Innanzitutto una nota per i milioni di lettori che arrivano qui da fuori Genova:
Melina Riccio è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che può capitare di incontrare in giro per Genova, mentre butta mangime ai piccioni o si trascina dietro il suo carrello per la spesa. Può sembrare una delle tante pensionate che ciondolano per i nostri centri storici, ma Melina Riccio è molto di più, è un’artista di strada. Anzi, a Genova per qualche anno è stata la writer più popolare, la Banksy locale, direi. Fino a qualche anno fa, in città come altrove, non era difficile imbattersi nei suoi “murales”. Si trattava di brevi elenchi di parole, talvolta in rima, riguardanti perlopiù il nostro rapporto con l’ambiente cittadino e la natura, cose semplici tipo “la spazzatura fa paura alla natura”, o “amore certo casto bello”, scritte in stampatello con un pennello piuttosto largo sui muri e sui grossi bidoni metallici dell’indifferenziata. Ne parlo al passato perché da un po’ di tempo non mi capitano i suoi lavori sotto gli occhi, e magari si è ritirata per sopraggiunti limiti di età, ma magari invece è attivissima, non prendetemi in parola su questo (ma neanche sul resto, sono un cazzaro).

Melina Riccio - Costruttori di Babele

Essendo uno spirito inquieto, Melina Riccio ha portato la sua opera in giro per l’Italia, magari senza coprire grosse superfici coi suoi slogan futuristi, ma semplicemente lasciando la sua firma corredata da una stella. Fuori dalla stazione di Roma, o da quella di Venezia, un occhio attento può ancora rilevare il tag di Melina, scritto piccolo su una piastrella o enorme su un palo dell’illuminazione.

Negli anni ci si è interrogati molto se quella di Melina fosse davvero arte o semplici scarabocchi, ma non credo di poter dare io la risposta definitiva (anche perché l’ho già fatto). Quello che però mi sento di dire oggi è che se Melina Riccio avesse un sacco di soldi da spendere per le sue opere nessun critico avrebbe dei dubbi, quella sarebbe arte contemporanea e la gente pagherebbe un sacco di soldi per andarla a vedere esibirsi. Certo, Melina Riccio a quel punto non dovrebbe limitarsi a dipingere e fare collage, dovrebbe anche scrivere musica e cantare, e a quel punto tutti si renderebbero conto di quello che io ho capito solamente ieri sera, quando per la prima volta in vent’anni sono riuscito ad andare a un concerto di Bjork.

Bjork, una retrospettiva in quattordici puntate

Bjork è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che ogni tanto fa uscire un disco che divide a metà la critica: da una parte quelli che la considerano un genio assoluto e dall’altra quelli che trovano i suoi lavori inascoltabili e pallosi oltre l’umano. Per capire da che parte stia dovremmo andare per ordine e proporre una retrospettiva ragionata in quattordici puntate in cui analizzo ogni singolo brano a partire da quando suonava con gli Sugarcubes, ma farei felice solo me stesso e solo per i primi dieci minuti, perché comunque è vero che Bjork è pesante, non lo scopriamo oggi. Ma è anche un genio, forse addirittura superiore a Melina Riccio.

Di Bjork con gli Sugarcubes avevo scritto qui, perciò partiamo dalla sua produzione solista, che è più facile e si inizia col botto.

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Il suo primo disco solista lo incide nel 1977 a 11 anni, ottiene il disco di platino in Islanda, ma la verità è che il disco era una raccolta di cover in islandese e ha venduto 5000 copie su una popolazione di poco superiore a quella di Messina. Lasciamo perdere.

Debut è del 1993, e insieme ai due album successivi, Post (1995) e Homogenic (1997), compone l’intera discografia di Bjork che si può ascoltare senza cominciare a sentirsi scomodi sulla sedia. A dar retta a certe voci, il resto della produzione della cantante è stato fortemente influenzato dalla sua relazione con Matthew Barney, un artista visivo statunitense che ha conosciuto nel 2001 e con cui ha convissuto fino al 2013. Non è un’ipotesi così astratta, Vespertine è l’album che segue la trilogia meravigliosa, ed è appunto del 2001, e prima di incontrare questo personaggio Bjork si accompagnava a musicisti del calibro di Tricky e Goldie.

Ora, di sicuro Bjork non è un contenitore vuoto che chiunque arrivava riempiva a piacimento (nessuna allusione sessuale qui), e anche nei primi dischi è molto presente quella dissonanza sonora che dilagherà successivamente, ma le influenze sonore dei due signori qui sopra, e anche di Howie B, che collaborò al terzo album, si sentono parecchio.

La stessa cantante ha pubblicato una specie di guida all’ascolto dell’album che celebra la fine della sua relazione col compagno, Vulnicura, del 2015, spiegando come l’intero album sia una specie di processo di elaborazione del lutto e descriva i suoi diversi stati emotivi prima e dopo la rottura.

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Ce la siamo persa, Bjork. Da Vespertine in avanti la sua voce e la sua musica sono state accomunate solo per essere registrate contemporaneamente sulla stessa traccia, ma andavano ognuna per la sua strada ignorandosi a vicenda. Tappeti sonori densissimi, effetti barocchi, echi, atmosfere ambient, la produzione di Bjork negli anni ha preso una strada che anche i critici più eccitati hanno cominciato a guardare prima con sospetto, e poi con sempre più disaffezione. Dall’altra parte le sue apparizioni in pubblico sono state caratterizzate da abbigliamenti sempre più bislacchi e complicati, fino al Coachella di quest’anno, in cui si è presentata sul palco, fra le altre cose, in un abito su cui erano stati cuciti quasi 1500 led che reagivano al suono.

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Non mi piace dare la colpa a qualcun altro di questo suo ripiegarsi su sé stessa, preferisco credere che faccia tutto parte di un suo percorso interiore che non siamo tenuti a capire o apprezzare, ma solo accettarlo e andare avanti. Se e quando deciderà di tornare a meravigliarci col suo pop extraterrestre saremo qui ad aspettarla.

Io però nel frattempo avevo comprato il biglietto per il suo concerto di Milano, e mentre la data si avvicinava stavo maturando una certa apprensione. Su setlist avevo già sbirciato la scaletta del concerto, sempre la stessa per tutte le date, e conteneva praticamente solo canzoni degli ultimi due album: il pesantissimo Utopia e il meno pesantissimo ma comunque sempre difficile da digerire Fossora. Perdipiù ero da solo, non essendo riuscito a imbarcare nessuno dei miei amici e familiari in questo progetto assurdo. “A vedere chi? Ma tesseiffuori!”, mi hanno risposto tutti quelli a cui l’ho chiesto. L’unico che avrebbe accettato è stato il mio amico Musicadimerdillo, che è abituato ad ascoltare gente che suona la verdura sotto la doccia, e per lui Bjork è una passeggiata nel bosco, ma quel giorno doveva strapparsi le unghie a morsi e non poteva venire.

Sono andato a Milano da solo. Prima del concerto una voce ha spiegato che Bjork non vuole vedere telefonini durante il concerto, perché la distraggono e danno anche fastidio a chi vi sta vicino, perciò sul sito sarebbero state messe a disposizione gratuitamente foto comunque migliori di quelle che potrete fare voi coi vostri cellulari di merda. Per questa ragione le foto che trovate a corredo del mio post non le ho scattate io, le ho prese dal sito ufficiale. I video invece li ho scroccati a quelli che se ne sono sbattuti le balle e il telefono l’hanno usato lo stesso.

Vabbé, ma il concerto com’è stato?

Qui i pareri si dividono. Qualcuno che l’aveva già vista altre volte l’ha trovata particolarmente intonata, ma noiosa oltre l’umano, quindi in linea con la sua produzione discografica. Matteo Bordone, giornalista del Post, è uno di questi, e il giudizio molto severo che esprime nel suo podcast (che non vi linko, essendo solo per abbonati, ma se siete abbonati lo avete sicuramente già ascoltato) è che fa sta roba complicatissima da ascoltare e poi neanche te la spiega: in un’ora e quaranta di esibizione ha detto solo “grazzi” un paio di volte alla fine. Però la trovo una critica ingiusta: ochei, non ti fa gli spiegoni sul palco, ma rilascia interviste, scrive roba sui social, non è un’artista chiusa in casa che produce roba ermetica e ti lascia l’incombenza di interpretarla. Io ai concerti difficilmente vedo artisti che chiacchierano col pubblico. Certo, ci sono quelli che introducono le canzoni dicendo due parole, ma ce ne sono tantissimi che salgono sul palco, fanno la loro roba e se ne vanno senza dire niente né fare soste. Cazzo, ho visto De Gregori per anni e in tutto l’avrò sentito pronunciare meno di dieci parole.

Il concerto di Bjork è la versione in grande, più tecnologica, più rumorosa e (poco più) musicale del portone di casa di Melina Riccio.

MELINA RICCIO - Drawing - Outsider Art Now

Ci sono questi due livelli di tende trasparenti su cui vengono proiettate le immagini, e la scenografia è grossomodo tutta lì. C’è una piattaforma su due piani e Bjork e le sue ragazze lo percorrono avanti e indietro, c’è una specie di cabina che ricorda un po’ la testa di un polpo.
Le ragazze in questione sono le Viibra, un settetto di flauti e clarini che fanno anche da corpo di ballo, muovendosi in sincrono e componendo figure. Il resto della band sono Bergur Þórisson (che lascio scritto senza la traslitterazione così vi resta la curiosità di sapere come si pronuncia), ingegnere del suono, Katie Buckley all’arpa e soprattutto Manu Delago, percussionista bravo abbastanza da giustificare tutto quel circo e il costo del biglietto. Per dire, ad un certo punto si è messo a suonare delle ciotole dentro una vasca piena d’acqua, ma in generale la base ritmica del concerto, quando c’era, si sentiva forte.

Il concerto è stato un’ora e quaranta di musica noiosa, ma la coreografia, le immagini che scorrevano alle spalle dei musicisti, il carisma di quella piccoletta stramba vestita da omino Michelin, e probabilmente il fatto che questo fosse uno dei pochissimi concerti a cui ho desiderato partecipare per anni, hanno fatto scorrere il tempo molto velocemente. Il tizio seduto accanto a me con un grosso problema di traspirazione ha contribuito ad allungarlo un’altra volta.

Non è un’esperienza facile, e probabilmente non è neanche davvero un concerto. È più vicina a uno di quei videogiochi fatti apposta per mostrarti le capacità della nuova console, ambientati in un luogo pieno di forme che si muovono e suoni che hanno poca musicalità, ma sotto tutta quella roba messa lì per confonderti c’è sempre la stessa Bjork di Post, che gioca con la techno e agita il braccio sopra la testa per tenere il ritmo, che strilla e si mette a ballare. O perlomeno ci prova, visto che l’abito è piuttosto ingombrante.

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Prima del pezzo che chiudeva il concerto ci ha detto “if you feel like dancing don’t hold it”, come se fosse facile mettersi a ballare su quella roba, ma poi gli strumenti si sono allontanati e il ritmo si è fatto sentire più chiaramente, e se non fossimo stati tutti seduti e sedati dal tappeto sonoro ininterrotto che ci ha portati fin lì magari ci sarebbe venuta voglia di alzarci e saltellare. Invece la musica finisce, ci alziamo e ce ne andiamo.
Io peraltro stavo vicino all’uscita, e cinque minuti dopo la fine del concerto ero già all’imbocco della tangenziale.

