. E poi ci sono gli artisti della compagnia, quello che è sceso in pigiama, quello che indossa tre paia di occhiali alla volta, quello che somiglia a Walter White. Non è più una piazza di paese, è un crogiuolo di lingue e idee, senti versioni alternative di un monologo e un’idea innovativa di abbigliamento, che però così innovativa non è, sono sessant’anni che i tedeschi indossano i calzini sotto i sandali, smettila. C’è l’attrice che gioca a carte col suonatore di tromba, la cameriera che somiglia a Moana Pozzi porta un bicchiere di bianco gelato, lo vedi da lontano il bicchiere appannato, e la lingua ti schiocca in gola, e ti chiedi se sia presto passare dal cappuccino alla pizza solo per poterti gustare un calice di poesia, ma non è il caso, un alcolizzato a weekend è una regola alla quale non si deve mai trasgredire, e questo fine settimana ne hai già incontrato uno sulla via, stava all’autogrill e biascicava qualcosa sul bufalino senza mozzarella, è un po’ come la statistica che dice che non ci potrà mai essere più di un dinamitardo per aeroplano, perciò se giri con una bomba in valigia puoi stare tranquillo, vatti a pigliare un estatè.

Salta fuori un mazzo di carte, è il momento della cirulla. Io non ci so giocare a carte, ho una specie di rifiuto genetico, non lo so, vado alle fiere nerz e imparo a giocare agli scacchi quantici, che sono una roba che se non ci hai mai giocato non puoi capire, i pedoni che se li osservi spariscono, l’alfiere di Schrödinger, il re che è contemporaneamente regina e cavallo (ma questo essere donna ed equino ha precedenti illustri anche fuori dalle fiere, basti pensare a Sarah Jessica Parker), poi mi metti in mano un mazzo di carte classiche e mi spieghi le regole della briscola e la testa mi parte per destinazione ignota. Mi succede coi giochi di carte, coi discorsi di mio cugino e col mio capo che mi spiega cosa devo fare oggi, per il resto sono sempre piuttosto presente.

Lascio i miei amici alla loro partita, che si preannuncia lunghissima, e vado a fare due passi. Apricale è una casbah di pietra a vista, scalette che si incrociano come in un quadro di Escher, vicoli e tetti e angoli ovunque. Mi stupisce che nessuno ci abbia mai ambientato un episodio di Assassin’s Creed, si vede che la Regione Toscana pagava meglio, oppure era poco credibile un Enzo Auditore che piglia il cavallo e scende a Ospedaletti e si spiaggia fino alle sei, poi mojito al bar con gli amici, un’orata alla ligure per cena, discoteca in Costa Azzurra e ti saluto templari. Io ci avrei giocato a un gioco così? Non lo so, la discoteca me lo mena, e anche il livello del mare, non so se l’avrei finito. Però con le orate vado forte.

Ritorno a partita finita.

“Che si fa? Andiamo a pranzo?”
“Si, ma a casa, che il ristorante non apprezza quelli che si presentano a tavola alle tre e mezza, li buttano giù dalla rupe.”
“Anche loro? E come si distinguono quelli che arrivano tardi agli spettacoli da quelli che vogliono pranzare a cucina chiusa?”
“Dalla rupe. Apricale ne ha molte, grazie alla sua disposizione geografica può giustiziare un sacco di categorie senza fare confusione.  Per esempio qui dietro cacciano giù quelli che barano a carte”, dice Alessandro, gettando un’occhiataccia a Matteo. Lui si infila una mano in tasca e fischietta un tormentone estivo che somiglia molto a quello che ballava Mastroianni la sera precedente.

A casa ci facciamo una pastasciutta e due bottiglie di ottimo bianco, e come succede sempre quando si contano i morti sul tavolo la conversazione prende pieghe più interessanti, tipo chi va con chi, chi è stato con chi, chi si vuol fare chi, e poi c’è Roberto che ci racconta un episodio talmente orribile che corriamo tutti fuori a vomitare, ma sono cose che uniscono gli uomini in un’amicizia virile, e Giulia non fa eccezione, che su queste cose è più uoma di tutti quanti, e se la ride soddisfatta e anche un po’ misogina.

Bene, è ora di ripartire, la strada è sgombra, la testa pure. Ci lasciamo con la promessa di rivederci in città, ma sappiamo già che certe promesse sono fatte per essere disilluse, i nostri destini ci portano su strade diverse, Alessandro deve partire per una tournèe col Circo di Brema dove interpreta la donna barbuta, Matteo ha da soddisfare tutte le donne d’Italia suddivise per regione, e la settimana prossima comincia col Veneto, Roberto vuole farsi una tedesca prima della fine delle ferie, anche a costo di fidanzarsi con una schuko, e Giulia sta per partire per la Scozia, da dove tornerà sposata con un cornamusiere con la stessa barba da hipster che hanno i ragazzini da queste parti, ma anche con un kilt che la giustifichi.

Io, di mio, ho un piano molto preciso per scalpellarmi il cuore, e intendo portarlo a termine prima possibile, che questa vita serena sicura e inappagante mi ha già rotto le palle, sono nato per soffrire. Ha ragione Bacca:

“Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.”

Quella volta che senti il bisogno di fare qualcosa di stupido insensato e dannoso, un’espiazione per i peccati commessi, che ti pesano sulla schiena come quando tradisci un amico. Ma i Transformers li hanno già ritirati dalle sale, non ci sono ragazze capricciose di cui innamorarsi, e allora farsi centoventi chilometri in scooter senza parabrezza e neanche una felpa, in una sera che minaccia temporale, ti sembra l’unica scelta disponibile.

