Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

Mi sono reso conto, con un certo fastidio, che questo blog si sta riempiendo di necrologi, e il fastidio è dovuto alla consapevolezza che la causa stia nel mio anno di nascita, che col tempo mi trovo a condividere con sempre meno persone.
Oggi purtroppo se n’è andato uno dei pilastri dei miei vent’anni, una donna un po’ più vecchia di me, che ha avuto una vita molto ma molto peggiore della mia, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario. Si chiamava Sinéad O’Connor, e non ho mai imparato a pronunciare correttamente il suo nome (è più o meno Scinèid).

Ora non voglio mettermi qui a raccontare le sue disgrazie, ci sono un sacco di informazioni disponibili in rete se uno ha voglia di andarsele a cercare, e se non ne ha voglia non vedo perché dovrei premiare la sua pigrizia riassumendogliele io.

Oltretutto fra le reazioni alla sua morte sui social ho letto diversi commenti di disprezzo per cose che o non erano vere o richiedevano un minimo di contesto, e l’ultima cosa che ho voglia di fare è mettermi a discutere con questi personaggi, che tanto sarebbe tempo perso. E comunque torniamo sempre a quella volta che strappò in diretta tv la foto del papa, un gesto potentissimo allora, ma che ancora oggi, fra i milioni di contenuti che ci affollano la giornata, riesce ancora a farci fermare per un momento il respiro. A certi fa ancora andare la lingua e le dita, non c’è niente da fare.

Se fermi l’immagine al fotogramma giusto puoi vedere il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei

Forse non è stata un’artista indimenticabile, è esplosa con una canzone che non era neanche la sua (e il cui autore è morto di morte prematura, come lei e come un altro ottimo interprete dello stesso brano, ma non sarò io a dire che la canzone porta sfiga), ha pubblicato qualche disco perlopiù ignorato dal pubblico, ha collaborato con un sacco di artisti più o meno famosi, coi quali ha tirato fuori delle perle. Ma era un’artista della madonna, e se non avesse sabotato la propria carriera con una caparbietà invidiabile, oggi saremmo molti di più a celebrare la sua scomparsa.

Se gli irlandesi sono stati considerati per secoli gli sfigati d’Europa, lei è stata di sicuro la sfigata d’Irlanda, ha incarnato per tutta la vita le disgrazie di cui è stato protagonista il suo popolo, dagli abusi dei preti all’esilio, al lutto. Per tutta la sua breve vita si è portata dietro un peso enorme, senza mai riuscire a conviverci. Ha cercato una quadra ovunque, nell’impegno sociale, nel cristianesimo, nel rastafari, alla fine si è perfino convertita all’islam, ma quel macigno non l’ha mai posato, e alla fine c’è rimasta sotto.
Poteva finire quarant’anni fa in un vicolo con una pera nel braccio, o nel suo letto imbottita di anfetamine durante una qualunque delle crisi che l’hanno perseguitata, e non ci sarebbe stato niente di inaspettato. Ha superato tutto, ha cercato sempre di trovare un modo, ma si vedeva che i mostri che aveva dentro se la stavano mangiando; poi l’anno scorso suo figlio si è ammazzato, e immagino che abbia semplicemente smesso di resistere.

A guardarla da lontano si potrebbe definire una fra i tanti artisti che fra gli ’80 e i ’90 hanno azzeccato un paio di canzoni per poi tornare nell’anonimato, ma è chiaro che non è così: la settimana prima che uscisse Nothing Compares 2U, a febbraio del 1990, la testa della classifica la occupavano i Technotronic, ma non so chi se li ricorda, oltre a me. Così come pochi si ricordano di Crystal Waters, e non credo che leggeremo mai da nessuna parte il necrologio di uno dei Kris Kross (di quello ancora vivo, peraltro. Lo sapevate? No, appunto).
Non era una qualunque, aveva una carriera spianata davanti: il secondo album, quello di Nothing Compares 2U, vendette 7 milioni di copie, e subito dopo partecipò al concerto di Berlino di Roger Waters per celebrare la caduta del muro. Era un fenomeno, e piaceva a tutti. Almeno finché non cominciò a dire quello che pensava, e quello che pensava non piaceva a tutti, perché era incazzata con l’America, era incazzata con la Chiesa Cattolica, e anche se aveva le sue ottime ragioni per essere incazzata il pubblico cominciò a fischiarla.

Trovatevi qualcuno che vi guardi come Sinéad O’Connor guardò il pubblico del Madison Square Garden alla fine della sua canzone.

Di lì in poi il termine “spianata” riferito alla sua carriera assunse tutto un altro significato.
Però noi c’eravamo. Noi che ci eravamo innamorati della sua testa rasata e della sua voce incazzata e delle lacrime e di quegli occhi che guardavano il mondo come se fosse stato un gatto che aveva di nuovo cagato fuori dalla cassetta.
Per noi Sinéad O’Connor ha rappresentato una grossa fetta della nostra vita. Non ci siamo limitati a cantare le sue canzoni, abbiamo modellato il nostro immaginario femminile su di lei, e da allora abbiamo subìto una bizzarra attrazione verso le ragazze coi capelli cortissimi, gli occhi grandi e il naso a punta e parliamo di noi stessi al plurale per imbarazzarci di meno. Abbiamo continuato a seguirla attraverso i suoi dischi mediocri, le sue dichiarazioni che col tempo si sono fatte meno incazzate e più tristi, e i suoi cambi di pelle per cercare di sopravvivere, che abbiamo interpretato come stranezze di una persona allo sbando.

Era l’otto luglio del 2010 quando sono riuscito a vederla dal vivo, al Porto Antico di Genova.
Aveva i capelli lunghi, non era più la ragazza su cui avevo costruito il mio immaginario femminile, adesso sembrava più sua madre, ma neanch’io ero più quel ragazzino là.
Portava un vestito a fiori e una chitarra, ma gli occhi erano sempre quelli, sempre splendenti di una rabbia che non aveva ancora smesso di bruciarle dentro. Aveva detto anche allora qualcosa contro la Chiesa, un riferimento al vescovo che abitava poco distante, o qualcosa del genere, non ricordo.

Stamattina in rete si trovano commenti di ogni genere, alcuni molto belli e toccanti. Vabbè, ci sono anche quelli negativi, ma appartengono tutti agli stessi profili che negano il riscaldamento globale, l’utilità dei vaccini e il nazismo di Putin.
Tolti i terrapiattisti, l’opinione comune è che se ne sia andata una persona stupenda, che avrebbe dovuto essere ascoltata di più. Fra tutti, ne vorrei riportare due, che mi hanno colpito per ragioni diverse. Mi scuso in anticipo per la traduzione povera e i tagli, non posso riportare il link perché Elon Musk è fondamentalmente un idiota.