Magari è stato più noioso e superfluo e ridondante di molti altri concerti, ma per me che era il primo, e su cui avevo pochissime aspettative, è stato pazzesco. Quando ho riconosciuto in mezzo a quel casino Venus as a boy mi sono lasciato scappare un’esclamazione che quello vicino a me ha staccato gli occhi dal telefono su cui seguiva la partita dell’Italia; quando ha presentato i musicisti, sentirla parlare con quel suo accento assurdo, dopo una vita che la ascolto solo attraverso delle casse (vabbè, anche stavolta in realtà, ma ci siamo capiti) è stata un’emozione.
Insomma, io Bjork la voglio rivedere prima possibile, e stavolta non voglio comprare il biglietto in piccionaia, voglio stare davanti. Non mi importa del costo, ne vale la pena. Per lei ne vale la pena.

Va detto che questo titolo per la rubrica sulle serie tv andrebbe cambiato, ma per adesso ce lo teniamo.

Mia madre si è abbonata a Netflix e ha scoperto le gioie del binge-watching, e io ho scoperto cosa provano gli orfani: non esce più di casa, quando vado a trovarla è sempre sul divano con gli occhi alla tele, e mi risponde sisì. La capisco, le prime stagioni di Lost hanno fatto lo stesso effetto anche a me.
Poi vai avanti e capisci che quella serie ha perso un treno di possibilità gigante, o forse non l’ha mai avuto, forse è nata con l’intento di intrattenere senza spiegare niente, e allora è perfetta così com’è. Per me comunque una storia che apre mille interrogativi e ne chiude dieci è una storia che non funziona, scusate. Invidio mia madre che si sta divertendo tantissimo, ma non vorrei essere nei suoi panni quando dovrà sorbirsi le ultime tre stagioni e i viaggi nel tempo e i personaggi che entrano ed escono dal niente e i flash-fucking-forward e quel finale che se ci penso mi viene ancora voglia di associare divinità cristiane e animali da fattoria.

Bioparco!!

Intanto che aspetto di ritrovare un genitore perduto cerco di convincerla a guardare un’altra perla presente nel catalogo, e non voglio neanche ripetere di cosa sto parlando, mi limito ad alzarmi in piedi e portarmi la mano sul cuore.

Sarà proprio quella serie lì a introdurre il primo argomento di questo post, di cui proprio stamattina ho visto l’episodio finale della terza stagione: Better Call Saul.

Lo stile narrativo, l’ho già detto, non è lo stesso di Breaking Bad, ma non è un difetto. A dire la verità anche la sua serie madre iniziava con un tono a tratti ironico, poi ha cambiato registro nelle ultime stagioni, e ci ha portati al finale con una tensione addosso che se ci penso mi metto lì e me lo riguardo un’altra volta.
Intanto a mia madre ho proposto una visione collettiva settimanale a casa sua, con la scusa che non l’ho mai visto in italiano.

Mentre nelle prime due stagioni la storia andava avanti per conto proprio, con l’introduzione di un personaggio fondamentale di quell’universo narrativo ci siamo agganciati di prepotenza alla storia principale, diventando a tutti gli effetti un prequel. Ci sono i personaggi che abbiamo conosciuto insieme a Walter e Jesse, i luoghi in cui si sono ambientate le loro vicende, assistiamo alla nascita dei loro rapporti e di alcune loro caratteristiche. Mancano solo Walter e Jesse, ma a questo punto non escludo di vederli nella prossima stagione. D’altronde, se abbiamo ritrovato perfino Huell Babineaux..
L’ultimo episodio andato in onda finora è di quelli che ti fanno alzare dal divano dicendo “Waaah!”.

black is the new orange which is the new black

E restando su serie di cui abbiamo già parlato, ma nel frattempo sono andate avanti e ci sarebbe da dire qualcosa, è uscita la seconda stagione di Preacher.

Sai quella serie che sì, carina, ma il fumetto è un’altra cosa e Tulip mi sta pure sulle palle? Quella che non avevo ancora capito se mi piaceva o l’avrei recensita come gli americani recensirono Dresda nel ’45? Ecco, è ricominciata quella serie lì, e da subito si è capito che qualcosa è cambiato.
Intanto i protagonisti non sono più confinati nel buco del culo del Texas, ma se ne vanno in giro e incontrano personaggi (poi vabbè, sono andati a New Orleans, si fermano lì per tutta la seconda stagione, ma è comunque un miglioramento, voglio dire, New Orleans, c’è ambientato un ciclo di storie fighissime in quella città), e i personaggi sono di quelli importanti, che quando sono in scena se la prendono tutta. E poi c’è molto più umorismo macabro, situazioni grottesche, violenza gratuita, insomma, è Preacher. Magari non è fedele alla storia, ma è coerente, e non so voi, ma a me non dispiace affatto vedere una storia nuova, se è coerente con quella che conosco. È come farsi raccontare una nuova avventura dei tuoi personaggi preferiti.
Anche Tulip, alla fine, non l’ammazzerei più, me la sono fatta piacere. Facciadiculo no, è ancora il cosplay ragazzino odioso di Facciadiculo.

per esempio Ganesh non c’è nei fumetti, ed è un peccato

Questo discorso della coerenza lo ritrovo nel’ultima serie di cui volevo parlare, American Gods.
Hai letto il romanzo, ti è piaciuto da morire anche il finale che invece a me no, ma insomma, hai saputo che ne avrebbero fatto una serie e hai cominciato a sperare fortissimo che fosse fedele alla storia che conosci. E invece qua e là cambia. Ci sono personaggi che vengono sviluppati di più, altri che non esistono affatto, succedono cose che non dovrebbero succedere. Tradimento!

Epperò i personaggi che non sono nel libro potrebbero starci bene, se ci fossero sarebbero così, come una canzone che viene esclusa da un disco e la ascolti dieci anni dopo nell’edizione anniversario e diventa la tua canzone preferita.
Ecco, American Gods non diventerà la mia serie di culto, e i personaggi che sono stati aggiunti non sono già adesso i miei preferiti, ma è una storia che funziona bene, non mi fa mai provare quella sensazione di estraneità in cui per esempio The Walking Dead abbonda. Vabbè, ma lì il problema è che la storia è uno sbriciolamento di coglioni e i personaggi vorrei vederli tutti morti, ma non morti che ritornano, morti e basta.
La serie di Amazon (sì, la passano su Amazon, finora l’unica ragione valida per mantenere un abbonamento a Prime), fra le altre belle cose, mi ha riportato in vita diversi attori di cui avevo perso le tracce, prima fra tutti Cloris Leachman (nitrito di cavalli), che a novantun’anni tira fuori una splendida Zorya Vechernyaya. Una chi? Niente, un personaggio di American Gods, stavamo ancora parlando di quello. E poi c’è Crispin Glover, che tutti ricordiamo come il papà sfigato di Michael J. Fox in Ritorno Al Futuro, “ehi tu porco levale le mani di dosso!”, e qui fa il capo dei cattivi; Gillian Anderson, non potevo immaginarla diversamente che così, e adesso me la vedo vestita da David Bowie coi capelli arancioni e chi se lo ricorda più di Scully?

beating up the wrong guy

Per me American Gods è un grosso pollicione alzato, e non ho neanche parlato della colonna sonora, o della bellezza di Emily Browning, o di Kristin Chenoweth, che se per voi è la voce di un personaggio di Bojack Horseman (perché non ho nessuna voglia di vederlo nonostante ne parlino tutti benissimo?) vuol dire che non avete mai visto Pushing Daisies, e mi dispiace tantissimo per le vostre vite incomplete.

Adesso magari mi rimetto a scrivere qualcosa di divertente, eh? Con calma.

Mi ci sono voluti ventisei anni, ma alla fine ci sono riuscito a vedere Eddie Vedder da solo. Che poi, solo, c’erano altre cinquantamila persone, ma almeno non c’erano i Pearl Jam. Che mi piacciono, eh, tre anni fa a San Siro mi sono goduto un concerto straordinario. Che poi, straordinario, sarebbe stato straordinario se non fossi stato io sotto un treno, ma anche così è stato un grande spettacolo (e l’ho raccontato qui).

È che a me è sempre piaciuto lui, per la voce, la presenza, il carattere; non è un caso se le mie canzoni preferite dei Pearl Jam sono tutti pezzi piuttosto lenti; la colonna sonora di Into The Wild sarebbe in cima alla mia classifica se mi prendessi la briga di stilarne una, e resta una delle ragioni per cui ho un ukulele in casa.

Il concerto di ieri è stato uno dei migliori concerti della mia vita di frequentatore di concerti. Tipo uno dei primi tre. Per le ragioni qui sopra, e perché è stato un concerto straordinario. Ma partiamo dall’inizio.

Se invece non volete partire dall’inizio potete saltare subito alla recensione, che inizia qui.

quando ti porti l’ukulele in spiaggia per rimorchiare le pugliesi ma la sabbia scotta e già ti sei vestito di nero almeno un paio di ciabatte le potevi mettere

Partiamo da me, che vado a prendere John Malkovich e facciamo colazione in una pasticceria sotto casa sua, dove mi deposito nello stomaco un krapfen con tanta crema da riempirci il lavandino. Pesa anche come il lavandino, ma è buono e non mi si riproporrà per le due ore e passa del viaggio fino a Firenze, dove arriviamo giusto in orario per il pranzo. Che uno dopo un lavandino alla crema non avrebbe neanche tutta questa fame, ma devi considerare che durante il pomeriggio sarai bloccato dalla folla e ti riuscirà difficile andare a farti un panino al banchetto dei panini toscani. Che poi chissà cosa se lo fanno pagare un panino a un evento del genere.

Ma prima c’è da raccogliere Concertillo, che è salito in treno da Roma e ci aspetta davanti alla stazione, poi da andare in albergo a Fanculonia a lasciare gli zaini, poi da tornare in città e cercare posteggio dalle parti dell’ippodromo, o perlomeno a Firenze. Poi da tornare di corsa in albergo, perché dentro lo zaino ci ho lasciato i biglietti, e una volta trovato un altro posteggio veramente vicino ai cancelli possiamo dedicarci all’approvvigionamento: ci accomodiamo in un vero diner americano dove ci servono degli hamburger enormi, roba che al mio potrei far indossare il casco e legargli la cinghietta all’altezza della fetta di edamer. Ma asciutti come un sacchetto di calce. Anche inzuppandoli di salsa è come mangiare cartongesso. Anche perché la salsa ce la devi grattugiare sopra.

E poi entriamo. Pesanti come donne all’ottavo mese superiamo i controlli, ci facciamo legare al polso il braccialetto di riconoscimento e ci affacciamo sul terreno dell’ippodromo.

L’ippodromo del Visarno è come puoi immaginarti un ippodromo: un prato enorme, lunghissimo, senza un albero o qualunque cosa che proietti ombra. Ci sono stand lungo il perimetro, una piccola tenda al centro dove si sono accampate persone fino a riempire l’ultimo centimetro protetto dal sole, e i banchetti che ti cambiano i tokens.

come un cantiere ma senza l’umarell

Sono la moneta corrente all’interno dell’area. Con 15 euri ricevi cinque pezzetti di plastica quadrati che puoi spezzare a metà: una bottiglietta d’acqua costa mezzo token, un gelato uno, una birra due. C’è anche un barbiere, se uno volesse approfittare dell’attesa per sfoltirsi la pelliccia dovrebbe sborsare lo stesso numero di gettoni che ti servivano negli anni 70 per telefonare in America da una cabina.