A Santo Stefano Belbo, la città natale di Cesare Pavese, si esibiscono Vinicio Capossela e Vincenzo Costantino Cinaski, un reading letterario dedicato a uno dei miei scrittori preferiti. Me la immagino la serata: un viaggio interminabile sotto la pioggia, una cappottata di freddo, e poi starmene lì in piedi a guardare due tizi che tendono un agguato al mio umore zoppo e lo ammazzano nel buio. Una catena di eventi che spingerebbero a prenotare una stanza all’albergo Roma, ma non me ne curo. È una catarsi, non un funerale.

Arrivo che il temporale è appena terminato, ne ho incrociato la coda a Canelli, ho la cerata bagnata e i pantaloncini asciutti. Posteggio secondo le indicazioni e mi pecoro dietro un gruppo di spettatori fin dentro l’area dello spettacolo. C’è un ring da pugilato sul palco, un pianoforte nel mezzo e due microfoni ai lati. Due sgabelli stanno agli opposti angoli, e dentro i secchi degli sparring partners invece della spugna c’è una bottiglia di dolcetto.
L’esiguo spazio davanti al palco è già stato colonizzato, mi siedo sui gradini appena dietro. Ottima visuale, distanza invidiabile, spero solo che non piova, i giardinetti del paese non offrono riparo e la mia cerata non ha il cappuccio.

Dopo un’ora comincia, Mr.Pall legge una sua poesia, Mr.Mall risponde con un brano dal proprio libro, e sono una decina di minuti di vino da contemplazione, te li rigiri in bocca per sentirne tutte le fragranze, poi il cantante si ricorda del proprio mestiere e si accomoda al piano per un Tanco del Murazzo buttato via.

Un altro giro dedicato alla vita sregolata, sono due animali notturni questi, predatori di mignotte e vodka sour. Storie che finiscono male, solitudine che non ti pesa sul cuore ma sul fegato, odore di fumo e di brioches. L’affondamento del Ginastic è il secondo pezzo, e va già meglio, che quella di prima mi piaceva poco.

Arriva la trilogia classica, un omaggio a Pavese: letture da quella meraviglia che è Dialoghi con Leucò, alternate alle composizioni di uno dei miei dischi preferiti, e arrivano Dimmi Tiresia, Nostos e Le Sirene, sulle cui ultime note Cinaski legge una calda dedica alla birra firmata Bukowski.

Mi sento prudere il cervello come una ferita che guarisce, ho voglia di tornare a casa e fare cose.

Riprende a piovere, sono solo due gocce, ma il pubblico si innervosisce e gli artisti tagliano corto, resta il tempo per Le Cento Città e la canzone che ne è sorella, In Clandestinità. Saluti, si va via alla svelta.

Sulla strada del ritorno, perso su provinciali buie che si arrotolano nella campagna e intorno alle chiese dei paesini, non mi faccio intimorire dai lampi, scarto il maltempo sopra la testa come quello dentro di essa. Ho voglia di cambiare delle cose, piccoli spostamenti nel caos su cui nessuno si affaccia, che mi ricordano quello che sovente mi capita di dimenticare, e di cui vengo talvolta accusato: sarò anche pigro, ma in realtà non mi sono fermato mai.

Pre-mi-tap

Per la seconda volta da quando frequento il Club Dei Sociopatici ho vinto la mia naturale ritrosia e ho partecipato a un mitàp, che sarebbe quella cosa dove gli affiliati si incontrano in una città e si presentano: “ciao a tutti sono Antonio, sto su tumblr da sei anni e questa è la prima volta che esco di casa e parlo con qualcuno”, “mi chiamo Katia, ho una dipendenza da gif di gattini e pornografia”, “sono Rino, suono l’ukulele”.

La volta scorsa sono andato fino a Bergamo per incontrare i miei simili, quest’ultimo era più vicino, ma non si può dire che sia andata meglio, perché la città in cui si svolgeva il mitàp era Milano. Non so se avete presente il rapporto che hanno i genovesi con Milano, la gente di riviera e quella dell’entroterra come me, coi milanesi.

Diciamo una roba così, ma con Casalino (quello al centro) che dice uè figa:

Non mi dilungherò oltre su quest’antica diatriba, non vorrei offendere qualcuno, magari un milanese si incazza e viene a cercarmi e arriva alla prima curva di Serravalle Scrivia e pensa che in fondo la vendetta non è una ragione sufficiente per rischiare la vita sui tornanti micidiali della A7, esce al casello e si fionda all’outlet, come tutte le domeniche.

Io comunque parto con le migliori intenzioni, perdo la mattinata a smadonnare sull’impasto dei biscotti che non vuol saperne di stare attaccato, e alla fine parto con un sacchetto pieno di brasadè alla quellagranputtana, che non è il nome originale della ricetta, ma se l’è guadagnato sul campo.

Il lettore mp3 mi lascia prima di Tortona, ho scordato di caricarlo, e per il resto del viaggio mi sintonizzo su Radio3, che mi offre interessanti aneddoti con cui arricchire le mie conversazioni:

  • l’uso corretto dell’apostrofo;
  • lo sapevate che lo scacciapensieri esiste anche in Russia e si chiama рана языка?
  • tutto quello che avreste sempre voluto sapere su Antonín Dvořák, ma non avete mai osato chiedere.