L’Irlanda negli anni ’80 era un luogo buio che si stava spostando verso la luce. Erano i nostri artisti e, più di tutti, i nostri musicisti, che indicavano la strada da seguire.
Piccola di statura, i capelli rasati, Sinéad O’Connor cominciò a prendere a calci le ultime vestigia di rispettabilità del nostro passato cattolico. Il fatto che la sua testa fosse rasata non era dovuto al caso; dato il modo in cui i corpi e le azioni delle donne erano controllati, lei era il simbolo supremo di chi eravamo, e di chi volevamo essere.
E poi si mise a cantare.
“Mandinka” cambiò molte cose, perché era arrabbiata e cruda ed energica e rassicurante, tutto insieme. Poi arrivò “Troy”, e all’improvviso questo folletto incazzato con gli anfibi (non nel senso che era in lite con le sue scarpe, n.d.t.) stava cambiando le classifiche e il modo in cui vedevamo noi stessi.
Lavorai in un hotel dove alloggiava durante quell’iniziale esplosione di popolarità che non si addiceva alla sua figura – piccola, vulnerabile, circondata da persone che volevano qualcosa, ma lei se ne lasciò travolgere. Suonò all’Olympic Ballroom, e sia noi che lei fummo storditi dalla sua esibizione. Ad un certo punto non aveva più canzoni da cantare, e dovette ripeterne qualcuna. Non importò a nessuno.
Poi arrivò il successo vero, e tutte le belle cose finirono.
Ci sono persone migliori di me – fra cui Sinéad stessa, nella sua autobiografia – che possono raccontarvi la storia del suo dolore e di tutto ciò che le è successo, e di tutte le persone che l’hanno abbandonata così brutalmente.
Immaginate di essere gravati da qualcosa della grandezza e della magnificenza di quella voce, e di non esserne felici; per lei questa cosa era talvolta un macigno.
Non cambiò niente nella sua musica; quel dolore era sempre lì, ed è così triste che qualcuno che ci ha dato così tanto non abbia potuto godere di quella generosità che ci ha sempre mostrato.
(…) Siamo stati fortunati ad averla avuta, e dovremmo chiederci cos’altro avremmo dovuto fare per tenerla con noi; la sua sofferenza avrebbe dovuto essere qualcosa che andava condiviso fra tutti noi, perché glielo dovevamo, alla fine.
Riposa in pace, Sinéad.
Nothing – nothing – compares.

Philip O’Connor (giornalista irlandese)

L’anno scorso ero in Irlanda per lavoro. Stavo bevendo una pinta fuori da un pub di Dalkey con alcuni nuovi amici, quando una donna ci passò accanto con passo determinato. Piumino chiuso fino alla nuca e la testa china coperta da una sciarpa. Uno dei miei nuovi amici borbottò un’esclamazione, saltò in piedi e la inseguì. Trenta metri più avanti il mio amico e la donna si abbracciarono, e lui mi fece cenno di raggiungerli. Fu là, sotto la luce dei lampioni, col freddo che ci condensava il respiro, che incontrai Sinéad. Mi guardò negli occhi, e con una dolcezza disarmante, disse “oh, sei tu, Russell”.
Tornò al tavolo con noi e ordinò un tè caldo. In una conversazione senza barriere passammo dalla recente ondata di calore su Dublino alla politica locale, da quella americana alle proteste per i diritti delle popolazioni locali che stavano avendo luogo in diversi paesi, ma specialmente in Australia. Ci parlò dei suoi caldi ricordi della Nuova Zelanda, di fede, di musica, film e di suo fratello, lo scrittore. Ebbi l’opportunità di dirle che per me lei era un’eroina.
Quando la sua seconda tazza si stava raffreddando all’aria della notte si alzò, ci abbracciò tutti e si allontanò a grandi passi verso i lampioni offuscati dalla nebbia.
Noi quattro ci siamo seduti e, con parole diverse, abbiamo espresso lo stesso pensiero. Che donna straordinaria.
Che il tuo cuore coraggioso riposi in pace, Sinéad.

Russell Crowe (gladiatore)

Stasera ho guardato l’ultima di campionato, dove il Genoa si giocava la permanenza in serie A per la tipo tredicesima volta, a dimostrazione che una buona pianificazione societaria da queste parti non è considerata un requisito per gestire una squadra di calcio. Che poi dici vabbè, mica è facile, una società ha dei costi, e oramai campano tutte coi diritti televisivi, perciò se non hai il bacino di spettatori paganti delle grandi squadre non puoi stare a galla senza venderti ogni anno tre quarti di squadra e comprare in sostituzione i giocatori in offerta nel cestone della Lidl. Poi però il Sassuolo finisce ottavo con tanto pubblico quanto l’Alessandria, e l’Udinese sono anni che sta nella parte alta della classifica, e praticamente ogni altro club di serie A si tiene i giocatori per più di sei mesi, e allora forse non è una questione di quanti soldi ti girano per le mani ma di come li spendi. Gasperini ci ha portati a giocarci la Uefa, e l’abbiamo mandato via perché non andava d’accordo con la gestione della squadra che imponeva il presidente. È andato a Bergamo, e in quattro anni ha portato la squadra a giocarsi la Champions League per tre volte. Magari quei giocatori era il caso di comprarglieli? Noi da allora di allenatori ne abbiamo cambiati una decina, e ogni anno se non retrocediamo è per qualche miracolo. Che poi in giro parlano di miracoli infilati in buste passate lontano dalle telecamere, ma mi pare che essendoci già passati una volta dovremmo esserci fatti un po’ più furbi e queste cose vorrei sperare che non le facciamo più. Oppure l’esserci fatti un po’ più furbi consiste nel riuscire a non farsi beccare.

Quindi il problema è la società, a cui tutti chiedono a gran voce di levare le tende, come è stato chiesto a gran voce a tutti i proprietari che si sono succeduti, una volta terminata la luna di miele coi tifosi e realizzato che se vuoi fare cassa devi avere poche ambizioni. Avevamo un blog, anni fa, chiamato Nube Che Corre, dal nome che si era dato uno dei proprietari più bizzarri di questa povera società. Parlava delle sfighe del Genoa e lo curavamo in un gruppetto di amici. Poi ha chiuso Splinder, la piattaforma che ci ospitava, e l’abbiamo abbandonato, ma c’era anche il grosso problema di dover parlare di una squadra che allora stava vincendo tutto il vincibile, dov’erano le sfighe? Dov’era lo spirito di quel blog?
Mi domando se qualcuno abbia tenuto il backup da qualche parte, sarebbe un buon momento per riprenderlo in mano.