Il pubblico è diviso in diversi settori, ci sono i Paganti che stanno nel grosso del parterre, i Più Paganti che hanno accesso a un’area davanti al palco capace di contenere qualche migliaio di persone, gli Strapaganti che godono del privilegio di occupare due piccoli recinti davanti al palco, della capacità di boh, due-trecento persone ciascuno, e i Non Oso Immaginare Quanto Paganti che si guardano tutto il concerto sul palco, insieme ai tecnici. Quest’ultima soluzione mi sembra un pacco, una volta ho assistito a un concerto di Patti Smith da una posizione analoga, e va bene, stavo bello largo e vedevo tutto quello che succedeva dietro le quinte, ma l’energia che trasmette un concerto va a finire tutta davanti, così è come in televisione.

Noi siamo fra i Più Paganti, andiamo a collocarci a ridosso del piccolo recinto di destra e aspettiamo che cali il sole sperando di non calcificarci.

Ci sono gli addetti della sicurezza che smazzano bottigliette d’acqua caldissime e ci innaffiano con l’idrante durante le ore più calde, e un tizio sul megaschermo ci ricorda a intervalli regolari che ci ruberà solo pochissimo tempo per informarci sulle misure di sicurezza, le stesse che il tg4 raccomanda all’inizio di ogni estate: bere tanta acqua e non svenire. Ci ricorda che in caso di incidenti occorre evitare di seminare panico e non bisogna muoversi in modo disordinato.

Ci si domanda come si fa a muoversi in modo disordinato, qualcuno prova a muovere in modo disordinato un braccio per vedere che succede e lo infila nell’occhio del vicino, ma non scoppia nessuna rissa grazie ai preziosi consigli del tizio nel video. E perché fa troppo caldo anche solo per pensare.

Alle cinque e mezza salgono sul palco gli Altre Di B, un gruppo di Bologna che canta in inglese. Il cantante somiglia a quello dei Thegiornalisti, solo più basso. Sono belli vivaci, contenti di esibirsi davanti a una marea di persone e del tutto a proprio agio. Mi ricordano un po’ gli Arctic Monkeys, oppure li confondo con uno di quei gruppi che ascolto ogni tanto senza guardare chi sono. Sono bravi, comunque, molto meglio di quelli che verranno dopo. E sono venuti a suonare a Genova ai Giardini Luzzati, ma l’ho scoperto solo adesso cercando un video su youtube.

gli Altre Di B spaccano

“Quelli che verranno dopo” dovevano essere i Cranberries, ma la cantante ha problemi di salute e hanno annullato la tournèe. Sale sul palco una tizia avvolta in una specie di mantello nero, indossa un top nero e dei pantaloni aderenti dello stesso colore. È magrissima, sennò avrei pensato subito a Batman. Invece è Eva Pevarello, che mi dicono essere venuta fuori da X Factor. Non il gruppo di mutanti che lavorano per il governo americano, ma la trasmissione televisiva che spinge talenti musicali precotti verso una fama di un paio di mesi prima di lasciarli liberi di esibirsi alla Sagra della Provola. Fra un anno a Coachella e fra due anni a fare il benzinaio, dicevano quelli là.

È timidissima, propone tre o quattro pezzi che non ricorderò, e se ne va a difendere Gotham dal crimine, ignorata da un pubblico che sembra avere di meglio da fare. È simpatica, dai, ma con me le ragazze magrissime che si chiamano Eva partono avvantaggiate.

e comunque ho visto Eve migliori

Poi guadagna il palco uno che sembra un incrocio fra un salumiere e un Teletubbie, guarda se non somiglia a Dj Ringo di Virgin Radio. Cazzo ma è lui! È Dj Ringo! Ringaccio!

Io lo adoro, Ringaccio, perché è uno di noi! È il tizio che incontri la mattina al bar mentre cerchi di leggere il giornale e ti blatera addosso un luogo comune a caso sul governo che ruba. È l’altro tizio che al pub vuole presentarti un suo amico che sa fare Balliamo Sul Mondo coi rutti. È quello che fa la battuta a sfondo sessuale invece di quella divertente. Che ti manda le donne nude su whatsapp. Che beve la Guinness. Che ascolta il mitico Blasco. Che prima o poi farà la mitica Route 66 su una mitica Arlei Devinso. È uno di noi, quello che di solito cerchi di evitare.

Lui e un altro dj di cui non ricordo il nome ci fanno ascoltare diverse pietre miliari del rock, ma solo una ventina di secondi ciascuna, sennò Spotify gli chiede di pagare l’abbonamento, e per ognuna di esse ci regala un commento che se stava zitto era uguale. Ogni tanto punta un cannone di plastica verso il pubblico e ci spara addosso delle magliette. Se qualcuno se lo stesse chiedendo sì, prima se lo mette in mezzo alle gambe e finge che sia il suo grosso uccello, poi mima di ficcarlo nel culo di un tecnico. Haha.

Si congeda ricordandoci che siamo più forti di quegli stronzi che cercano di farci paura, e mostra il dito medio al suo nemico immaginario. Mi domando se avrebbe accettato di salire sul palco in un paese dove il terrorismo è una minaccia reale e non qualcosa che vedi in televisione, ma sono argomenti di cui non mi sento in grado di parlare, preferisco raccontare le mie cazzate.

Mentre va via gli urlo “Ringo, tua mamma ascolta 105!”, ed è una soddisfazione che volevo togliermi da anni.

Samuel ce l’ha ‘sta fissa delle mani

Il primo artista che non devo cercare su google è Samuel, il cantante dei Subsonica recentemente lanciatosi in un’avventura solista. Si presenta disinvolto come un vero animale da palco, canta una canzone e poi ci saluta: “Mi dispiace tantissimo per i Cranberries”, dice ridacchiando, “Avevo anche comprato il biglietto, ho dovuto rivendermelo. Vorrà dire che vi farò sentire il mio nuovo disco, anche a quelli che avrebbero preferito non ascoltarlo”. Ed è di parola, ce lo fa sentire tutto. Tutto. Non finisce più, dopo quattro o cinque canzoni la gente comincia a sedersi, tira fuori le carte, dei libri, parte un esodo verso il bar. Lui prova a coinvolgere il pubblico, urla “tutte le mani!”, ci mostra come batterle, ma lo seguono in tre. Finisce e se ne va raccogliendo gli stessi applausi di Eva Pevarello. Finora la gara dell’applausometro l’hanno vinta i tizi sconosciuti di Bologna, di lì in poi è stato un calo. Non è il caldo, è la pochezza.

Ci vuole Glen Hansard a cambiare la situazione.

Per chi non lo conoscesse, e io ero fra questi fino a sabato mattina, si tratta di un cantautore irlandese, ha fatto diverse cose interessanti, tipo vincere un oscar per la miglior canzone di un film e recitare in The Commitments, quel film straordinario di tanti anni fa che se non l’avete visto vergognatevi.

Si presenta sul palco con un paio di polacchine invernali e una chitarra tutta scavata dalle pennate del plettro. Suona canzoni di tre accordi, un ritornello semplice, e ottiene centomila mani alzate. Samuel è nel recinto supervip a mangiarsi il cappello come Rockerduck.

secondo me le buca apposta per scena

Quando gli cambiano la chitarra gliene danno una che devono averci fatto il nido i topi, ha due grossi buchi appena sotto il foro centrale, e ci vuole poco a capire come sia successo: l’uomo dalla folta barba comincia a picchiarci sopra a una velocità e una potenza che io così rapido so solo fare le pulizie di casa e infatti non viene mai nessuno a trovarmi. Il pubblico è suo, può fare di noi quello che vuole. Quando ci saluta qualcuno gli urla “bis!”, sebbene dopo di lui sia finalmente il momento di Eddie Vedder.

E finalmente..

Il palco sembra il negozio di un rigattiere, ci sono strumenti dappertutto, valigie aperte, un vecchio organo in legno, un registratore a bobina e una scatola piena di adesivi sul pavimento che non si capisce a cosa serva.

Alle spalle della bottega una fila di steli reggono delle lampadine che trasmettono un calore da soffitta, e sullo sfondo un cielo stellato. È già bello così.

foto a fuoco non ne ho trovate

Il nostro eroe arriva, fa un inchino goffo e ci saluta in italiano, leggendo da un foglio. Dice che è la prima volta che viene nel nostro paese da solo, e anche la prima che suona a un evento così grande. “Queste cose succedono solo in Italia”, dice. Ha un legame particolare con l’Italia da quando, durante la sua prima tournèe, ha conosciuto sua moglie a Milano, e non manca di ricordarcelo anche stavolta.

Ho inserito il link ai video che ho trovato su youtube per ogni canzone, almeno dov’erano disponibili. Non ringraziatemi tutti insieme.

Attacca Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town e John Malkovich inizia a darsi sberle in faccia dall’entusiasmo. Poi fa Wishlist e Immortality, sempre del suo gruppo, e il mio compagno di concerto non riesce a trattenere la gioia. Ascoltillo è più tranquillo, lui i Pearl Jam li conosce poco, ma si vede che sta attento.

La prima cover è di Cat Stevens, Trouble, a cui attacca una melodia che non so gli altri, ma io ho iniziato a ululare: Brain Damage, dei Pink Floyd!

Prima di posare la chitarra elettrica fa Sometimes, poi si alza e tira fuori una bottiglia di rosso. Ci ricorda che quella sera è San Giovanni Battista e brinda a lui e a tutti quelli presenti, uno per uno. Poi dice vaffanculo in italiano, prende l’acustica e inizia I Am Mine, dove ceffa subito un accordo e dà la colpa al bere.

Posa la chitarra e passa all’ukulele. Brividi, che Ukulele Songs è un disco pesantuccio.

Tranne Can’t Keep e Sleeping by Myself, e per fortuna canta quelle.

Le canzoni vengono via veloci, ne ha già presentate una decina e ancora non ha toccato i miei mostri sacri. Sono già esaltato così, mi chiedo cosa succederà quando arriveranno.

Non devo aspettare molto, mi spara quattro canzoni da Into The Wild, Far Behind, Setting Forth, Guaranteed e Rise. Su Guaranteed mi sono bagnato le mutande.

“Ehi, questa la so fare anch’io!”, mi dice Chitarrillo, che riconosce prima di me The Needle and the Damage Done di Neil Young. Nessuno dei due capisce che quell’abbozzo di melodia che segue è Millworker, un pezzo di James Taylor che di solito suona per intero.

Di Unthought Known non racconto niente.

Poi fa un collegamento fra San Giovanni e i Soundgarden, e s’incupisce, e ci dice delle cose tristi, e parla di Chris Cornell e poi io una versione così triste di Black, madonna, quell’altra volta a Milano ho pianto come un bambino perché mi ero appena lasciato con una, ma non è che posso piangere tutte le volte, dai. Facci qualcosa di forte. Ochei, mi risponde dal palco, e spara Lukin, e Porch.

Poi va all’organo. Non era coreografico l’organo, ci si siede davanti dandoci le spalle e spera di non fare casino. Legge il testo su due tablet appoggiati uno sopra l’altro in un equilibrio che vabbè, e ogni tanto si gira verso il pubblico con la faccia di quello che non credeva che ci sarebbe riuscito.