…………………..

Arrivo a Famagosta, che mi ha suggerito una dei sociopatici di cui sopra, scambio la macchina con un vagone della metro e mi porto in centro, puntuale come la tua ragazza quel giorno in cui le hai detto “credo sia la prima volta che arrivi in orario a un appuntamento” e lei “perché non voglio stare con te un minuto di più, è finita, ciao”.
Davanti alla statua del tizio a cavallo, fuori dal Duomo, non c’è nessuno.
Cioè, c’è un casino di gente, ma nessuno che riesca a identificare come sociopatico.
No, non è corretto neanche così, perché ci sono decine di personaggi che portano addosso i segni di una vita di solitudine, primo fra tutti un turista giapponese armato di cavalletto per farsi le foto da solo.

“Scusa, ma che ne sai? Magari sua moglie era in giro per negozi e lui non aveva voglia di accompagnarla e si è portato dietro il cavalletto e ne ha approfittato per farsi un paio di autoscatti!”
“Cazzo vuoi, la storia è mia e il giapponese lo gestisco io, va bene? Si chiama Masahiro Matsumoto, è l’uomo più solo del Giappone e se ne ho voglia poi ti racconto, ma adesso devo parlare del mitàp.”

Inquadro un gruppetto di diciotto-ventenni e tremo. Avevo letto che l’età media era più bassa che a Bergamo, ma se sono loro me ne vado senza farmi riconoscere!
Un po’ più in là arriva un gruppetto di tizi con delle antenne rosse di carta crespa, e sto per lanciarmi a capofitto giù per le scale della metro.
Aspetto, giusto per sicurezza, ed entrambi i gruppetti si allontanano. Allora chiamo l’organizzatrice, che ha un nickname come tutti i sociopatici di tumblr, ma che per ragioni di privacy chiamerò Irene. O Ilaria, non mi ricordo.

“Ciao, sono Pablo, sono seduto sotto il cavallo, sto gesticolando come un forsennato verso nessuno in particolare e c’è un giapponese col cavalletto che mi si è appena messo accanto per farsi una foto”
“Ciao, sono Irene! O Ilaria, non mi ricordo! Ti sono di fronte a neanche un metro, vieni che ti presento agli altri!”

Mi-tap

Comincia così, con me e il mio sacchetto di brasadè che veniamo introdotti al quartetto già presente, ci stringiamo la mano, parlottiamo del più e del meno e aspettiamo che arrivi altra gente. Quando siamo un numero abbastanza cospicuo ci spostiamo al mi-tap vero e proprio, che si tiene in un posto con delle colonne romane che si chiama, pensa un po’, Colonne Di Un Santo Che Però Adesso Scusa Ma Non Mi Viene. Vista da qui Milano sembra perfino piacevole.

Qualcuno ha i biscotti e li fa girare, qualcuno i biscotti non li ha portati, allora raccoglie della ghiaia e prova a bossarsela, quello che si chiama Tiresia, ma che per questioni di privacy chiamerò Ragazzo In Camicia Nera E Occhiali Con Mosca Sotto Il Labbro estrae da uno zaino d’amianto tre arbanelle: una contiene della roba bianca in un liquido verde, una della roba bianca in un liquido rosso e una della roba bianca in una pasta marroncina. L’ultimo decido subito che si tratta di un feto extraterrestre in formalina, e te lo assaggi te, ma gli altri due mi incuriosiscono proprio. Cosa sarà mai?

Ragazzo In Camicia Nera E Occhiali Con Mosca Sotto Il Labbro apre quello verde e dal tappo si dissolve nell’aria una nuvoletta turchese: “Questi sono zuccherini al mojito!”
“Uuuh! Aaah!”

Straordinari, un concentrato di alcool che ti picchia nel naso come il Frecciarossa, solo più puntuale!

Poi Ragazzo In Camicia Nera E Occhiali Con Mosca Sotto Il Labbro apre quello rosso, e la terra trema, si sente un lamento lontano, le porte della chiesa alle nostre spalle sbattono fortissimo, uno strano bagliore sul suo volto gli dipinge un’espressione luciferina, ma probabilmente è solo suggestione: “questi sono al peperoncino.”

No, illusione stocazzo, quell’uomo è il Male incarnato, dovete fermarlo! Vi rendete conto che mentre noi siamo qui a raccontarci scemenze c’è un criminale che produce zuccherini imbevuti di peperoncino e li offre agli incauti? Lo sapete che dopo il primo avevo la lingua talmente infuocata che ho dovuto infilarla in gola a una ragazza per evitare che si sciogliesse? E la ragazza era un tizio col giubbotto di pelle che si chiama Valarfuckingmorghulis! E gli è pure piacuto, mi ha toccato il culo!

Poi sono arrivate le facce conosciute, che per questioni di privacy chiamerò Marianna, Federica e Ristoratrice Parmense Con L’Hobby Del Parkour In Bici Sennò È Troppo Facile, e la serata si è subito animata, tutti che abbracciavano tutti, tette che abbracciavano tutti, ingegneri aeronautici che offrivano biscotti, zuccherini dati alle fiamme, sesso orale nel senso che se n’è parlato molto.