Tanto l’anno prossimo saremo ancora qui a dirci le stesse cose (aspetteremo l’autunno che ci ritrovi aspetteremo l’autunno che ci ristori aspetteremo l’autunno), a sperare che si faccia avanti qualche fantomatico acquirente a rilevare la società e a portarla di nuovo ai livelli che le competono. Che vorrebbe dire trovare un multimiliardario masochista disposto a buttare via miliardi per accaparrarsi (e tenersi stretti) giocatori di livello solo per compiacere una banda di teppe pronte a minacciarlo se non gli compra la nuova sede del club, e un numero non molto più elevato di disperati pronti a erigergli una chiesa, farlo sindaco, regalargli le figlie, in cambio del leggendario decimo scudetto.

E che ci vuole? Il Medio Oriente è pieno di miliardari narcisisti in cerca di notorietà, basta convincerne uno che comprare il Genoa è lo stesso di imbarcarsi in una guerra santa. Capace che se si appassiona ci ricostruisce pure lo stadio. Perché scusate la bestemmia, ma il Ferraris andrebbe rimesso a nuovo, dai. Mi sta anche bene lasciarlo lì, tanto io mica ci abito davanti, e Marassi pure senza lo stadio non è che sia questo gran posto. E poi anche lo stadio del Chelsea a Londra è in pieno centro, cazzo vuoi. Però rinnovato sì, dai. Ci metti due negozi sotto, qualche bar, lo fai diventare utile anche nei giorni in cui non ci si gioca dentro. Adesso è un grosso cadavere come la squadra che rappresenta.

Ochei, come tutte e due le squadre, ammetto l’esistenza di una seconda società sulla piazza genovese. Seconda società non certo messa meglio di noi, anche se i suoi tifosi si bullano di fasti ben più recenti dei nostri stiamo comunque parlando di tanto di quel tempo fa che se in quell’anno avessi fatto un figlio adesso potrei essere tranquillamente nonno.

Qualcuno ogni tanto butta là l’idea balzana di fondere le due società in una soltanto, più competitiva, più ricca, che unisca una volta per tutte le due tifoserie genovesi. Si sa che Genova è una città di talenti comici, quando qualcuno avanza questa ipotesi ridono fin dal marciapiede di fronte.
No, seriamente, gli dicono. E finisce lì.
Siamo destinati a galleggiare a stento, due barchette rattoppate, e qualcuno salterà su a ricordare che una porta cucito sul proprio stemma un marinaio, quindi dovrebbe essere più avvezza alla navigazione. Giusto, diamo a Cesare eccetera eccetera, delle due tifoserie una emana un forte odore di sentina, ma non parlavo di rivalità calcistiche qui, mi stavo domandando come uscire da questa bratta.

Tanto l’emiro innamorato di calcio non arriva, e molto probabilmente l’anno prossimo saremo ancora nelle mani del re delle figurine, che a forza di celo manca ci porterà un’altra volta ad affacciarci sul campionato minore, sperando in un altro miracolo. Come te ne tiri fuori?
Negli ultimi anni avevo risolto abilmente smettendo di seguire il calcio e leggendo un sacco di libri in più, fumetti in più, videogiochi e fidanzate in più, ma i videogiochi dopo un po’ sono tutti uguali, e le fidanzate mi facevano vivere l’ansia di giocarmi la salvezza all’ultima di campionato praticamente ogni due mesi. E ogni volta retrocedevo, peraltro.

Adesso che almeno quell’aspetto l’ho risolto per il meglio ho un po’ più di tempo libero da dedicare alle cose che mi piacciono, e il Genoa è tornato a mostrarsi, dapprima timidamente, poi con questi ritmi intensi post lockdown in maniera più decisa, e mi ha in qualche modo ritirato dentro.
Non conosco quasi nessuno dei giocatori, mi sono imposto di non leggere niente, non ricordare niente, mi guardo le partite quando capita e poi penso ad altro.

Solo che è l’una e sono qui a scrivere, quindi qualcosa nel mio piano di autodifesa dev’essere andato storto.
Ce l’abbiamo ancora il backup di Nube Che Corre?
(grazie a Hardla per l’immagine là in cima)

24 agosto 2016.
Entro in casa e c’è una ragazza orientale che svuota la lavatrice. Non mi preoccupo, non è mia né la casa né la lavatrice, sono in vacanza a Praga, e lei dev’essere la ragazza che occupa la stanza accanto alla mia, dove prima stava la coppia di americani stronzi.

Penso subito “Ragazza orientale carina”, e mi parte il film che mi ha accompagnato lungo tutta l’adolescenza, a base di avventure esotiche, principesse asiatiche e robottoni. A dire la verità lei somiglia più a Boss Robot che alla Principessa Aurora, ma quando sono diventato troppo grande per i robottoni ho iniziato a farmi un altro film che aveva per protagonista Winnie The Pooh, e da allora ho mantenuto un debole per le ragazze bassine.

La biancheria che sta tirando fuori dalla lavatrice è la mia, e non amo che una ragazza armeggi con le mie mutande se non ci sono io dentro, così le do una mano, e mentre stendo i panni iniziamo a chiacchierare.

la Cina è uno stato mentale

Si chiama Shasha, e questa storia l’ho raccontata qui.

25 dicembre 2017.
Scendo dall’aereo ed è come tutte le altre volte, il tizio all’imbocco del tunnel indossa il giaccone con le bande rifrangenti, la hostess mi augura un buon soggiorno, mi incammino per un corridoio anonimo, ma stavolta non è come tutte le altre, sono a Pechino, e fuori ad aspettarmi c’è la ragazza di cui sono innamorato.

Rido per l’assurdità di questa situazione, di tutte le cose pazzesche che ho fatto mettermi con una che sta a mezzo mondo di distanza è di sicuro la più strampalata. E di sicuro la più eccitante: non credo di essere mai stato così lontano da casa, in un posto più diverso.

Non so neanche come raccontarla questa storia che cambia continuamente e non mi lascia il tempo di misurarla. Adesso che ne parlo è già diversa da quella di cui sto raccontando, e forse è giusto che abbia come sfondo una terra che sta cambiando in fretta e una lingua fatta di segni che non so leggere.
Magari quando mi troverò a raccontare quel che sto vivendo oggi lo farò dall’esterno di una vicenda già conclusa, e tutti questi discorsi mi sembreranno ingenui, ma adesso, se ripercorro quella poca strada che abbiamo fatto insieme, se penso all’insieme di coincidenze che mi hanno portato al qui e ora, non posso fare a meno di trovarci una sorta di predestinazione.E in quella notte di natale, in quel brevissimo momento scollegato da tutta la burocrazia e l’attesa dei bagagli e il caos e gli episodi che seguono, in quei tre passi fra quando scendi dall’aereo e quando entri nel cordone ombelicale che lo collega al terminal, in quella manciata di secondi che è l’essenza del viaggio, io mi sento il padrone del mondo.

il vostro viaggio comincia qui

Ho anche importato illegalmente del formaggio e c’è un poliziotto che mi fa cenno di passare la valigia nello scanner. Ochei, l’amore mi rende invincibile, ma dubito che mi ponga al di sopra della legge. Chiudo gli occhi e mi stringo nelle spalle mentre il nastro nero si mangia i miei bagagli.
Li riapro, non è successo niente. L’amore vince ancora, oppure è lo scazzo del poliziotto che alle tre del mattino ne ha per le balle di radiografare valigie e interrogare tizi che neanche parlano la sua lingua.