La canzone è Comfortably Numb, e no, non c’è riuscito, se n’è dimenticato un pezzo, si è perso a metà, ha improvvisato ed è arrivato in fondo con qualche difficoltà. E comunque Comfortably Numb all’organo non si può sentire.

Presenta Imagine, che non ha bisogno di presentazioni, e succede una cosa che se avevi la sensazione di trovarti a una funzione religiosa questo è il momento in cui ti inginocchi e rinneghi il tuo dio di prima: da sopra il palco cade una stella cadente. Alla fine della canzone più abusata del mondo per parlare di amore universale cade una grossa stella cadente. A voler essere cinici era una cosa che si poteva organizzare senza grossi problemi, spari qualcosa da dietro il palco, nel casino chi vuoi che la noti la differenza, ma onestamente non so se sarebbe così facile, e poi me ne frego, era una stella cadente, era la prova che Eddie Vedder è Dio e l’anno prossimo l’otto per mille ce lo dobbiamo spendere in cofanetti dei Pearl Jam.

Better Man è sempre mioddio Better Man, Last Kiss è una canzone divertente di Wayne Cochran, di Untitled e MFC non ho trovato nessun video.

Fine.

No, scherzo, a questo punto torna sul palco Glen Hansard e cantano insieme il pezzo che ha vinto l’oscar di cui parlavo prima, Falling Slowly. Sullo schermo inquadrano una ragazza che piange fra il pubblico. Lei se ne accorge e la cosa la fa piangere anche di più, che oltre a sentirsi una merda per quella canzone si sta sentendo una merda in mondovisione.

Ci avviamo verso la fine del concerto, iniziano a suonare un altro pezzo di Hansard, Song of Good Hope, e il ciucchettone di Seattle viene a sedersi a bordo palco. Canta da lì per un po’, poi non gli basta e allora scende. Percorre tutto il corridoio fra palco e transenne accompagnato da due giganti della security, stringe mani alle prime file, e tutti và che culo quelli lì! Poi entra nel recinto supervip, quello che sta davanti a me, e tutti oh! Cazzo! Poi si arrampica su una transenna e me lo ritrovo a boh, tre metri, quattro, e in mezzo a tutte le mani tese a implorare una benedizione c’è anche la mia, e l’immagine di qualche libro di catechismo coi lebbrosi che si sporgono verso un europeo biondo e un po’ hippy mi attraversa la mente come la stella di prima. Me ne sbatto le balle, toccami la mano Eddie! Rendimi degno!

Lì! Era lì! (grazie ad Andrea per la foto)

Siamo così scossi fra tutti che neanche ci rendiamo conto che nel frattempo è risalito sul palco e ha iniziato a cantare l’altra canzone che aspettavo da tipo sempre, Society.

Finale con Smile, dei Pearl Jam, e l’immancabile Rockin’ in the Free World.

Escono, rientrano, fanno Hard Sun tutti insieme, compreso il gruppetto che prima accompagnava Glen Hansard.

Amen, scambiamoci un segno di pace. E io davvero, un concerto così intenso e intimo, nonostante fossimo un ippodromo di gente, non lo credevo possibile.
Poi vabbè, la suggestione e l’emozione e la stanchezza, lo so anch’io che i paragoni con la religione sono esagerati, grazie tante.
E fa tanto anche la fame, sulla via del ritorno non riusciamo a trovare un porchettaro aperto, un kebabbaro, un self 24h, niente di niente, il deserto.
Ci mangiamo i pani e i pesci che ci hanno moltiplicato al concerto e andiamo a dormire.

Attenzione, questo post contiene degli spoiler grossi così!

 

Se La La Land fosse ambientato nel mondo della scrittura il protagonista maschile, Sebastian, sarebbe un blogger pedante che scrive recensioni e caga il cazzo perché non si fanno più i film di una volta, e questa sarebbe una delle sue tipiche recensioni.
Lo leggerebbero in quattro per il suo rifiuto di uniformarsi a una scrittura vendibile, ma lui se ne sbatterebbe le balle perché è anche un narcisista e pensa che gli altri siano solo un mucchio di stronzi incompetenti. Un giorno diventerà uno scrittore famoso e gliela farà vedere a tutti.
E per tutto il film avrebbe problemi a trovare un parrucchiere decente che gli tolga quel cazzo di pendalocco dalla faccia, ma cos’è, ti sei appiccicato alla fronte la bustina usata di tè?
Al cinema invece vedrete una storia in cui lui fa il musicista e tira a campare suonando quello che gli pare a lui invece dei pezzi richiesti, e infatti campa malissimo, tanto che sua sorella immaginaria che compare in una scena e poi basta lo va a trovare preoccupata per la sua salute e lui le rompe il cazzo perché si è seduta su uno sgabello dove una volta si era seduto blah blah blah blah.

ma come ce le hanno portate tutte quelle macchine sullo svincolo? guidando, credo

Lei, Mia, è la classica bellezza bionda che però quando la osservi meglio ti accorgi che non è per niente classica e cerchi di codificare questa bellezza, e alla fine l’hai guardata così a lungo che te ne innamori. Nel film originale l’hanno tinta di rosso per evitare questa chiave di lettura, ma se avete visto Birdman sapete a cosa mi riferisco.
Sta cercando di diventare un’attrice, e nel frattempo fa la cameriera. Una sera, di ritorno da una festa dove l’hanno trascinata le sue tre coinquiline immaginarie che compaiono solo in quella scena, si fa attirare dalla musica nel locale dove lui sta suonando un pezzo particolarmente ispirato che le apre il cuore. Glielo va a dire, ma lui quella sera ha le palle girate più del solito e le risponde “sì vabbè, e sticazzi?”

Si incontrano di persona a un’altra festa, a Los Angeles funziona così, si passa da una festa all’altra aspettando il terremoto che li ucciderà tutti: lui è vestito come uno dei Devo e suona in un gruppetto di cover. Lei gli chiede una canzone e questo si offende, perché per un musicista serio è offensivo suonare quella roba lì. La volta prima facevi canzoncine di natale, non ti va mai bene un cazzo, vai a fare il benzinaio e piantala di menarla.
Non glielo dice, trova una scusa per farsi accompagnare alla macchina e parte un balletto di tip tap che secondo me è il momento migliore del film, anche perché si capisce che nonostante le dichiarazioni di con te neanche morto, e oltretutto stai pure con un altro, lui se la filerebbe parecchio. Ciononostante la lascia salire in macchina e andarsene senza averle chiesto il numero di telefono. C’è più realismo in questa scena che in tutto Rossellini.

fanculo il teatro, voglio imparare il tip tap!

Poi vabbè, si mettono insieme, sennò il film durava un quarto d’ora: lei nel mezzo di una cena a coppie molla il fidanzato immaginario che compare solo in quella scena e corre dall’altro, e inizia la parte di film a tema madonna quanto siamo felici che perfezione ma chi l’ha mai vista una coppia felice come noi uh quanto ci amiamo. Dieci minuti di loro che camminano per mano ovunque, si vede che gli hanno fregato la macchina, ma chi se ne frega della macchina quando c’è l’amore.

Vivono a casa di lui, che ci piove dentro, ma sono felici. Lei lo convince ad accettare un lavoro nel gruppo di John Legend, che qui fa il traditore del Sacro Ideale Del Jazz, suona una specie di fusion tipo Galliano, Buckshot LeFonque, quella roba da aperitivi in spiaggia, lui accetta ma caga il cazzo. Meno, perché guadagna un botto, ma un po’ lo caga.

E poi litigano, e lei se ne va. Lui però va a cercarla perché la ama, la convince a fare l’ennesimo provino, lei lo passa, diventa famosa, e va a Parigi. La ritroviamo cinque anni dopo con un marito elegante, una bella casa e la macchinona. Una sera escono e capitano per caso in un locale, attratti dalla musica. È il locale di Sebastian, ovviamente, se fosse stato un Hard Rock Cafè dove si stava esibendo una cover band degli Aerosmith si sarebbero divertiti di più, ma il film ne avrebbe risentito. Invece al piano c’è proprio lui, Sebastian, che vede Mia fra il pubblico. Hanno per tutto il film questa cosa di trovarsi subito in mezzo a una folla al buio. Io quando sono su un palco e viene a vedermi qualche amico non me ne accorgo neanche se sta in prima fila. Ma loro hanno l’amore che li guida, eh già.
Si vedono, lui attacca un pippone lentissimo che lei riconosce e le fa fare tutto un viaggio mentale col magone, alla fine del quale speri che si rimettano insieme, e invece lei dice al marito “vabbè, andiamo?”.

mi fai quella della pasta barilla?

E qui succede una cosa di fantascienza che non ti aspetti, perché mentre lei esce si guardano un momento, e lui scioglie quest’espressione corrucciata per farle un sorriso e un cenno che sembra dire va bene così, amici come prima.
E no, non può andare così.

Nella mia versione lui la blocca e le chiede chi è quello stronzo.

– E tutte le promesse che ci siamo fatti quando sei partita per Parigi? Io ti ho aspettato!
– Tu non ci sei voluto venire a Parigi, cosa dovevo fare? Dovevo chiudermi in casa a fare la monaca di clausura?
– Ma ti aspettavi che avrei mollato il lavoro per seguirti, scusa?
– Avresti mollato il lavoro che non ti piaceva per inseguire un sogno! Quello mi aspettavo!
– Quel lavoro che non mi piaceva dava da mangiare a tutti e due, mi pare. Perché tu hai lasciato il posto da cameriera per scrivere una cazzo di opera teatrale che hanno visto in tre, e intanto abitavi a casa mia, Mia. Se ora sei un’attrice famosa è anche grazie a quel lavoro là, ingrata di merda!
– E perché tu non hai fatto la stessa cosa? Quand’è stato il tuo turno di buttarti e affidarti a me non l’hai fatto. Avresti potuto suonare nei bistrot, saremmo rimasti insieme. Se ci avessi tenuto davvero a me l’avresti fatto!
– Ma ti senti? Potrei dirti la stessa cosa, te ne rendi conto? Anch’io ti ho proposto di seguirmi in tournèe, sarebbe stato più facile, dopotutto il tuo lavoro era stare a casa a scrivere. Cosa conta se la casa è a New York o a Frittole? Ma non hai voluto, avevi le tue cose lì, dicevi. L’ho accettato, ho rispettato il tuo spazio. Ma quando tu hai dovuto accettare il mio no, niente da fare. La signora non accetta compromessi. La signora non aspetta. La signora se ne va e sposa lo stronzo con la bella macchina, e tanti saluti alle promesse.
– Ma quali promesse? Quali? Le hai lette o no le didascalie del film? Primavera, estate, stop! Siamo stati insieme sei mesi! Ti pare che mi impegno per tutta la vita con uno con cui sto da sei mesi? Non abbiamo neanche fatto sesso, nel film non si vede mai!
– E allora? Non si vede neanche che lo fai con coso qui, l’onorevole di stocazzo.
– Ma abbiamo una figlia! Come pensi che l’abbiamo avuta, coi punti del detersivo?
– Hai detto che mi amavi, cristo!
– Ecco, tu invece non l’hai detto mai.
– Ma mica la scrivo io la sceneggiatura! E poi cosa vuol dire? È evidente che sono uno di quelli che non lo dicono ma lo dimostrano. Non te l’ho dimostrato?
– No. Non sei neanche venuto alla prima del mio spettacolo.
– Stavo lavorando!
– Era più importante il lavoro che odiavi della donna che amavi? Hai fatto una scelta, mi hai costretta a fare altrettanto.
– Eh no, tu hai fatto quella scelta prima di me!