Vabbè, andiamo a mangiare, e dove, sui Navigli, minchia fin là, ma se è qui dietro, e va ben.
Coda al buffet, saltano fuori gli ukuleles che iniziano a intonare il loro canto di morte, arriva altra gente, provo a spiegare a Irene! O Ilaria, non mi ricordo! che faccio un po’ di fatica a comunicare con le persone, che sai, è un momento che non mi riesce molto di spiegarmi, ma è un momento che non mi riesce molto di spiegarmi, e dopo dieci minuti la ragazza si scogliona e se ne va. Allora mi metto a parlare di fumetti con quello che per ragioni di privacy chiamerò Ragazzo Bergamasco Con Buffe Basette Che Lavora In Fumetteria E Si Chiama Marco e di concerti col suo amico che però scusa ma non mi ricordo più come ti chiami, ma che per ragioni di privacy fingerò di ricordare e nominerò Luca.

C’è anche una ragazza dal sorriso molto dolce che ci troviamo a raccontarci cose senza importanza, ed è lì che cerco di sfruttare gli insegnamenti di Radio3 e per rompere il ghiaccio le racconto che il compositore ceco Antonín Dvořák nutriva una passione sfrenata per le locomotive e i piccioni, ma non riuscì mai a fonderle in un unico hobby perché i suoi adorati pennuti volavano via dai binari quando lo sentivano arrivare.
Ovviamente se ne va senza avermi neanche detto il suo nome, maledizione. Ma tanto per ragioni di privacy non avrei potuto scriverlo, limitandomi a chiamarla Ragazza Dai Capelli Rossi E Dal Cappotto Che Ricorda Un Arredamento Anni 70.

Di nuovo in quel posto con le colonne, e siamo ancora di più, ci sediamo per terra, parapiglia, non scatta il gioco della bottiglia, a mezzanotte scappo sennò mi chiude la metro e a Famagosta ci torno davvero. Vengo a sapere dopo che appena sono andato via si sono spogliati tutti e hanno cominciato un’orgiona generale.

Ringraziamenti in ordine sparso

Irene! O Ilaria, non mi ricordo! che ha organizzato tutta questa roba, e non era facile; Elena, che voglio vedere le sue foto e suoi video. E anche quelli del mitàp; Ilaria, che non è Irene e mi ha spiegato come arrivare e dove lasciare la macchina, ed è una ragazza molto gentile e sul suo tumblr mette le cose di pornografia, che è sempre bello da vedere; Federica, un nome che mi fa sbandare e lo so io perché, e in questo caso appartiene a una ragazza che ha da mostrare più di quel che dice, e mi piacerebbe vederla in un’altra città, magari insieme a Marianna, che parla poco, ma sono sicuro che è una cosa passeggera; Rino e i suoi consigli su un possibile mitàp genovese (magari in primavera però, che adesso piove sempre); Valarfuckingmorghulis che non ha detto neanche a me come si chiama, ma ha apprezzato i miei brasadè; Dettaglio che vive a Genova, e credo sarebbe un ottimo compagno di bevute. Fatti vivo, vecio; chi mi ha parlato e chi mi ha notato senza parlarmi, chi ha cominciato a seguirmi e chi mi ha scritto per dirmi che cazzo avrebbe voluto esserci. A Catastrofe e a Mizaralcor, che non vengono ai mitàp, ma sono i miei tumbleri preferiti; agli altri, che non ricordo, scusate, devo togliere le polpette dal forno.

La prossima volta non so dove sarà, ma sarò fra amici.

 

Ieri sono stato a Bergamo. Che ha un centro storico davvero splendido, va detto, e una parte bassa piuttosto anonima, ma devo ammettere di non averla visitata granché. E poi ci sono un sacco di persone che parlano bergamasco, che somiglia all’italiano, ma pronunciato come se ti si fosse spanata la trachea, e si mangia sempre la polenta, anche a luglio. Vabbè, quest’anno luglio dicono che non ce la farà a venire, ma di non preoccuparci, che ha detto ottobre che casomai lo sostituisce lui, che tanto d’estate s’annoia, e d’ottobre la polenta ci sta eccome, e anche la luganega, e il maglioncino e la coperta di lana e sciarpa e berretto e quando cazzo arriva l’estate, eh?

Ieri sono stato a Bergamo, dicevo, a partecipare a una specie di incontro fra bloggers di cui non posso dire molto perché vige la prima regola, e se volete saperne di più dovete venire a leggere di là dove se ne parla, ma non posso dirvi dove per i motivi di cui sopra.
Però posso dire che ho mangiato delle cupcakes che ha portato una ragazza che secondo me era la figlia di Sharon Gusberti, la biondona dei Ragazzi della Terza C, perché nella nostra accolita di illuminati si trova di tutto, dalle figlie delle celebrità dimenticate a quello che suona l’ukulele seduto sul cofano di una macchina, fino alla bionda che non sa fare la retromarcia perché quella lezione lì l’aveva saltata perché aveva un colloquio di lavoro in palestra.
Bergamo è una città accogliente, ha tre fumetterie dislocate a triangolo nella planimetria cittadina, e ogni giorno ci spariscono dentro i soldi di centinaia di nerz, e nessuno indaga su questo fenomeno drammatico che sta rovinando un sacco di famiglie, che tutti si strappano i capelli sul vizio del gioco e nessuno affronta la piaga del vizio dell’uomoragno, simbolico rappresentante di una streppa di testate dal prezzo elevatissimo e dall’esiguo numero di pagine, che costringe il povero lettore a lasciare mezzo stipendio al famelico spacciatore sovrappeso con maglietta di Wolverine per potersi garantire un paio d’ore di supereroismo mensile. Non è il mio caso perché io i fumetti me li scarico, però è anche il mio caso, perché sul portatile si leggono male e non me li posso portare a letto, che insieme al gabinetto rappresenta la collocazione più adeguata a certe letture coinvolgenti, e il tablet per il momento è fuori budget, perciò le soluzioni sono due: o mi aumentate lo stipendio o abbassate il prezzo di copertina.