 

Esco dal cancello, c’è Shasha che mi aspetta. Mi ha visto prima lei, io sono ancora col naso per aria a immagazzinare sensazioni nuove. Mi bacia attraverso la transenna, mi prende la mano, la valigia, mi porta fuori, saliamo in macchina e qualcuno ci porta via. Insieme, finalmente.
Non presto molta attenzione alla città fuori dal finestrino, ho delle mani da riempire per tutto il tempo in cui me le sono guardate senza sapere cosa metterci dentro.

Arriviamo a casa sua facendo un casino di svolte e infilandoci in stradine. Lei mi dice che domani dovrò fare quella strada lì per arrivare al suo hotel, me la ricordo? Certo, come no, giro tre volte su me stesso, batto due volte i tacchi e dico che la mia casa è il Kansas, nessun problema.

Quando finalmente vado a dormire è quasi mattina. Al risveglio lei non ci sarà, lavora ancora per qualche giorno. Sarò da solo in una città nuova, dove le persone non parlano inglese e le scritte sono incomprensibili, dove non esiste neanche Google Maps e il mio telefono è inutile. Aiuto.

(continua)

Vent’anni che te ne sei andato e vabbè, quand’è successo Freddie Mercury era già sei anni che lo rimpiangevamo, qualcuno neanche se n’è accorto, io per esempio ho dovuto andare fino ad Atene a scovare il tuo disco in un negozietto della Plaka per entrare nell’ordine giusto di idee e rendermi conto che avevamo perso qualcosa di grande, che se me lo fossi comprato al Porto Antico in quel grosso negozio che adesso non c’è più forse non avrebbe avuto lo stesso peso, l’avrei ascoltato tornando a casa in macchina e avrei detto vabbè, bell’atmosfera, e poi avrei messo su qualcosa che conoscevo meglio.

Così invece, al buio, in una stanza che neanche era la mia, con addosso quell’elettricità che ti viene quando sei in vacanza da solo in un paese che non conosci dove neanche sai leggere i cartelli e la tua unica compagnia è un tizio inquietante che va in giro con un caffetano nero e una pettinatura che neanche Scialpi, beh, l’effetto è stato lo stesso di un fiume che straripa dopo una pioggia intensa, ma senza l’odore di fangazza che resta dopo, sebbene dopo, nella stanza, ci fosse una puzza anche peggiore, ma giuro che non è stata colpa mia.

E non farmi parlare di quella sera in cui qualcuno a teatro ha messo su Hallelujah alla fine di una lezione difficile, perché quella volta lì altro che esondazione, è stato il Vajont, scusa il paragone, ma i tempi necessari alla bonifica e alla ricostruzione dopo l’onda sono stati pressappoco gli stessi, così come il panorama di chi mi guardava passare piatto e grigio, un orizzonte di morte da cui emergeva solo qualche detrito triste.

Lo so, scusa, non si parla di acqua in casa dell’annegato, come di corda in quella dell’impiccato o di politica in casa di mio papà sennò ti attacca dei pipponi che non finiscono più. Però sarebbe bello che dopo vent’anni di silenzio saltassi fuori dicendo dai, scherzavo, non sono morto, ero nascosto su un’isola deserta insieme a Amy Winehouse, abbiamo trombato come ricci per tutto questo tempo, ragazzi, che figata. Come dite? No no, lei è morta davvero, ma la necrofilia sarebbe un reato, perciò..

Che poi bello, insomma, finiresti per pubblicare un nuovo disco, le aspettative sarebbero altissime, e sono sicuro che resteremmo delusi, perché la musica è cambiata, noi siamo invecchiati, e tu a quel punto anche, ed essendo stato vent’anni su un’isola deserta a scoparti un cadavere non sono neanche sicuro che ci staresti tanto con la testa, chissà che roba verrebbe fuori. Immagino il terremoto all’annuncio del disco, i biglietti del tour venduti a un prezzo che uno se sapesse dove posteggiarlo ci si potrebbe comprare lo Shuttle, poi le recensioni sbalordite di chi l’ha sentito in anteprima, lo zoccolo duro dei fans che incaprettano i critici definendoli i soliti snob chiusi nel loro mondo non siete Lester Bangs non siete Carlo Emilio Gadda si fa fatica a capire cosa scrivete bontà di dio (e qui vorrei spezzare una lancia in favore di quei miei due tre amici che mi mettevano in guardia sui Lo Stato Sociale. Mi spiace ammetterlo, ma avevate ragione voi (però questa canzone mi piace lo stesso)), poi il disco esce e i fans li riconosci da lontano, sono quelli che camminano per la strada con gli occhi sgranati e parlano da soli, perché il disco è oltre la merda, è qualcosa che la merda stessa non aveva mai sentito prima di quel momento, è come prendere il peggio della musica mondiale e mescolarlo insieme e farlo cantare a Max Pezzali con arrangiamenti di J-Ax e poi chiedere al bravo cantante Mannarino di farci una cover e far remixare anche quella da.. non so chi ci sia adesso che fa queste cose, io sono rimasto a Fargetta, per me quando si nominava della roba che uno poteva ascoltare a scelta in discoteca o su Radio Deejay capivo che non era aria e me ne andavo a cercare una forchetta da conficcarmi in una tempia. Per fortuna non ne ho mai trovata, sennò questo post conterrebbe molte più virgole.

Insomma, il disco che potresti incidere se tornassi a suonare adesso dopo vent’anni di silenzio e idolatria non credo che sarebbe all’altezza delle aspettative, se mi passi l’understatement. Che poi è un po’ il problema dell’industria dell’intrattenimento, no? Che sia musica o cinema o letteratura fa poca differenza, il nuovo disco dei Guns’n’Roses oggi suona come il nuovo romanzo della famiglia Malaussène di Pennac, o il seguito di Blade Runner a distanza di ere geologiche: qualcosa che magari è pure di qualità, ma perché?