Potrebbe andare avanti all’infinito, e nessuno la spunterebbe.
Il fatto è che La La Land, questa deliziosa storia d’amore e di ambizione, sotto le canzoni orecchiabili e i colori sgargianti ci mostra due egoisti incapaci di riconoscere le necessità di un’altra persona e venirle incontro.
Quello che sembra suggerirci la storia, senza esprimere giudizi a riguardo, è che non importa quanto ti senti felice, la vera gioia sta nel raggiungere il successo. Quando i due si incontrano, alla fine, lo hanno raggiunto entrambi. Rivedersi provoca qualche sguardo incupito, due lacrime, ma nessuno dei due mostra la minima incertezza, è andata così, stammi bene, adesso vi suono un’altra canzone.

Lo so, non dite niente. Va bene così.

È la metafora del sogno americano: prima viene la carriera, poi casomai la famiglia. E poi, quasi sempre, l’analista.

“Il teatrodanza non è un genere del balletto né una corrente vera e propria, ma si è contraddistinto come un fenomeno alquanto complesso della coreografia del Novecento affermatosi nella Germania occidentale ai principi degli anni settanta, specie ad opera dei cinque antesignani del Tanz Theater tedesco: Pina Bausch (la più nota esponente del gruppo), Reinhild Hoffmann, Susanne Linke, Gerhard Bohner e Hans Kresnik.

Con il termine Tanz Theater si intende principalmente una diramazione nell’ambito della danza moderna dell’espressionismo tedesco degli anni trenta, la cui poetica risale alle teorie di Rudolf Laban e alle danze della sua allieva Mary Wigman.

In esso vengono innestati elementi propri della danza non accademica d’inizio secolo, ovvero della danza moderna, della danza libera e talvolta del mimo e del cabaret. Il riferimento al teatro si rivolge perciò solo in apparenza alla “dimensione teatrale” della danzache è propria del balletto romantico. Si tratta, al contrario, del recupero di una dimensione primordiale del rapporto tra gesto e azione e tra gesto e parola. Il teatrodanza, perciò, è una forma di danza spesso allegorica, che fa uso di simboli, fortemente animata dalla fusione tra teatro e arti figurative, e dove l’elemento narrativo è trattato in modo particolare, antinaturalistico.

Il fenomeno si è subito caratterizzato come un movimento estremamente composito e libero sul piano linguistico, oltre che per un certo intrinseco eclettismo, diffondendosi sia in Europa che in America.

Tra gli altri maestri riconducibili alla poetica del teatrodanza, i nomi di particolare rilievo sono Alwin Nikolais negli Stati Uniti, Carolyn Carlson in Francia, Alain Platel in Belgio, Lindsay Kemp in Inghilterra e Constanza Macras in Germania.”
(Wikipedia)

“Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi e io sto buttato in un angolo, no? Ah no, se si balla non vengo.”
(Nanni Moretti, Ecce Bombo)

cristoni nudi che ballano

Il teatrodanza non mi piace. Uno spettacolo in cui il significato di quello che stai vedendo va decrittato dai gesti degli attori, dal modo in cui interagiscono, mi spaventa, mi mette di fronte alla mia incapacità di comprensione, mi fa sentire limitato. Sono uno che di fronte a testi più complessi di “Otello crede di avere le corna e uccide Desdemona” va in crisi, e anche così mi faccio un sacco di domande su Jago.
Devo dare una forma alle cose, spesso una mia forma personale che non è proprio quella vera, ma sufficiente a sbloccarmi da quella catatonia che mi lascia come il pesce rosso nella boccia. Poi per capire davvero c’è sempre tempo, intanto andiamo avanti.

Ieri sera mi sono lasciato convincere a vedere In Spite Of Wishing And Wanting, uno spettacolo di Wim Vandekeybus, regista/attore/coreografo/ballerino, che al suo debutto nel 1999 ebbe un grande successo, e oggi viene riproposto con altri attori, un po’ come fa Jesus Christ Superstar, per dire.

Se devo spiegare di cosa parla lo spettacolo non scrivo più niente, perciò mi affido alla recensione del Teatro della Tosse di Genova, che lo ospita in questi giorni.

Nel  1999 “In Spite of wishing and wanting” scatenò enorme scalpore.
Per la prima volta, Vandekeybus aveva creato uno spettacolo in cui non si parlava dell’attrazione tra uomini e donne ma della pulsione del desiderio in un modo di soli uomini –impetuoso, selvaggio, ingenuo e giocoso.

Filmati surreali  e sequenze danzate, accompagnate dalle note sensuali della musica di David Byrne, scorrono dando vita a monologhi sulla paura, sul desiderio di sicurezza e sulla magia del sonno.

Nel 2016 un cast tutto nuovo ha raccolto la sfida di riproporre questo grande successo internazionale.

La paura di essere posseduto da qualcosa o da qualcuno ha anche un’altra faccia: il desiderio di cambiare qualcosa o diventare qualcun altro.  La paura e il desiderio sono due lati della stessa medaglia.
Questo desiderio di trasformazione è il tema centrale di “In Spite of wishing and wanting”.

Due racconti, uno di Julio Cortazar e uno di Paul Bowles, hanno tormentato Wim Vandekeybus  per un po’ di tempo  e lo hanno ispirato mentre girava il cortometraggio che fa parte dello spettacolo. Il centro di entrambi è il flusso che muove ciò che è ci  familiare e ciò’ che ci è estraneo, un movimento che non può trovare pace.

Capito?
Allora me lo potete spiegare?
Perché quello che ho visto io è proprio un’altra cosa, e quando si sono accese le luci e tutti sono saltati in piedi ad applaudire e gridare bravih! ho avuto la netta sensazione di essermi perso qualcosa. Mi sono sentito limitato, ignorante, povero di spirito e di intuito, ho avuto di fronte tutte le mie maestre, da quella delle elementari a quella che ha cercato di spiegarmi la vita, e tutte mi bacchettavano le mani.

Cioè, bello, eh? Attori bellissimi, fisici scolpiti e culi di marmo che ti fanno mettere in discussione la tua eterosessualità, capaci di gesti atletici pazzeschi. Li vedi compiere con naturalezza movimenti che solo ad accennarli finiresti in ortopedia, e quando li fanno tutti insieme capisci la forza di questa forma d’arte: la danza è bellissima, forse adesso l’ho capito.
C’è un momento in cui sono sdraiati sul palco in mezzo alle piume, le braccia spalancate, tengono in mano dei fogli e li sbattono come se fossero ali. Poi si alzano in volo, per davvero. Cioè, sono salti, se li guardi uno per uno li vedi accucciarsi e darsi la spinta, ma la visione d’insieme è quella di uomini uccello che si librano in mezzo al palco, ed è grandioso.

roba da restare così, con la bocca spalancata e gli occhi fuori, e non perché sei la tizia allupata di fianco a me

E quando si spengono tutte le luci e questi cominciano a fare una cosa con delle lampade, e vedi questi fasci di carne poco illuminati che si muovono per il palco, ti viene in mente un presepe molto poco cristiano.
E quelle musiche di David Byrne sono proprio il genere di roba che mi va di ascoltare in questi giorni, e a dirla tutta anche i due cortometraggi che interrompono lo spettacolo sono interessanti e girati molto bene.

È che non ci ho capito niente. Se prendo le singole scene e le inserisco in un contesto diverso, come soluzioni narrative di una storia, funzionano alla grande. Voglio dire, se andassi a vedere uno spettacolo in cui ad un certo punto, per raccontare uno sviluppo della storia, gli attori inscenano uno dei balletti che ho visto ieri, uscirei dal teatro convinto di avere assistito a qualcosa di grandioso.
Così non riesco a dargli una logica, ho visto un sacco di cose molto belle in una lingua che non conosco. Ci sarà stato un nesso fra la storia del venditore di parole del cortometraggio e gli attori che fanno i cavalli, il monologo sui sogni e quello che cerca Annamaria fra il pubblico, solo che non l’ho capito.
Una sessione di ginnastica ritmica a squadre inframezzata da una recita in cinese mi avrebbe trasmesso le stesse sensazioni.

Il resto del pubblico evidentemente era più ricettivo di me, perché sembrava entusiasta. Io e i miei quattro compagni di serata eravamo perplessi. Le donne più allupate che perplesse, ma abbastanza perplesse pure loro.
Ho incontrato un’amica all’uscita, una che ha fatto di questo tipo di spettacoli la sua ragione di vita, e le ho chiesto cosa ne pensava.
“Mi ha fatto cagare”, ha risposto. “Se usi il linguaggio per esprimere un concetto, e addirittura giri un film, questo concetto mi deve arrivare, in qualche modo. Se non mi arriva niente o sono io stupida o hai prodotto una roba pretenziosa che non sta dicendo niente. È piaciuto solo ai ballerini e alle donne in fregola.”
“Fregola è un’espressione antiquata che ti si addice.”
“Mi stai dando della vecchia?”

Adesso mi trovo in quella posizione difficilissima in cui vorrei vedere un altro spettacolo simile per capire se sono io che non apprezzo il genere o era proprio lui che non si lasciava decifrare, col rischio di ritrovarmi qui a scrivere altri mugugni, e aver perso una serata in cui potevo starmene a casa a mangiare biscotti al cioccolato davanti a una serie nuova di cui peraltro dovrò parlarvi, prima o poi.

La prima volta che ho visto i Cure dal vivo è stato nel 1992, al Forum di Assago. Promuovevano il loro album Wish, che per loro era già il nono, ma per me era quello che me li aveva fatti conoscere, e sarà per quello che da allora è rimasto il mio preferito.

Eravamo arrivati molto presto fuori dal palasport per accaparrarci la prima fila, e avevo potuto conoscere un certo tipo di pubblico che da allora ho sempre incontrato solo ai concerti di questo gruppo: i dark.

Il termine corretto sarebbe goth, ma in Italia qualcuno ha iniziato a chiamarli così e il nome è rimasto. Erano i seguaci del post-punk, ascoltavano Cure, Siouxsie and the Banshees, Joy Division, e si divertivano molto più di quel che davano a vedere i loro abiti neri traboccanti di croci.

Negli anni 80, nel piccolo paese dove abito, se a un giovane anticonformista fosse venuto in mente di vestirsi di nero, cotonarsi i capelli e truccarsi la faccia col cerone bianco, avrebbe avuto una vita breve e difficile; Genova era più grande, ma altrettanto chiusa in quanto a mode. Per me questi bizzarri individui esistevano solo nelle pagine delle riviste per ragazzini che scroccavo alle mie compagne di scuola a ricreazione, e per questo ne rimasi affascinato quando me ne trovai davanti un esercito, nel piazzale di Assago.

Affascinato in senso negativo, chiaro: quei pagliacci erano i miei diretti avversari nella lotta alla prima fila, e i loro bracciali borchiati costituivano una seria minaccia in un ambiente ristretto. Mi domandai se non fosse troppo tardi per convertirmi alla musica paninara: strusciarsi contro una folla di piumini imbottiti era senza dubbio più confortevole.

Dentro il forum fu la morte. Ho assistito a diversi concerti in quell’edificio, ma solo a quelli dei Cure ho preso così tante spinte, sono stato trafitto da tante gomitate e ho avuto la maglietta impastata di lacca e rossetto peggio che in un postribolo o nel camerino del circo.