Bergamo c’è un posto dove fanno la polenta take away, che ha un tavolone davanti dove ti siedi e se uno prende il sugo ai tre formaggi ti senti come nello spogliatoio dell’Atalanta dopo una partita combattutissima con la Juve, finita uno a zero per gli ospiti grazie a dubbie scelte arbitrali di cui si parlerà a lungo nelle varie trasmissioni sportive che io per fortuna non guardo più non avendo più manco la tele, se devo prendermi una cosa che dà dipendenza e mi riduce a un’imbarazzante parodia di uomo preferisco andare a un altro mitàp, dove fra tizi con la spillina di Star Wars e altri con la maglietta dei Klingon mi sento decisamente più a mio agio.

Il meetup è l'unico posto dove puoi indossare una testa di cavallo ed essere considerato un gran figo.

Il meetup è l’unico posto dove puoi indossare una testa di cavallo ed essere considerato un gran figo.

Bergamo c’è anche un gran prato, dove se scavi pare che tiri su le ossa dei morti di peste, che ogni tanto ci si organizzano delle manifestazioni estemporanee particolarmente alcoliche chiamate Botillon, o perlomeno questa è grossomodo la loro trascrizione fonetica per chi ci sta andando. Quando viene via le chiama weuiyayayei. Si sviluppano all’improvviso in un determinato punto della città, come dei flashmob, per usare un termine tanto caro ai giornalisti di Repubblica.it, con la differenza che questi sono preceduti da un casino di poliziotti in divisa e altrettanti tizi col borsello che girano in coppia e fanno fotografie, perfettamente mescolati ai passanti. Può capitare di trovarsi nei paraggi insieme a un gruppo di persone, e che una di queste stia recando con sè un certo quantitativo di sostanze psicotrope nascoste, poniamo, nel reggiseno. Certo, in un caso del genere la prima cosa da fare è evitare di dare nell’occhio, che si sa che certe dotazioni non sono viste proprio benissimo dalle persone in divisa. Ecco, secondo me mezz’ora di conversazione a un volume sostenuto sulla possibilità che quello sbirro laggiù che sto indicando a smanacci o il suo collega che fisso da venti minuti possano venire qua e perquisirmi, indicando ripetutamente il posto dove proprio non penserebbero mai di cercare, non è il modo migliore per passare inosservati.

Poi ci sono stati altri episodi interessanti, oggi avrei dovuto tornare da quella città, e fare una tappa a Milano, che Milano è una città di frontiera e io da Roma non ci passo più, ma Milano è tanto grande da impazzire e il sole incerto becca di sguincio in questa domenica di aprile, che però è luglio, e quindi não, Milano scusa stavo scherzando, me ne sono tornato a casa a dormire, e oggi ho tutti i programmi scombinati.

Però è una bella giornata, fa caldo.. insomma.. non fa troppo freddo, ho lasciato Jack Oneyed da mia mamma e potrei approfittare di questa mezza feria per andarmene al mare, solo che io al mare, sarà per gli scogli, ma mi scogliono. Oppure potrei andare a fare la spesa, ma fino all’iper per quelle due cose che mi mancano in casa, senti, ma chi ne ha voglia, oppure potrei farmi un giro senza costrutto col mio scuter, oppure potrei prendere la macchina che ieri sera mi si è accesa una spia sospetta mentre tornavo a casa sulla A7, e per cercare di capire perché si è accesa potrei ripercorrere lo stesso itinerario in senso inverso per vedere se si spegne, ma poi cosa ci vado a fare a Milano, che le canzoni che parlano di quella città le ho già citate qui sopra, manca giusto Alberto Fortis, ma neanche mi piace, e insomma, cose da fare ce ne sarebbero anche, ma ho buttato un occhio al mio conto corrente e sono tipo svenuto, e in teoria avrei da comprarmi un materasso matrimoniale con corredo nell’immediato futuro, che su quello singolo si dorme bene, ci mancherebbe, ma tutte le mattine mi trovo girato in una direzione diversa da quella in cui mi ero addormentato la sera precedente, ed è un’esperienza che non facevo più dal militare, e non è piacevole, insomma, sto cominciando a patire il letto, e l’unica ragione per cui non tengo una confezione di travelgum sul comodino è che non ho neanche il comodino.

Insomma, ho deciso di fare qualcosa in casa e mettermi a scrivere un post interlocutorio, che quello sulla musica ne ho scritto uno bello lungo, ma è ambientato a New York e ci devo arrivare, e quindi sta lì in attesa di tempi migliori, ma anche un post interlocutorio in una bella giornata come questa è un po’ difficile da buttar giù, e allora mi sa che scrivo due righe a brettio tanto per non lasciar crescere le ragnatele e poi vado a prendermi Jack.

I biglietti
Vent’anni fa, più o meno, stavo a Milano al Forum di Assago, che adesso si chiama Qualcosaforum, a seconda di chi paga lo sponsor: è stato Filaforum, Datchforum, Mediolanumforum e Tuamadreforum, quando si era messa a praticare il treperdue sulla tangenziale lì di fronte.