I morti stanno bene dove stanno, Jeff. Spero che tu non sia morto davvero, che stia su un’isola deserta a fare del gran sessone, magari non con quel che resta del cadavere di Amy Winehouse, insomma, anche alla creatività bisogna mettere un freno ad un certo punto, ma comunque a divertirti. E spero che ci resterai, perché siamo andati avanti, e se tornassi sarebbe un po’ come quando è uscito il seguito di Matrix, che uno può decidere di non guardarlo e fingere che non esista, ma tutto il mondo è lì a ricordargli che c’è, e la perfezione di quello che fino a ieri era l’unico Matrix possibile viene sporcata dall’idea che ci sia qualcosa dopo, e quando lo rivedi te lo godi lo stesso, ma meno. E io, scusa, ma Grace è qualcosa che non merita alcun seguito. Per i ricordi che si porta dietro, per la qualità delle canzoni.. Io i dischi postumi neanche li ho ascoltati, e comunque era roba uscita prima, erano demo, era il solito materiale vabbè che le iene buttano fuori per sfruttare il morto fino alla decomposizione.

Resta morto, Jeff. È meglio per tutti.

Sono felice, partiamo da lì.
E sono rintronato da tutti i baci e i morsi e le parole e le carezze, e drogato dal profumo della tua pelle e dalla sensazione che mi lascia sotto le dita, e abbronzato dal calore e dalla luce che emanano i tuoi occhi quando sorridi, e divertito da tutte le cretinate che ci siamo detti, che riempiono gli spazi e mi fanno pensare di avere trovato un altro pezzo di me perduto chissà quando.

Ho voglia di averti vicino domani, dopodomani, fra un anno, tirarti i capelli e lasciarti segni sul collo e baciarti per strada e metterti a letto e addormentarmi appoggiato alla tua spalla.
Succederà, e non sarà neanche la cosa più bella fra di noi.
Non siamo una cosa di passaggio, l’ombra su un muro di qualcosa che oh ma cos’era giurerei che fosse un volo di rondini impossibile non è stagione, siamo una formula scritta su un libro polveroso nascosto in una biblioteca celata nelle segrete di un castello sepolto dai rovi nel mezzo di una foresta cresciuta in mezzo a una valle che sta alla fine di un viaggio lunghissimo fra le montagne di una terra dove nessuno parla la tua lingua e quando provi a chiedere informazioni
si incazzano pure. Una cosa che quando la trovi diventi ricchissimo, tipo l’ingrediente segreto della cocacola che trasforma l’oro in piombo delle otturazioni nello studio del dentista.

Scusa, non ce la faccio a rimanere serio troppo a lungo, ma questa cosa la sento davvero, sei il tesoro dei pirati, la bella addormentata e tutto quello che ho sognato di trovare alla fine di un’avventura fin da quand’ero bambino. Non te ne andare.

Sei così bella da fare male, dove per male intendo quella cosa che mi invade quando mi sei così vicina e non posso toccarti.
È lo stesso disagio del ladro di opere d’arte, quello che vuole portarsi a casa la Gioconda per guardarsela tutto il giorno stravaccato sul divano. Che non sarebbe granché come piaga sociale, basterebbe permettergli di portarsi il divano al Louvre, ma la direzione non ne ha mai voluto sapere. I cavalletti per macchine fotografiche si, i divani no, e vagli a spiegare che con un cavalletto puoi martellare le statue più facilmente che con un divano.
Per esempio prima che lo visitassi io l’Atena Nike aveva anche la testa.

Se dovessi scegliere un quadro che ti rappresenti non vorrei accostarti a un Klimt, che il giallo e il rosso che vi accomuna sono un paragone facile, e tu facile non lo sei per niente.
Anche questa, a voler guardare, è una cosa che avete in comune, nessuno dei due si lascia scoprire a una prima occhiata, bisogna sedervisi davanti e studiare tutti i dettagli per mesi, e ogni volta scoprirne di nuovi; bisogna vincere la ritrosia e gli sguardi bassi, tuoi e del quadro, perché anche un quadro sa essere timido e sfuggente, e se non impari a starci davanti rischi di perdere tutta quella meraviglia che tiene nascosta fra i segni del pennello.

Io non lo so ancora che quadro mi ricordi, ho trovato il tuo viso in alcune poesie e ci sono tante canzoni che mi ricordano il tuo modo di sorridere, ma per il dipinto devi aspettare, è un processo lungo, devo frequentarti per un sacco di tempo, scoprire chi sei e come ti muovi e parli e l’effetto che mi danno le mie mani sulla tua schiena.

Certo che non sembrano cose legate fra loro e do l’impressione di cercare solo scuse futili per starti vicino, ma ti assicuro che importanti studi scientifici hanno dimostrato l’importanza del contatto fisico nella ricerca dell’ispirazione artistica.
E non cominciare a puntualizzare che non ti devo mica dipingere, ma solo associarti a un quadro, e allora casomai bisognerebbe conoscere i quadri e non solo per dargli dei titoli cretini; io non so dipingere, sei tu la pittrice fra noi, perciò casomai sarai tu che dovrai scoprire chi sono e come mi muovo e l’effetto che danno le tue mani sulla mia schiena.

Ecco, qui mi fermo un attimo e riprendo fiato, che ho appena avuto una visione pochissimo religiosa, ma mistica non hai idea quanto.

“Quindi dovremo trascinare via Polonio sui sassi?”, chiede lo Spettro. La domanda se la sono posta tutti appena la Maestra ci ha comunicato la nuova sede in cui porteremo in scena lo spettacolo di fine corso: le rovine dell’anfiteatro romano, ai Giardini Luzzati.

Avremmo dovuto recitare nel salone di un museo genovese, ma alla fine Teatro ha deciso che lo spazio a disposizione non era adeguato. Non era adeguato neanche il rapporto fra me e lo staff di quel museo, per una serie di ragioni che non ho voglia di raccontare, e proprio oggi festeggiamo un anno di sputi in faccia, perciò figurati se mi lamento. A dirla tutta io ero quello che a ogni lezione chiedeva se dovevamo andare a recitare proprio lì, forse li ho presi per stanchezza. Perché incontrarsi per strada e fingere di non vedersi è triste, ma stare tre giorni a stretto contatto, fra prove e recita, sarebbero stati giorni regalati alla morte. Almeno così non si fa male nessuno.

“Nessuno un cazzo!”, si lamenta Polonio, che proprio non gli va giù di finire scorticato sui sassi davanti a tutti i suoi amici. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che nella scena precedente, quando Amleto lo pugnala, verrà usato un pugnale vero, perché la Maestra insiste sul realismo, perciò in quella scena lui sarà già morto, ma morto sul serio, e i sassi non li sentirà neanche.

“Hai presente Amleto, no? Quello che l’anno scorso mi ha preso a testate alla prova generale. Secondo te riuscirà a ucciderti solo per finta?”