Sabato sono stato a Casalecchio di Reno, al mio quinto concerto dei Cure, ventiquattro anni dopo quello di Milano. E ad aspettare fuori dai cancelli, seduti per terra nelle loro palandrane nere, col cerone e il rossetto e i capelli cotonati, c’erano gli stessi individui di allora. Non la stessa categoria, proprio le stesse persone: quarantenni vestiti di nero, appena più sobri di allora. Cinghie e borchie comparivano solo ogni tanto, ma agli anfibi lucidati non aveva rinunciato nessuno. Un sacco di donne pallidissime con décolletés generosi, qualche nostalgico con la maglietta dei Clash, a ricordare che tanto veniamo tutti da lì.

l'irriducibile

l’irriducibile

E i maledetti bagarini. Sono ovunque, cercano di comprarti il biglietto a metà prezzo per rivenderselo al triplo, hanno una dotazione di tagliandi che ti domandi come abbiano fatto, che per ottenere il tuo hai avuto a disposizione una manciata di secondi prima che andassero esauriti. Una volta era facile, andavi in uno dei pochi punti vendita disponibili, compravi cinquanta biglietti e via, ma adesso con la vendita telematica sei soggetto a una limitazione, il sito non te ne vende più di due o tre. Come fanno questi ad averne sempre? E già che ci siamo, come fanno a vendere quelle sciarpette sintetiche orrende con la stampa del gruppo e la data del concerto dietro? Chi gliele può comprare, a parte un cieco ubriaco minorenne amante del kitsch e con un sacco di soldi da buttare?

Insieme a me, ad affrontare le tre ore e passa di attesa prima dell’apertura, il mio fedele compagno di avventure, Concertillo. Se siamo lì è merito suo, io non ce l’ho il tempo e la costanza di piantonare ticketone in attesa che inizi la prevendita con un anno di anticipo. Lui è il tipo che in una città straniera entra in ogni negozio di dischi e spulcia ogni scaffale per trovare il quarantacinque giri di un gruppo che neanche gli piace tantissimo, ma meglio che niente; per uno così comprare un biglietto online è solo un giochetto. Se Costanza fosse una bambina, Concertillo sarebbe il suo papà.

“Certo che arrivare alle tre e trovarci praticamente davanti..”
“Eh, invecchiamo tutti. Magari dentro è la volta che non ci massacrano, che ne sai.”

“No, ma la prima fila non è neanche più così importante, oramai uno preferisce stare dietro ed evitare la ressa”

“Vado in bagno, tienimi il posto”

“Dammi i biglietti, che magari aprono mentre non ci sei”

“Scusa, ma non mi aspetti? E io come faccio a ritrovarti poi?”

“Cazzi tuoi, io appena aprono mi fiondo dentro”

E infatti appena hanno aperto ci siamo fatti la nostra solita corsa fino alla transenna, dove altri quarantenni dallo scatto veloce si erano già presi i posti migliori.

Alla fine abbiamo ottenuto una quinta fila più che dignitosa, e la soddisfazione di avere ancora quella volata sul parterre che fa la differenza.

Consiglio: Quando devi correre per il posto migliore le scarpe da ginnastica rendono più degli anfibi.

Il gruppo che accompagna i Cure nel loro tour si chiama Twilight Sad, è scozzese e gode di una certa fama nell’ambiente post-punk, grazie a quattro album di discreto successo, ottime recensioni dalla stampa e un notevole 55esimo posto nella classifica di vendita britannica.

somiglia un po' a coso

somiglia un po’ a coso

Suonano quattro o cinque canzoni, non sono sicuro del numero esatto perché crollo addormentato a metà della prima. Però sono bravi, il cantante si esibisce volentieri nel numero dell’epilettico, e fra una canzone e l’altra alterna spasmi e gesti nervosi a baci verso il pubblico. Forse è il suo modo di omaggiare Ian Curtis, al quale cerca di somigliare nell’aspetto e nello stile musicale.

Smettono proprio mentre sto per tirargli una rastrelliera da cucina.

E poi inizia il concerto vero.

Robert Smith ormai non ha più una forma, un sesso. Si presenta in scena con la solita cofana sparata e il rossetto. Sotto una camiciona nera indossa una serie di collane vistose. È una grossa signora anziana dal seno cadente, la voce sommessa e le mani gonfie. Gesticola nel suo solito modo femmineo, fa venire voglia di chiedergli un biscotto. Qualcuno dal pubblico gli urla che la vestaglia poteva lasciarla a casa.

la zia

la zia

I miei amici che amano gli spoiler si sono studiati le scalette di tutte le date precedenti, e ne hanno ricavate due, che variano nella canzone di apertura e in poche altre. L’unica cosa che accetto di sapere è che una delle due contiene brani più cupi. Spero che a noi tocchi l’altra: il lato tetro dei Cure mi piace molto, ma persone tristi in giro ce ne sono già abbastanza.

Inizia con Plainsong, e l’espressione contrariata di Concertillo mi fa capire che ci è andata bene.

È un brano tratto da Disintegration, il loro ottavo disco, una perla da cui sono stati estratti un paio dei singoli più famosi. Alla fine da quel disco suoneranno otto canzoni su dodici, basterebbe già per farmi contento.

Dietro il gruppo cinque pannelli proiettano immagini di fuochi bianchi che cadono in scie lente, sopra di loro quattro file di fari compongono il resto della scarna scenografia. Una parete di amplificatori e spie chiude alla vista la parte posteriore del palco, racchiude i musicisti lì davanti, come in una sala prove.

Davanti a me c’è Reeves Gabrels, il chitarrista che si fa i cazzi suoi. Non indossa roba vistosa, non va in giro. Lui è lì per suonare e suona. E suona bene e potente. Non a caso ha una certa fama, nell’ambiente. Per dire, è sua la chitarra in diversi album del David Bowie più recente: questo signore ha inciso i miei album preferiti, Earthling e Hours, ha scritto Thursday’s Child, cazzo.

lasciatemi suonare e portatemi una birra

lasciatemi suonare e portatemi una birra

Uno che invece non si rassegna a stare fermo è Simon Gallup, il bassista storico, carismatico e sempre più votato a somigliare a Johnny Bravo, il personaggio dei cartoni animati. Percorre il palco avanti e indietro nei suoi jeans aderenti, pianta uno stivalone sull’amplificatore e fa gesti al pubblico, torna da Robertone e gli ghigna qualcosa. Porta al polso un fazzoletto coi colori del Reading, la sua squadra del cuore. Alle sue spalle, fissata a una cassa, ha trovato spazio anche una bandiera.

È secco e nervoso, la canottiera degli Iron Maiden gli lascia scoperte le braccia asciutte. Sembra Mick Jones negli anni ’70, tanto per restare sui Clash.

leningrad cowboys go to america

leningrad cowboys go to america

La seconda e terza canzone in scaletta fanno ancora parte di Disintegration: Pictures Of You e Closedown, e non si allontanano granché dalla versione in studio.

A Night Like This non l’avevo mai sentita dal vivo, nonostante la facciano sempre ovunque. Rende bene.

Un altro pezzo per me inedito è alt.end, che però mi fa anguscia. Per fortuna subito dopo inizia la tastierina scema di The Walk, che ti entra in testa e non se ne va più neanche due giorni dopo, a casa, col cane che vorrebbe mangiare e tu che gli rispondi tatta tatta tarattatta tattattà tarattattà.

Plainsong

Plainsong

E poi Primary rumorosa, quadrata, cattiva. Viene su un casino di energia in questo concerto, che però rimane circoscritta al palco, non ti fa venire voglia di muoverti, e ci metto un po’ a capire perché.

È il cantante. Dosa la voce, la tiene bassa, spesso accenna soltanto il canto, o non segue la melodia e si limita a recitare il testo. Il pubblico segue lui e non si sente trascinato. Quando devi tirare tre ore di esibizione hai tutto il diritto di conservarti, e quello che viene fuori non è un brutto concerto, solo più statico.

If Only Tonight We Could Sleep non la fanno mai, e se volete il mio parere va benissimo così. Charlotte Sometimes invece mi arriva addosso inattesa. E uh, è proprio bella.

Poi qualche classico, poi From The Edge Of The Deep Green Sea, che è sempre il momento in cui mi isolo dal mondo e mi faccio il mio viaggio. Non lo so se c’è una canzone che mi piace più di questa, sarà che ogni volta che la riprendo mi dice qualcosa di nuovo.

Dopo il blocco principale, che si chiude con Disintegration, rientrano tre volte. Tre. E ogni volta suonano almeno quattro canzoni. E l’ultimo blocco sono tutte allegre e ballerine. Io non lo so di cosa siano fatti questi tizi, per quanto mi riguarda sono uno straccio già da un’ora.

Friday I'm in love

Friday I’m in love

Hanno suonato tantissimo, e diversi pezzi che non avevo mai sentito dal vivo. Esco dal palasport sulle ginocchia, col telefono scarico e un letto da qualche parte a Bologna che spero di raggiungere col gps, perché se ci provo con le preghiere tanto vale dormire in macchina.

È a quel punto che Sadichillo mi rivela che l’altra scaletta conteneva molte più tracce di Wish, apriva con Open e chiudeva con End, che lascia da parte l’originalità, ma sono due pezzi da aprirsi il torace e tirargli il cuore come le ragazzine le mutande.

 

La volta scorsa mi ero congedato accennando ad alcune serie di cui avrei voluto parlare, così sono tornato per scrivere altre due righe su questo passatempo che abbiamo noi proprietari di divani comodi e tempo da perdere.

Better Call Saul è una serie di cui senz’altro avrete sentito parlare, se non altro a causa della sua sorella maggiore [sospiro]. Per quei due o tre che sono usciti dalla giungla l’altroieri sto parlando di [mi alzo in piedi e mi porto una mano sul cuore] Breaking Bad. Questa serie ne è lo spin-off, e parla dell’avvocato Saul Goodman, uno dei personaggi migliori di quella meraviglia     quell’assoluto capolavoro     quella cosa che se non l’avete vista siete degli stolti   quella serie di cui condivide autori, produzione e parte del cast.

A che ti serve Bryan Cranston quando hai Jonathan Banks?

A che ti serve Bryan Cranston quando hai Jonathan Banks?

Al momento siamo arrivati alla fine della seconda stagione, e tutto si svolge prima della storia raccontata in [mi rialzo in piedi e mi riporto una mano sul cuore] Breaking Bad. Dall’inizio della serie siamo venuti a conoscenza di come Jimmy McGill abbia cominciato la sua carriera legale, del rapporto difficile che ha col fratello (un ottimo Michael McKean che non avrebbe bisogno di presentazioni), della sua tendenza a complicare la vita degli altri, e del suo genio.
È una storia dai toni più leggeri di quella raccontata da [mi alzo ancora una volta e mi riporto la mano sul cuore, ma credo che oramai ci siamo capiti] Breaking Bad, sebbene la presenza di Mike Ehramntraut e di diversi narcotrafficanti conosciuti e non garantisca una certa dose di tensione.