Era l’ultima sera di ottobre (how appropriate!), e su un palco che ricordava un tempio greco c’erano i Cure che portavano in giro il loro ultimo album. Li avevo appena scoperti grazie alle cassette del mio amico Darkillo, e avevamo comprato secchi il biglietto. Il 1992 è stato un anno pazzesco per la mia formazione live, in pochi mesi mi ero già sparato gli U2, i Dire Straits e Gianni Drudi, e la paghetta che mi passavano i genitori era pure bassa! Altri prezzi, signora mia!

Fu un concerto incredibile, ero in prima fila, conoscevo tutte le canzoni a memoria, c’era quella dietro di me che mi piantava continuamente le borchie del braccialetto sulla schiena.. avrei potuto morire lì ed essere appagato lo stesso.

Qualche mese fa sono lì che guardo pornazzi su internet e ad un certo punto viene fuori che i Cure celebreranno il ventennale del tour di Wish riportandolo in giro per l’Europa, e che verranno a suonare all’Heineken Jammin’ Festival il 7 luglio. Le acrobazie della signorina in video smettono di essere interessanti ben prima dei canonici venti secondi, e mi precipito su ticketone a comprare i biglietti, sperando che i maledetti bagarini non li abbiano già comprati tutti. Ci sono! Ne prendo due a scatola chiusa, la mia fidanzata non li ha mai visti i Cure, figurati se non le interessano.

Insomma, non vi sto a raccontare tutto quello che ho fatto da quel momento a ieri, sennò viene lunga, diciamo che alle quattro e mezza ci siamo messi in macchina io, il Subcomandante e Intercontinentillo, che nel frattempo è tornato dall’America per le vacanze e si è aggregato, e siamo partiti alla volta di Rho, dove si teneva l’HJF, che per chi non capisce gli acronimi è il festival che ho citato poche righe fa, ma dovreste stare più attenti.

Terra di nessuno
Viaggiamo bene e veloci, anche la temuta tangenziale la affrontiamo senza incidenti, e alle sei siamo nel posteggio P2 della Fiera di Milano sotto un sole che ammazzerebbe i pitoni. Dov’è il concerto? Di là, ci dice uno, indicando l’orizzonte che balugina lontano.

La fiera è grande e l’HJF sta proprio dietro, e per arrivarci bisogna girarci intorno. Lungo il tragitto incontriamo il padre di Branduardi, venuto a comprare un topolino per due soldi:

“Ma non ti sembrano tanti due soldi per un topolino?”
“Posso permettermelo, ho venduto un’opera a Brecht e ne ho ricavati tre, due li investo nel topolino e me ne rimane ancora uno da giocarmi alle macchinette!”

Poi entriamo nel mercato dei napoletani, una selva di bancarelle che vendono tutte la stessa maglietta e tizi che trascinano conche piene di birre ghiacciate.

“Signò, la vuole una birra?”
“Ma secondo te in un posto che si chiama Heineken Festival ne avranno birre?”
“Eh ma l’Aineche sa di piedi, io tengo Labbècs!”

Poi c’è la tizia che ti chiede se vuoi fare la pubblicità al nuovo smartfodellasamsu, ti infila dentro un telefono di cartone e ti fa dire “Samsungalacsi Essetrè, disain foriùma!”. Ti fa leggere un cartello dove c’è scritto proprio così, “foriùma”, e mi verrebbe voglia di partecipare e tirar fuori dalla tasca il mio Samsungalacsi Essedue che si pianta tutti i giorni e dire “samsungalacsi esserròtto!” e tirarglielo contro la telecamera, ma lei non ne può niente poverina.

Poi ci sono i cazzo di bagarini che ti vengono incontro con mazzette di biglietti in mano come le banconote di Krusty, e Marzia li allontana gentilmente dicendo no grazie, quando bisognerebbe buttarli per terra e prenderli a calci e offendere le loro madri per tutte le volte che non hai potuto comprare un biglietto degli U2 perché dopo venti minuti da che sono in vendita se li sono razziati tutti per rivenderseli al triplo fuori dai cancelli. Quando diventerò imperatore del mondo li metterò tutti nella categoria Bastardi Che Devono Morire Male, me lo segno.

Sole e un tappeto sintetico. L’inferno dev’essere pressappoco così.


HJF

Seguendo la scia di cadaveri calcificati dal sole arriviamo alla piana di asfalto in cui si tiene il festival. Il palco è lontanissimo laggiù in fondo, ci arriviamo facendo le soste obbligate secondo importanza, banchetto delle magliette ufficiali, cessi chimici, porchettaro, e ci sistemiamo a ridosso della transenna che ci separa dal Pit, che non è il marito di Angelina Jolie, ma un recinto per cui occorreva pagare dieci euri di più. Oltre quello c’è l’area Vip, un altro recinto che sta davanti al palco, pieno di persone senza reni, cornee e anima.

Il posto che occupiamo non è affatto male: il sole sta calando e la temperatura è accettabile, davanti a noi non c’è una ressa mostruosa a impedirci di respirare e il palco non è neanche lontanissimo, strizzando un po’ gli occhi si riescono a vedere perfino i megaschermi.
Inganniamo l’attesa mangiando panini di un materiale stranissimo, che in bocca ricorda la gommapiuma, ma che una volta ingoiato diventa uguale al marmo. La birra invece la riconosci subito, è proprio come diceva il tizio fuori, sa di calzino di lupetto dopo che si è tolto le scarpe sul locale per Torino alla fine di un’estenuante gita al Monte di Portofino.