Me ne vado perché vedere un uomo che piange è davvero brutto. E poi devo provare la scena dove abbraccio la regina, e la maestra la vuole più realistica. Ho già cercato di metterle le mani nelle mutande, ma non basta ancora, dice che la regina me la devo limonare duro. Il problema è che le regine sono due, ci sono troppi attori per i pochi personaggi previsti, e alcuni ruoli sono stati divisi: due regine, due Ofelie, un solo becchino ma schizofrenico. E io due regine non le posso sostenere. Una è la mia vecchia conoscenza, Domenico Mugugno, che è come un gatto appeso alle balle ma peggio, come se appeso alle balle avessi un gatto con la katana; l’altra è Gloria, era la mia fidanzata al saggio dell’anno scorso, una storia ricca di passione che però non aveva resistito alla vaghezza dell’estate. Non ci eravamo più visti, lei aveva intrapreso una traversata dell’Australia a piedi da cui era tornata mezza rotta, diceva che l’aveva aggredita una banda di canguri, io ero stato assunto per fare la controfigura di quello che ha vinto Sanremo e per l’occasione mi ero anche fatto i baffetti come i suoi, poi mi hanno spiegato che sul palco avrei dovuto interpretare il gorilla, e che il costume non mi sarebbe servito, andavo già bene così.

La scena non funziona, la Maestra mi accusa di essere poco virile, tutte le donne mi perculano pesante, tranne Gloria, che mi guarda con compassione. Avrei preferito il perculo, è meno umiliante. Quasi quasi mi ritiro e Claudio glielo fate fare a qualcun altro. Oltretutto nel quinto atto sarò io a venire pugnalato da Amleto, e se proprio devo morire in scena vorrei che fosse una morte epica, tipo mentre uccido il crudele tiranno e faccio un discorso di libertà e giustizia che metà pubblico in sala si mette a piangere, non come uno stronzo fratricida ammazzato dal figliastro emo.

Poi vabbè, il pubblico in sala piangerà lo stesso, facciamo cagare a un livello mai visto, la settimana scorsa alle prove sono venuti i bambini della terza elementare, che porteranno in scena la nostra stessa versione della tragedia, e se ne sono andati disgustati.

Ad un certo punto Guildenstern si incazza, butta per terra gli occhiali da sole e si mette a urlare che a lei (sì, anche Guildenstern è una donna, e pure Rosencrantz, e si allude pure a una loro affettuosità particolare, e a me immaginare queste due in atteggiamenti intimi scusate vado un attimo di là) nessuno ha ancora spiegato se Guildenstern alla fine muore o no, e se non lo capisce non riesce a dare sufficiente profondità al suo personaggio e a rivestirlo di quella particolare drammaticità che il destino ineluttabile posa leggero sulle persone segnate dalla sventura. Lo dice proprio così, come a La Vita In Diretta, e tutti ci lasciamo sfuggire un oooh di ammirazione.

“Ragazzi, che roba! È da questa precisione che si riconoscono i professionisti!”, dice Laerte.
Non lo so, ero distratto, le guardavo le tette, scusate.

La Maestra le spiega che alla fine muore proprio come nella tragedia, ma muore fuori scena, mentre accompagna Amleto in Inghilterra. Lei però non ci sta, vuole morire in scena, davanti a tutti, anche a costo di spostare la recita in Inghilterra.
Rosencrantz, che è sempre molto gentile e cerca di riportare armonia, si offre volontaria per spaccarle la testa con un sasso appena terminata la loro parte. Così la vedranno tutti, e poi pensa che immagine suggestiva, su quel fondale bianco, il rosso del tuo sangue che schizza addosso agli spettatori. La convince. Avrebbe convinto anche me, Rosencrantz è una che parla poco, ma quando lo fa lascia il segno. Perché sputazza.

Tutto sembra sistemato e le prove possono riprendere. Entra Ofelia, quella pazza del quarto atto, non quella depressa dei primi tre, e mette tutti a sedere con un’interpretazione che neanche Al Pacino, guarda.
L’unica perplessa è l’altra Ofelia, gelosa di essere stata messa da parte, che fa sentire la sua voce querula: “Al Pacino non ha mai recitato nell’Amleto!”
“E infatti mi riferivo alla sua interpretazione di Ofelia nel Riccardo III!”, le risponde la voce fuori campo, che poi sono sempre io, che sono una primadonna e il ruolo dell’antagonista non mi bastava. Oppure è che spero in un ruolo secondario che mi eviti di finire ammazzato male.

“Ragazzi, io ve lo devo dire, fate cagare”, commenta la Maestra. E tutti ci demoralizziamo. Poi aggiunge: “Non tutti però”, e ci risolleviamo, perché dentro di sé ognuno è convinto di essere l’eccezione. “Voi due per esempio fate molto peggio che cagare, siete così imbarazzanti che la settimana scorsa dopo le prove mi ha telefonato Shakespeare per insultarmi”. Parla ovviamente di me e di Domenico Mugugno, che se non la tengo le tira gli stivali. Io non mi offendo, la Maestra può dire quello che vuole, e poi ha ragione, ma il teatro per me non è che una copertura, il lunedì sera prima di lezione vado a spacciare crack in un vicolo dietro la sala prove. Per Domenico è diverso, lei è una donna sensibile. Sì, donna, si chiama Domenico perché i suoi genitori volevano un maschietto ma ahimè è nata lei, nella culla le han messo un fioretto, lady dal fiocco blei.
Si chiude in un mutismo che non le ho mai visto, sembra davvero ferita, tanto che mi viene da cercare di consolarla. Le dico qualcosa di gentile, tipo che ha delle belle scarpe, ma lei mi ferma subito con la sua voce da aquila strozzata “Non me ne frega un cazzo delle scarpe! Io voglio sapere se sono brava a recitare!”

Le dico che ha anche una bella giacca.

Alla fine della lezione metà degli attori ha deciso che non proseguirà, ma la Maestra non si arrende così facilmente, è una tosta lei. Ognuno dei superstiti farà quattro personaggi, per quelli che si troveranno a interpretare più di un ruolo nella stessa scena verrà studiato un abito mezzo in un modo e mezzo in un altro, così basterà mostrare al pubblico il profilo giusto. Come un cattivo di Mazinga. Capocomico si ritrova a dover fare tutta una scena da solo, interpretando a giro Ofelia, Laerte e Polonio. Fra l’altro in quella scena Ofelia dovrebbe stare in braccio a Laerte e i due venire interrotti nel loro chiacchiericcio fraterno dall’arrivo di Polonio. Però è una brava attrice, Capocomico, e ci mostra come si fa a portarsi in braccio da soli e poi rientrare come terzo personaggio: è un trucco che ha imparato a un workshop con uno che aveva studiato da Franco Basaglia.

Ovviamente cade e si spezza un femore in tre punti. Nessuno dice niente, se l’è andata a cercare, però adesso qualcuno dovrà caricarsi sulla schiena anche la sua parte.