Va visto, anche se non è [resto seduto e agito la mano come a dire seeh andiamo avanti] Breaking Bad, ma del resto alla seconda stagione neanche Breaking Bad aveva mostrato tutto il suo potenziale. Gli elementi ci sono, diamogli fiducia e aspettiamo che Mike faccia il suo sporco lavoro.
Il grande mistero di quest’anno è Preacher. Mi è piaciuto? Mi ha fatto cagare?
È una serie tratta (ma sarebbe meglio dire “ispirata”) a un fumetto di (già??!?) sedici anni fa, scritto da Garth Ennis e disegnato da Steve Dillon.
Se non siete pratici di fumetti questi nomi non vi diranno niente, e vi compatisco perché la vostra vita è davvero triste.
Gli altri staranno scuotendo il capo con mestizia, perché il povero Dillon è morto in questi giorni, e quindi anche la loro vita è triste, ma almeno possono consolarsi rileggendo Preacher, e il Punitore, e Hellblazer, e The Boys, e fermatemi sennò vado avanti tutta la sera.

Machos & nachos

Machos & nachos

La storia raccontata nelle pagine di Ennis è volgare, blasfema e violenta. E a leggerla adesso per la prima volta potrebbe apparire datata. E forse il pregio della serie è quello di averla resa di nuovo attuale, se non altro come linguaggio cinematografico. Perché è un gran bel prodotto, se ne ignori le origini. Ha un sacco di trovate pop, didascalie alla Tarantino, un’ironia intelligente, una storia mai banale, e dei personaggi pazzeschi. Se non hai mai letto il fumetto sei un poveraccio, ma di sicuro ti godrai questa serie molto più di quello che ho fatto io.
Perché il fumetto è diverso, è proprio la storia ad essere stata pasticciata. Il rapporto fra i personaggi è cambiato, Tulip è odiosa e vorrei ucciderla.
Conto sul fatto che una serie si propone di andare avanti per diverse stagioni, e voglia allungare il brodo il più possibile, ma una vocina dentro di me punta il dito e rompe il cazzo.

Scendi da quella macchina e trovati un lavoro!

Scendi da quella macchina e trovati un lavoro!

Mi sono tenuto per ultimo la serie che negli ultimi tempi mi ha fatto innamorare e soffrire come una fidanzata mai abbastanza rimpianta: Narcos.
L’ho amata dalla prima stagione, dalla sigla meravigliosa e dalla voce fuori campo che mi ha portato in Colombia, sulle tracce di Pablo Escobar.

Ecco, non si dovrebbero produrre serie tv che trasformano un criminale sanguinario in un eroe, e questo è forse l’unico difetto di questa produzione Netflix: alla fine, ti piaccia o no, tifi per lui. Perché Wagner Moura, l’attore che interpreta Escobar, è proprio bravo. E con quelle felpe orrende e la panza fa simpatia anche quando ammazza qualcuno a revolverate in faccia. E poi dice plata o plomo, e coma mierda, e hijo de puta con quella pronuncia da ciccione che se l’avete guardato in italiano forse è andata persa, e un po’ ve lo meritate perché dovete essere gli stessi che non hanno mai letto i fumetti di Preacher.

È il 1986, sono in prima superiore e lui è il mio prof di tedesco

È il 1986, sono in prima superiore e lui è il mio prof di tedesco

Ochei, si prende anche delle libertà nel raccontare la storia, inventa personaggi che non sono mai esistiti, ma non è mica un documentario. Se hai voglia di approfondire, internet ti offre tutto il materiale che sei disposto a leggere.
Ma se hai tempo di guardare una serie sola guardati questa. E prova a non innamorarti di Tata.

Se ce l’avessi io il tempo vi racconterei di The Strain, di cui è iniziata la terza stagione, di Mr Robot, di cui non so se guardare la seconda nonostante la prima fosse ottima (o forse proprio per quello), e di Black Mirror, di cui sto guardando, in colpevole ritardo, la prima e la seconda tutta insieme, e nel frattempo stanno trasmettendo la terza.

Magari torno.

L’inverno, lo sappiamo tutti, sta arrivando da sei stagioni, e pare che questa sia la volta buona e dobbiamo prepararci ad affrontarlo come si deve, perciò ho caricato la stufa, messo su una tisana e mi sono procurato un bel po’ di cose per affrontare le lunghe serate di qui al disgelo.

Ho visto un bel po’ di cose, non tutte recenti e non tutte interessanti, ma qualcosa di buono nel mucchio si trova.

Per esempio The Night Of. Otto episodi ispirati a una cosa britannica chiamata Criminal Justice. L’originale è scritto da Peter Moffat, che uno subito pensa “Beh, ma allora siamo sicuri che è bello, l’ha scritto lo sceneggiatore di Sherlock, di Dr.Who, di..”
No. Quello è Steven. Questo è Peter. Però la serie è davvero interessante.
Parla di un ragazzo pakistano giudizioso e bravo a scuola, il classico studente modello che qualsiasi madre si fiderebbe a lasciare a casa da solo con la figlia a ripassare algebra, se solo non fosse un pakistano e quindi potenziale delinquente drogato stupratore di figlie adescate con la scusa dell’algebra, che poi a cosa serve quest’algebra, nelle offerte di lavoro non la richiedono mai, tuttalpiù la patente, fuori da casa mia semi-arabo di merda. Nasir “Naz” Khan, così si chiama il protagonista, ha una gran voglia di conoscere ragazze, frega il taxi di suo padre per andare a una festa e finisce a passare la notte più pazzesca della sua vita, seguita da un risveglio che a confronto la notte più pazzesca della sua vita era un documentario sulla vita del macaone.  È un po’ statico, ma stiamo parlando di una storia ambientata per metà del tempo in un’aula di tribunale, non è che puoi aspettarti i mortaretti. Però l’altra metà si svolge in un carcere, e il lento degrado di un detenuto in attesa di giudizio è un argomento su cui andrebbero spese un bel po’ di riflessioni. I momenti di tensione, comunque, non mancano: il finale del primo episodio ti tiene inchiodato su una scena dove in fondo non sta succedendo granché. E poi c’è John Turturro che interpreta un avvocato con un problema ai piedi, e la sua interpretazione da sola varrebbe la visione.

Riz Ahmed, poi, è Nightcrawler negli ultimi film sugli X Men. E allora teletrasportati fuori, no?

Riz Ahmed, poi, è Nightcrawler negli ultimi film sugli X Men. E allora teletrasportati fuori, no?

Per una serie che merita decisamente la visione ce n’è una di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno, ed è un peccato, perché le sue serie cugine sono ottimi prodotti. Sto parlando di Luke Cage, ultima uscita di mamma Marvel, incentrata sul negrone invulnerabile già visto in Jessica Jones. Se non avete visto Jessica Jones non fa niente, i riferimenti a quella serie si contano su un dito, questa cammina da sola. Epperò zoppica. E ad un certo punto si ferma a guardare le vetrine e sembra non voler più ripartire. Poi riparte, ma pesta una merda di cane e si ferma di nuovo. Poi trova un semaforo rosso. Poi si è dimenticata di chiudere a chiave e torna indietro.
Oh, non c’è verso che si muova! Anche quando il gigante invincibile fa a botte con qualcuno riesce ad annoiarti. Sarà perché è privo di reali motivazioni. Sarà che i cattivi sono cattivi perché qualcuno ha detto loro di esserlo. Sarà che ci sono dei buchi di sceneggiatura che ci fa capolinea l’1. Sarà che metà dei personaggi non si capisce cosa ci stiano a fare. E poi parla sempre con questo tono di “aspetta un attimo che sono seduto sul gabinetto”. Ma soprattutto se sei un negrone invulnerabile e qualcuno ti fa un torto non ci puoi mettere tredici episodi per andare lì e menarlo. Ad Harlem, fra l’altro, dove intanto c’è gente che si spara ovunque per qualunque ragione.
Harlem è l’unica cosa da salvare della serie: la sua atmosfera, i personaggi, la musica, sono riprodotti alla grande. Dopo aver visto Luke Cage sono diventato un drogato di musica nera, dal soul al gangsta rap.

quello a destra è la serie tv, quello a sinistra sono io, come si può intuire dall’espressione

A proposito di rap, ho iniziato a vedere Atlanta, di cui ho letto un bell’articolo sul Post. E dopo due episodi devo dire che promette bene, nonostante le commedie mi attirino poco. I protagonisti sono surreali, finora la musica è solo suggerita, sebbene sia l’argomento principale: è la storia di un rapper in ascesa e di suo cugino che vuole fargli da manager. È ironico senza ammazzarti, tipo Woody Allen per neri.
Il personaggio di Darius è il migliore di tutti, mi sa che seguirei la serie anche solo per lui.

Hanno sempre quello sguardo lì, un po' assente. Fanno tenerezza

Hanno sempre quello sguardo lì, un po’ assente. Fanno tenerezza

Poi ho visto Stranger Things, che mi ha preso, mi ha sbattuto sul divano e non mi ha più fatto alzare finché non è finito, e sia lodata Netflix e il binge-watching.
D’altronde cosa potevo aspettarmi da una serie ambientata negli anni in cui avevo l’età dei protagonisti e abitavo in un posto simile, dove tutto era come viene descritto compreso il mostro che fa versi orrendi, e che noi chiamavamo Riccardo Del Curlo?
Adesso che è passato un po’ di tempo e l’eccitazione da macchina del tempo è calata non mi sento più così entusiasta, credo che altre serie mi abbiano lasciato molto di più. È normale, Stranger Things è un bel prodotto, ma siamo sempre nel campo dell’intrattenimento senza pretese.

Se vi sembra di rivedere i Goonies è perché li state proprio rivedendo, ripuliti e aggiornati. Non che sia un difetto, comunque.

Se vi sembra di rivedere i Goonies è perché li state proprio rivedendo, ripuliti e aggiornati. Non che sia un difetto, comunque.

Dovrei raccontarvi di Better Call Saul, Narcos e Preacher, ma il tempo è tiranno e ho una vita anche fuori da questa pagina, quindi dico un’ultima cosa sul remake di MacGyver e me ne vado.
Ho visto il primo episodio. Ho resistito venti minuti. È una roba da ragazzini, con un insopportabile ragazzino perfettino vanaglorioso saccente di merda per protagonista. E se permettete di insopportabili perfettini vanagloriosi saccenti di merda ci sono già io.

Drusilla ha ventisette anni e gli occhi colore del lago in cui mi tuffavo da bambino. Porta la maglietta a righe d’ordinanza Estate 2016, e la presunzione della sua giovane età la tiene in bilico sulla punta del naso, che mi agita davanti come un fioretto quando si volta a chiedermi “Ma li hai visti?”

Si riferisce alla coppia male assortita che, davanti ai nostri sguardi attoniti, si è esibita in un numero di solitudine acrobatica livello SuperPro.

“Quelli che si sono fatti la foto?”
“Sì! Hai visto che espressione schifata aveva lei quando si è messa in posa?”
“Le mancava la didascalia – Facciamo contento questo povero fesso – ”
“Ma è pazzesco! Come fanno a esistere coppie così? Ma meglio da soli, dai!”

La classica frase da Drusilla che sa sempre quello che vuole e non accetta compromessi. Vorrei possederla io la sua sicurezza, mi permetterebbe di mantenere la rotta e smettere di incagliarmi nelle secche in cui finisco con la regolarità di un temporale nel fine settimana.

Siamo a giugno, due anni che è morto il mio unico grande infinito amore, il mio canarino Chico Buarque, la sola creatura che abbia mai amato.
Non sono una preda facile per i sentimenti, quasi tutte le mie ex mi hanno lasciato dopo pochi mesi lamentandosi dei miei rari slanci affettivi. Sono uno che quando la ragazza gli dice seria al telefono “Sto mettendo in discussione il nostro rapporto” le risponde “Va bene, fammi sapere domani cos’hai deciso, buonanotte”.