Alle nostre spalle dei nazisti con un pitbull al guinzaglio facevano avanti e indietro sfidandoci a scavalcare.

Dopo una mezz’ora cominciano a suonare i New Order, che sarebbero i membri dei Joy Division che non si sono impiccati in cucina, quelli che un giorno hanno inventato la musica dance, poi si sono sciolti, poi si sono rimessi insieme senza dirlo al bassista e dandosi anche di gomito al pub ripensando alla faccia che avrebbe fatto vedendoli su un palco.

La loro esibizione è quella che ti aspetteresti da un gruppo che non ti sei mai cagato quand’erano in cima alle classifiche e li accomunavi ai Pet Shop Boys e agli altri discotecari del cazzo, ma che adesso infili nelle playlist di grooveshark sospirando di nostalgia: una figata elettronica danzereccia e peccato solo che ci sia questa transenna potevo spendere dieci euri di più e stare di là che c’è più largo e guarda come ci sballano quelle due tizie mezze nude la prossima volta non faccio il taccagno, me lo segno anche questo.

Nel frattempo lo spazio alle nostre spalle è andato riempiendosi, e quando cominciamo a sentire le campane che annunciano l’inizio del gruppo principale abbiamo una marea di corpi alle spalle e non posso fare a meno di pensare a The Walking Dead, e vorrei avere con me un’ascia. No, l’ascia è perché sono un misantropo di merda e odio le persone, anche quelle vive.

La scaletta (for fans only)

Cominciamo! Vent’anni dopo Wish sono di nuovo a un concerto dei Cure!
No, aspetta, veramente ci sono stato altre due volte a un concerto dei Cure, nel 1996 e nel 2000.
Ma stavolta è il tour di Wish! Come vent’anni fa!
No, aspetta, dice Espertillo che in realtà non è il tour di Wish, fanno solo una carrellata di vecchi successi, ma devo aspettarmi un po’ di tutto.
Ma ormai è troppo tardi per richiedere i soldi indietro!

Robert Smith è talmente ciccione che hanno dovuto costruire un megaschermo apposta per contenerlo.

L’apertura è da brividi, o da Disintegration, che è comunque un album da brividi: Plainsong, Pictures Of You e Lullaby, una dietro l’altra, e già pensi che vale la pena di esserci, che un attacco così è quasi meglio di quello del’92, quando al posto di Plainsong fecero Open e High. Quasi meglio, perché Open è un capolavoro e mancherà nel concerto di stasera.

High arriva di seguito, come quarta canzone, e non ho ancora smesso di cantare, meglio che mi facciano riprendere fiato, e infatti fanno The End Of The World, quella nuova che nel video gli va giù la casa e quando l’ho visto ho pensato che i Cure non hanno più niente da dire, ma i video sono ancora carini.

Torniamo indietro con un altro classico da Disintegration, Lovesong, che tutto il pubblico apprezza, e poi mettiamo lì un altro pezzo nuovo che mi cago poco, Sleep When I’m Dead.

La chitarra allegra di Push fa mille giri prima di essere accompagnata dalla voce di Robert Smith, che sembra divertirsi un sacco, si agita come l’orsetto ciccione, si asciuga la faccia con la manica della camicia, riprende a ballare con la chitarra appesa al collo, e da lontano la sua silhouette sul palco è iconografica come quella di Indiana Jones col cappello in testa. E’ una lezione di storia della musica quella a cui stiamo assistendo, una di quelle più divertenti.

Il gruppo ha preparato una scaletta furba, e non ci fa smettere di agitarci: dopo Push è la volta di In Between Days e Just Like Heaven, sempre senza sosta, cominciamo ad avere il fiatone. Anche Ballerillo è provato, che certi ritmi non li regge più neanche lui che è una bestia da concerti. Le uniche che non sembrano sentire la stanchezza sono le due tizie di prima, che continuano a ballare come forsennate. Una è sempre più nuda, si è calata i pantaloncini fino a mostrare la nasella e indossa gli occhiali da sole nonostante il sole sia sparito dietro il palco.

Per fortuna che il telefono ha anche una fotocamera che funziona con la batteria scarica

Finalmente un pezzo di Wish: From The Edge Of The Deep Green Sea. Non so gli altri, ma per me è una delle canzoni più belle che abbiano mai scritto, le chitarre distorte creano un tappeto denso, da affondarci i piedi; chiudo gli occhi e mi dimentico di dove sono, ci vediamo fra sette minuti e quarantaquattro secondi.

Torno alla vita sulle note di un pezzo che non conosco, bello pieno. È nuovo (almeno per me), si chiama The Hungry Ghost, non è male.

Il blocco successivo di canzoni lo associo alla copertina del Greatest Hits, quella col vecchio in bianco e nero, e ai suoni sintetici che riempivano il disco: Play For Today, A Forest, Primary, quasi nello stesso ordine della raccolta, e The Walk, che stava sul lato B.

Da notare che fino a qui il concerto è stato sempre tiratissimo, una canzone dietro l’altra, nessuna sosta, giusto un paio di battute del cantante, peraltro incomprensibili, data la sua passione per il borbottio. E tutte suonate alla grande, belle cariche di suoni, da quel palco si sprigiona un’energia che raramente mi è capitato di percepire ad un concerto. Per dire, a quello di Guccini no.

Effetti bizzarri e pure inutili, ma tanto al buio non è che puoi fare ste gran fote.