La Maestra continua a dire che va bene, ma adesso qualche dubbio è venuto anche a me. Il 13 maggio si avvicina, e rischiamo di non arrivarci preparati a dovere.

Per fortuna che ai Giardini Luzzati c’è un bar: il grosso vantaggio di presentarsi ubriachi spolpi al proprio spettacolo è che senza dubbio darai spettacolo. E non sarai neanche lì ad assistere!

 

 

Ci incontreremo un venerdì sera, io sbucherò da un vicolo e tu sarai lì a un metro, di spalle. Mi riconoscerai dalla voce e ti volterai a salutarmi, ma io avrò avuto tutto il tempo di riconoscerti dai capelli, dal modo in cui tieni le spalle, dal profumo, dal modo in cui mi si annoda lo stomaco quando ti vedo. Nel tempo che impiegherai a voltarti io mi sarò già innamorato di te tre volte.

Riderai dei miei baffi, dirai “Ho visto le foto, per me è un no”, ma i tuoi occhi la penseranno diversamente.
Non mi presenterai l’uomo che fino a un momento prima ti teneva la mano, né io ti farò conoscere la tizia che mi sta accanto. Più tardi ci giustificheremo con loro sentendoci un po’ ladri, e non sapremo perché.

Mi scriverai il giorno dopo, dirai sai quel film di cui abbiamo parlato ieri. Non avremo parlato di nessun film, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, e cominceremo così, con una scusa patetica. Ti farò ridere, ti darò una scusa per scrivermi ancora, e quando non lo farai sarò io a inventarmi un pretesto. Ci scriveremo tutti i giorni all’ora di pranzo perché ti distrae dal lavoro, spesso la sera perché non c’è niente in televisione, ogni tanto il sabato sera perché non avevamo voglia di uscire.

Lasceremo passare diverse settimane senza che succeda altro, finché un giorno troverò il coraggio di chiederti se sta succedendo davvero, e tu mi risponderai che stavi per farmi la stessa domanda.
Io dirò che avevo scambiato le tue attenzioni per amicizia, che non pensavo davvero che tu di nuovo, che sapevo che tu di nuovo mai nella vita perché.
Tu dirai che avevi scambiato le mie attenzioni per amicizia, che non pensavi davvero che io di nuovo, che dopo tutto quel che era successo volessi ancora che.

Allora ti inviterò a cena. Siederemo imbarazzati vicino alla finestra, senza il coraggio di guardarci fisseremo il cartello che dice “no bancomat no carte di credito”. Parlerò per primo, è sempre toccato a me cominciare e a te chiudere, ma stavolta non saprò cosa dire. Per la prima volta mi troverò a fissare i tuoi occhi e non troverò le parole.
Tu riderai, dirai qualcosa su giorni da segnare sul calendario, io non sentirò niente, i miei neuroni si staranno facendo le mèches col tuo sorriso, quello che mi regalavi quand’eravamo soli. Ho baciato tante di quelle volte le tue labbra tirate che mi sembrerà di sentire il rumore dei nostri incisivi che si scontrano.

Parlerai tu. Dirai qualcosa sulle emozioni e l’imbarazzo e il tempo e non lo so cosa dirai, non ti starò ascoltando, capirò solo che la tua bocca si sta muovendo e che è proprio lì che vorrei essere, di tutti i posti bellissimi su questo pianeta non me ne verrà in mente nessuno migliore, e allora supererò i tovaglioli e i piatti e le posate e la macchia di sugo e il mezzo panino e le briciole e la carta dei grissini e le acciughe fritte e arriverò lì, e tu mi accoglierai ridendo, e si sentirà il rumore di incisivi che sbattono, e per la prima volta dopo tanti anni mi sentirò di nuovo a casa.

Ci rivedremo il giorno dopo e quello dopo ancora, ci racconteremo dei giorni in cui avrei voluto chiamarti per raccontarti di averti sognata, e di quando avresti voluto chiamarmi perché avevi voglia di portarmi al cinema, e di come nessuno ha chiamato nessuno, perché tutte le storie finiscono annegate nei formalismi, e ci sentiremo due cretini per tutto questo tempo sprecato a cercarci nella faccia di altre persone, a chiederci perché non erano mai abbastanza divertenti, abbastanza affettuose, perché stare con loro senza parlare ci metteva a disagio.

Passeranno settimane e mesi e smetteremo di contarli e di stupirci, ci arrenderemo all’evidenza, cominceremo a guardare avanti, solo che avanti non ci sarà granché da vedere: me ne andrò pochi mesi più tardi, a novantasei anni.

Saremo stati insieme poco più di quell’altra volta, ma sarai stata la cosa più bella che mi sia mai capitata.
Di nuovo.

Il suo nome non era Ettore Majorana, ma lo diventò quando scomparve.
Oddio, scomparve. Non è che si smaterializzò in un fascio di luce extraterrestre, immagino che abbia continuato a guardarsi nello specchio del bagno come faceva prima; la sparizione è un concetto transitivo che colpisce tutte le persone tranne quella che ne è vittima.

Per me la scomparsa di Majorana avvenne il 2 febbraio, martedì grasso.

Volevamo andare a un ballo mascherato, ma non eravamo riusciti a metterci d’accordo sull’abito, io volevo vestirmi da tassista romano che porta la sua cliente all’ospedale, lei da Napoleone a cavallo che valica il San Bernardo, e pretendeva che io andassi in giro con una fiaschetta di liquore appesa al collo e lei arrampicata addosso. Non ci sarebbe stato niente di male, l’idea di averla appiccicata alla schiena mi faceva sorridere in quel modo scemo che tutti vorremmo durasse per sempre, ma secondo te vado in giro con una fiaschetta piena di alcool e non me la ingoio intera? Era irrealizzabile.

L’unica festa dove potevi entrare senza costume era quella dell’Opus Dei, dove l’unica regola era non divertirsi troppo, se ti beccano sono trenta padrenostri e passare il resto della serata con un limone in bocca.

“Mi faranno entrare vestita così?”

Indossava un maglioncino a collo alto, una gonna che non arrivava al ginocchio e un paio di stivaletti che si fermavano parecchio più in basso. Le sue gambe invitavano al peccato.

“No, ma mi darà un’ottima scusa per trascinarti a casa e far piangere Gesù”

Il suo hmm malizioso mi fiorì la testa di immagini che sono sicuro che ci siamo capiti.

Poi eravamo dentro. La fila per il bagno si incrociava con quella del bar, ma riuscivano a separarsi prima di rovinare la brocca della sangria. I tavolini erano coperti da pizzi a forma di croce, su ognuno era posata una copia del Vangelo e un bel rametto di gigli.