Con Chico Buarque era stato diverso fin dall’inizio. Intanto non mi aveva chiesto nessuna attenzione particolare, giusto un po’ di becchime e dell’acqua fresca, e poi la riconoscenza con cui rispondeva alle mie premure! Ogni mattina si metteva a cantare, e la sua gioia mi contagiava, uscivo di casa dimentico di ogni problema e andavo a lavorare alla miniera di carbone col cuore leggero.

Fra noi era stato un avvicinamento graduale, nessuna pressione, solo il piacere di stare insieme giorno dopo giorno. Lentamente il nostro rapporto si era consolidato fino a diventare qualcosa di indistruttibile, cui non avrei più saputo rinunciare. Non l’avevo mai vissuta una storia così intensa. Per festeggiare il nostro primo anniversario eravamo andati alle Canarie a conoscere i suoi genitori. Non lo avevamo detto a nessuno, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggio da fidanzati, avevamo intenzione di sposarci. Magari non in Italia, dove i matrimoni fra uomini e canarini non sono ammessi.

Due mesi dopo era morto. Una rara malattia chiamata gatto dei vicini lo aveva stroncato all’improvviso.

È stato come se mi avessero sostituito il cuore con un sacchetto di ghiaia, ho rinunciato alla speranza. Tutto ciò che è arrivato dopo mi è scivolato addosso senza lasciare traccia.
Solo una volta ho provato una specie di emozione, ma non è durata molto: era una gracula religiosa, ci eravamo trovati molto bene all’inizio e sembrava che potesse funzionare, ma presto si era rivelata una gran scassacazzi. E poi parlava sempre a vanvera.

In questi due anni non ho fatto che passare dall’allegria a una depressione improvvisa, come un ballerino di tip tap in un campo minato. I miei amici hanno preso le distanze, le relazioni si sono diradate, anche quelle impostate sulla mercificazione sentimentale, tipo “tu mi caghi io ti trombo va bene così”. Sono diventato uno di quei matti con la felpa stropicciata che portano in giro il cane la mattina presto, quando non corrono il rischio di incontrare altri esseri umani con cui dover interagire.

Per convincermi a stirarmi la maglietta e affrontare questa trasferta bolognese c’è voluta la giovane scapestrata Drusilla. È lei che mi allontana le nuvole dalla testa, e quando il canto di un uccello lontano mi riporta alla mente pensieri cupi è rapida ad intercettarli e abbatterli con un dito nodoso sulle reni. Oppure mi viene vicino e mi spinge da dietro, mi colpisce con un giornale, mi abbranca per un braccio e mi trascina davanti alle scarpe più ridicole mai esposte in una vetrina.
È bello averla vicino, certe volte mi chiedo se non dovrei abbandonare questa mia ritrosia e darle un bel morso, per vedere che succede.
Poi mi ricordo di Chico Buarque e che il mondo fa schifo e dobbiamo tutti morire soli, compresa Drusilla, e vado ad addentare un panino al prosciutto.

A Palazzo Fava è allestita la mostra di Edward Hopper, forse l’unico luogo in cui essere tristi rappresenta un beneficio, invece che un handicap.

Perché il pittore di Nyack è un artista malinconico, apre finestre sulla solitudine che hai dentro e la costringe ad affacciarsi. Il modo migliore per apprezzare le sue opere è di avere l’anima dissodata di fresco. È come annusare certi fiori prima di assaggiare un vino di qualità.
È così. Mi aggiro per le sale lasciandomi travolgere dalla desolazione dei suoi paesaggi e delle persone che li abitano.
Quando mi trovo di fronte a Soir Bleu mi tremano le gambe. La faccia del clown, il contrasto col suo abito e ciò che rappresenta. La donna in piedi è una prostituta, un corpo in vendita, eppure è altera e distante come un pianeta inaccessibile.

“Questo si intitola Carnevale Sull’Enterprise. Il capitano Picard, al centro del  quadro, si è vestito da clown convinto di vincere il premio per la maschera migliore, ma verrà battuto dall’androide Data, che truccato da donna risulta davvero irriconoscibile”.
“Scema, non ti ci porto più alle mostre! Che figure mi fai fare?”
“Usciamo? Qui vicino c’è una mostra fotografica su Jeff Buckley con cui puoi torturarti ancora un po’”
“Ma tu come fai ad essere sempre così imperturbabile? Non c’è niente che ti pesa addosso, un ricordo, una speranza? Io sono eccessivo nel mio malessere, certo, ma tu così impermeabile alle emozioni sei sicura di essere normale?”
“Chi ti dice che sia imperturbabile? Magari non mi va di mostrarlo come fai tu”
“Cosa ti ha lasciato questa mostra?”
“Ansia. La stessa che mi mettono i racconti di Carver. Credo che il mondo che descrivono sia lo stesso, uno racconta cosa succede nelle case dipinte dall’altro. L’anziano seduto al sole, con la moglie che gli grida dalla finestra, quando si alzerà saprai che sta per succedere qualcosa di brutto. La donna in piedi sulla porta ha visto qualcosa che non vuoi sentirti raccontare. La vita che trapela dall’opera di Carver è difficile, di quella che ti ci vuole una bottiglia vicino per reggerla, ma Hopper va oltre, dove la bottiglia non basta più. Uno è dolore, l’altro rassegnazione. E a me la rassegnazione mette ansia più del pericolo.”

Guarda qua. Neanche trent’anni di roba. Una che non ha mai conosciuto la Cortina di Ferro, il Patto di Varsavia, Berlino Est. Una che girava in pannolone mentre i Nirvana scardinavano la musica e il gusto per le camicie.
Una fottuta hipster.
E mi lascia muto, inadeguato e ammirato.

Io a 27 anni stavo a Londra, dormivo per terra e spendevo tutto lo stipendio da Reckless Records. A 27 anni scoprivo Jimi Hendrix, manco sapevo chi erano Hopper e Carver. Ed è questo che separa inesorabilmente il mio mondo dal suo e ci porta ad imboccare strade che finiranno per allontanarci sempre di più, fino a perderci di vista. Perché un giorno lei sarà un avvocato inserito nel sistema e leggerà Marcuse per credersi anticonformista, sposerà un ricco ingegnere appassionato di mobili antichi e farà la borghese radical chic, mentre io sarò fuori da casa sua a fregarle le gomme della mercedes, che rivenderò per una dose della mia ultima scoperta, l’eroina.

(continua)

Il mito di Orfeo mi ha attraversato la strada tante di quelle volte che o lo investivo o me ne innamoravo. Ho scelto la seconda: un paio di volte l’ho infilato nei miei racconti, e sono molte di più quelle in cui me lo sono cucito addosso facendo quello che canta e soffre. Non che ci voglia molto, la storia si presta a qualunque fallimento sentimentale, e chi non ne ha almeno uno?

Euridice muore, il suo sposo Orfeo soffre come una bestia e scende a cercarla fino agli Inferi, dove fa una testa così a tutti finché Ade si arrende e gliela restituisce. Avrà una seconda possibilità, qualcosa che non a tutti è concesso. L’unica clausola è che torni nel mondo dei vivi camminando davanti a lei, e che non si volti mai a guardarla, neanche una volta, altrimenti la perderà per sempre.
Una prova di fiducia, in un certo senso. Che poi è quello che si chiede a una seconda possibilità; perché se è finita una volta vuol dire che qualcosa non andava, e il mito ci suggerisce proprio quello, se vuoi che vada diversamente devi comportarti diversamente.


Orfeo ci prova, ma alla fine non si fida: si volta a guardare Euridice, e così le butta addosso i suoi dubbi che non è stato mai capace di superare. Lei se ne va, ovvio. Tutte le donne a casa a fare il tifo. Brava! Quello lì non ti merita! Basta fare la balia ai ragazzini e accontentarsi di uomini insicuri, lascialo perdere! Piangerà la tua scomparsa per un po’, poi si troverà un’altra cretina su tinder e si dimenticherà di te, a dimostrazione di quanto fosse sincero. Stronzo!

A metà del secolo scorso ci ha pensato Cesare Pavese a riportare equilibrio (non so se anche lui si sia rifatto a versioni precedenti, scusate): secondo lui Orfeo è sceso nell’Ade, ha convinto gli dei a restituirgli l’amore, ma quando stava risalendo verso la superficie si è reso conto che era una cazzata gigantesca, e si è voltato apposta. Cioè, questa mi ha lasciato e io la rivoglio ancora indietro? Mi ha fatto soffrire come un cane e io mi dichiaro pronto a rifare tutto da capo?
Ma cosa sono, cretino?

Roberto Vecchioni ci ha scritto una canzone bellissima su questa versione del mito, dove fa dire al protagonista “Tutto quello che si piange non è amore”.
È tutto in quella frase lì. Orfeo si volta perché la vita va avanti, ed è ridicolo crocifiggersi a un ricordo, per bello e magico che sia.

E Pavese ci dice anche un paio di cose sull’ego: Euridice se n’è andata, è venuta giù negli Inferi, che francamente sono proprio un bel posto di merda, e adesso questa è casa sua, ed è giusto che stia qui, fra i morti. Vuole stare con Ade il pallidone? E perché dovrei convincerla che sbaglia? Se è contenta così..
E se ne va. Perché chi non mi vuole non mi merita. Alla fine Euridice si merita esattamente quello che ha: buio e freddo. E io ho di meglio da fare lassù, fra i vivi. Ciaone.

Secondo me c’è anche un po’ di risentimento, stiamo parlando di uno che alla fine per una donna si è ammazzato, però il concetto è giusto: Orfeo scende all’inferno perché l’inferno ce l’ha dentro, non ha scelta, sta malissimo; affronta la morte per cercare una felicità effimera, ma capisce che la felicità te la costruisci da solo, e a quel punto lei non gli serve più a niente. Torna alla luce completo, e suggerisce a Bacca di farselo anche lei un viaggetto da quelle parti, che le fa solo bene. Lei non la prende sportivamente, come si vedrà.

Orfeo Rave, lo spettacolo messo in scena dal Teatro della Tosse di Genova, sposa questa versione. E lo fa rivestendo il mito di atmosfere sudamericane, con un protagonista truccato come il dio del vudù haitiano, con un funerale brasiliano che è una gioia per gli occhi, con la capoeira, con uno strumento che non ho capito se è una kora o kosa.
C’è un sacco di altra roba nel capannone della Fiera, Mercurio chirurgo che recita in videoconferenza, morti che ballano all’obitorio, discoteche e chitarristi che svisano sul carrozzone come quello di Mad Max.
La storia è, invero, un po’ frammentata, Orfeo è un pupazzone snodato del tutto inespressivo, soffro più io seduto sul gabinetto, e gli altri intermezzi recitati non veicolano granché a parte sé stessi. Ma il risultato finale ti cattura, vuoi per la scenografia, vuoi per i ballerini, la musica, la suggestione arriva e ti convinci che l’amore fa più paura della morte e tutto ciò che ti muove è solo il tuo maledetto ego. Sticazzi di Euridice, piangevi la perdita del tuo orgoglio, perché qui se c’è uno che se ne va sbattendo la porta quello devo essere io, chiaro?

E così, tornato a casa, non ho rifatto la punta alle mie ragioni, ma mi sono letto per l’ennesima volta il brano di Pavese, e poi sono andato a dormire, che ne avevo bisogno.