Friday I’m In Love viene accolta da un boato, credo che la conoscano anche i tizi della sicurezza che vigilano affinché nessuno scavalchi dall’area zozzoni micragnosi dove stiamo noi a quella zozzoni e basta, detta anche Pit.
Ogni tanto qualcuno ci prova a scavalcare, e si fa malissimo sbattendo sulle transenne, che dal nostro lato sono delle lastre di metallo piuttosto semplici, ma dietro hanno un sacco di paletti inclinati e sgabelli e uncini e credo che fossero un progetto scartato da Aegon Il Conquistatore quando disegnò il Trono di Spade.

I pochi che sopravvivono all’impresa si perdono immediatamente nella folla, ma c’è qualcuno che non ce la fa e viene catturato dal temibile guardiano. Quando questo accade cominciano le atrocità (sconsiglio la lettura del paragrafo che segue alle persone sensibili):

Il guardiano si mette davanti all’immigrato clandestino e gli fa: “Hai scavalcato?”
L’immigrato si fa piccolo piccolo, che il guardiano è veramente un bestione, e mormora con un filo di voce “ssi”, non cercando neanche di vendergli una scusa, che potrebbe farlo imbestialire ancora di più.
Il guardiano lo fissa con gli occhi dell’orco e dalla sua bocca grondante sangue gli fa: “Vabbè, stai lì.”, e se ne va.
L’immigrato resta un po’ stordito dalla sorpresa di avere ancora tutti gli arti al proprio posto, poi aspetta che il guardiano si volti e scappa tra la folla.

Nel frattempo Friday I’m in Love è finita, ma il momento Wish continua con Doing The Unstuck e Trust. La prima è un po’ meno gioiosa che nel disco, la seconda me lo mena uguale preciso.

Ma è proprio l’atmosfera del concerto che si è fatta più cupa con l’approssimarsi delle tenebre, sta cominciando il Momento Pipponi.

Il gruppo ha lasciato indietro le canzoncine pop, e adesso vira sul dark pesante: Want, Wrong Number, One Hundred Years e Disintegration. Alla fine Robert Smith abbandona il palco in lacrime (sic, che per chi oltre gli acronimi non sa neanche il latino vuol dire “per davèro!”), che si vede che si è depresso anche lui. Le due tizie nel Pit continuano a ballare anche dopo che la musica è finita, mi sa che c’è qualcosa che non va.

Momento Pippone

La pausa è breve, neanche il tempo di gridare fuorifuor e sono di nuovo tutti lì, allegri come se niente fosse successo, e sfornano tre reperti: Shake Dog Shake, Bananafishbones e The Top, che il cantante introduce dicendo che è solo la seconda volta che la fa dal vivo; in realtà è la quarantunesima, ma si vede che le altre 39 volte l’ha fatta in playback.

Stavolta la canta davvero, e benissimo pure, e quando grida “Please come back” alla fine si allontana dal microfono e la voce arriva flebile e pensi che questa qui è proprio una stronza ad averlo lasciato da solo laggiù in fondo e fai come ti dice, non lo senti che ti chiede di tornare? Tutta intera, specifica, che a pezzi con ‘sto caldo vai subito a male.

Escono di nuovo, neanche il tempo di dire fuorif che sono di nuovo lì, allegri come se il concerto stesse per finire, e ti sparano l’ultima raffica di pezzoni per chiudere in allegria, tutti amici, ciao è stato bello, ci rivediamo presto: Dressing Up, The Lovecats, The Caterpillar, Close to Me, Just One Kiss, Let’s Go to Bed, Why Can’t I Be You? e Boys Don’t Cry.

Abbandoniamo il terreno lasciandoci alle spalle una distesa di bicchieri di plastica e cartacce e due tizie mezze nude che ballano ormai sfinite, sbattendo i loro corpi imbottiti di acido contro i passanti che sfollano. Ieri sera suonavano i Prodigy, secondo me sono lì da allora.

Quando è partita The Lovecats abbiamo ballato un casino. Cioè, un casino di più del casino di prima.

Stamattina ho visto un’intervista dove Robert Smith dice che si è divertito tantissimo, è stato uno dei concerti più belli che ha fatto in Italia, ma col cazzo che ci torna, e se Katia non è venuta a vederlo peggio per lei, la prossima volta al matrimonio si dà malata.

Insomma che ho fatto i biglietti, ad agosto si va a New York. Avevo pensato, dato che c’era il tempo, di vedere prima la vecchia York, ma mi hanno detto che non importa, tanto il sequel non ha nessun collegamento col primo episodio.

Io di New York so, per averlo imparato da Frank Sinatra, che è la città che non dorme mai, e che se puoi farla lì puoi farla dappertutto. Se dovessi collegare le due cose penserei che a New York i cessi sono così sporchi che la puzza ti tiene sveglio tutta la notte, spero di sbagliarmi, in ogni caso per sicurezza mi porterò il vasino.
Ogni altra informazione sulla città mi arriva dal cinema, quindi immagino di andare in una città piena di psicopatici che vogliono farla saltare per aria, di mostri che si aggirano fra i palazzi calpestando taxi (ma io li frego e giro in metro!), di aerei che ti portano direttamente in ufficio, insomma un gran casino. Spero che quindici giorni mi basteranno per vedere tutto e tornare vivo, ma devono bastarmi, il volo costa come due vacanze in Portogallo, non so quando potrò permettermi di tornarci.

(continua)