Sul palco in fondo alla sala quattro suore svisavano di brutto le hit di Fra Cionfoli, e proprio non riuscivi a stare seduto: la pista era piena di coppie che si stringevano voluttuosamente la mano, l’aria vibrava di elettricità e voglia di lasciarsi andare, sentivi che sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa.

Dopo due ore non era successo niente. Le hit di Fra Cionfoli avevano lasciato il posto alle consuete nenie, e per sfuggire all’ennesima riproposta di Camminerò mi trascinai al bar a prendere due succhi di frutta, che della sangria continuavo a non fidarmi, e tanto era analcolica pure lei. Nel mio bicchiere feci mettere del ghiaccio per sentirmi trasgressivo.

Quando tornai al tavolo Majorana non c’era più, era sparita la sua giacca e la sua borsetta. Non era sulla pista, non era nel bagno degli uomini. In quello delle donne non mi lasciarono entrare, ma non vedevo ragioni per cui avrebbe dovuto trovarsi lì: le donne e gli alpinisti fanno la pipì in cordata, e lei era entrata alla festa senza accompagnatrici, non raggiungeva il quorum.

Per rendere più enfatico il mio dolore per la scomparsa di Majorana racconterò al rallentatore la scena che seguì.

Salita leeenta di mani che arpionano una faccia.
Bocca che si apre sulla lettera o.
Cielo che si tinge di onde gialle e rosse.
Lettera di diffida dall’avvocato della famiglia Munch.
Messaggi di stima dalla curva della Roma.
“Nnnuoooooohh! Mmuaaaaaiuooooruaaaaaanaaaaaaa!”

Più tardi, a casa, Gesù lo feci piangere da solo.

Nei giorni che seguirono la chiamai al cellulare, le scrissi lettere, spedii messi a cavallo fino al suo villaggio ai confini dell’impero, poi bruciai le sue lettere per inviarle segnali di fumo, pugnalai le sue foto perché dalle ferite che avrebbero dovuto aprirsi sul suo petto potesse ricavare una specie di codice morse, banchettai coi suoi capelli che ancora trovavo sul cuscino, ma quello perché il raffreddore mi costringeva a dormire con la bocca spalancata.
Poi smisi di cercarla.

Ripensavo ai momenti trascorsi insieme e a quelli che li avevano preceduti, quando eravamo solo due che si divertivano a raccontarsi idiozie, e pensai che in fondo saremmo potuti tornare a quell’amicizia disinteressata, non è che due perché finiscono a letto non si devono parlare più. Solo che lei si disinteressava alla mia amicizia disinteressata: si recava a Napoli, saliva su traghetti alla volta di Palermo e scompariva. Chi dice di averla vista in Argentina cavalcare nella pampa, chi ha sentito il suo canto salire dal fondo del Tirreno ma non capiva che canzone fosse neanche usando Shazam, chi la vede tutti i giorni e la sa felice. Ogni tanto vedo la sua faccia spuntare nella rete, mi verrebbe da dire ciao come va, ma so la distanza dalle relazioni finite, va innaffiata tutti i giorni sennò appassisce ed è un attimo ritrovarsele davanti al portone con la mano tesa a chiederti indietro un libro o un po’ di sesso, e hai un bel dire che non sei così e vorresti solo. Cosa? Vorresti solo salutare, sapere come sta, cosa fa. Certo. Solo che volere solo è già volere, Io Voglio. Da una parte ci sei tu che vuoi e dall’altra qualcuno che ha deciso di non vederti più, cui non interessa neanche sapere come stai.

Lasciamo perdere, le cose prive di equilibrio sono destinate a cadere per terra. E poi non è un caso che Ettore Majorana abbia collaborato con Werner Heisenberg, il cui principio di indeterminazione ci ricorda grossomodo che, quando due grandezze fisiche non possono essere misurate entrambe nello stesso momento, sono dette incompatibili.
Resta una manciata di ricordi e una tendenza al magone, più per la freddezza del dopo che per la fine del durante. Restano delle perplessità che sono come tarli annidati nelle vecchie fotografie.

Non resta altro.

Quello che segue è un post che ho tenuto in cantina per un anno intero. Avrei voluto farne una puntata di centotre-e-tre, ma lo scrivo talmente di rado che chissà se sarei mai riuscito a collegare Renato Rascel e Laura Nyro, e nel frattempo passa un anno, e di quella bella serata milanese neanche una riga, nonostante ci abbia incontrato una delle persone più belle e preziose che mi sia mai capitato di conoscere. Su quel che è venuto dopo solo un paio di accenni qua e là, perché volevo prima raccontare l’inizio e poi il seguito, solo che il seguito è finito prima di raccontare l’inizio, e allora non aveva più molto senso.

La metto qui, come un saluto da lontano.

Sono a una festa di compleanno in mezzo a persone mai viste prima, e questa sconosciuta mi inciampa addosso, rovesciandomi un cocktail sulle scarpe. Le dico che non fa niente, non mi ha neanche preso, la maggior parte è finita sul tappeto, ma lei si prodiga ancora in scuse, la faccia tutta rossa che s’intona col vestito a fiori, e cercando un tovagliolo per pulire almeno il tavolino, scivola su un cubetto di ghiaccio e finisce in braccio alla festeggiata.

“Guarda, è meglio che ti siedi e ti riprendi”, le suggerisce l’amica e me la deposita accanto.

È molto carina, i suoi occhi chiarissimi mi osservano senza più il minimo imbarazzo:

“Mi chiamo Lisa”, mi dice. E ci stringiamo la mano. Solo che nel porgermi la sua scontra il mio bicchiere e me ne fa cadere mezzo sui pantaloni.

“Oh no!”, esclama, e si butta in avanti per recuperare il tovagliolo di prima, versando il resto del suo cocktail sul divano. Ormai è come stare in piscina, mi sfilo le all star e indosso un paio di comode infradito.

“Forse è meglio se cambiamo posto”, suggerisco.

“Forse è meglio se cambiate bar”, replica il cameriere intervenuto a pulire.

Per rabbonirlo ordiniamo due bibite alla frutta e andiamo a sederci in un posto asciutto, camminando con attenzione e guardando bene dove mettiamo i piedi, soprattutto i suoi.

È piacevole parlare con lei, mi fa sentire subito a mio agio posando il bicchiere lontano dai miei vestiti, e poi mi fa un sacco di domande, e quando rispondo con le mie idiozie non butta neanche occhiate nervose alle amiche sperando che qualcuna venga a salvarla.

Parliamo delle cose che ci piacciono, come fanno di solito le persone che si sono appena incontrate, e mentre si avvolge ciocche di capelli intorno alle dita mi racconta della sua passione per la musica. È preparata, ascolta un mucchio di roba che non conosco, e parte con due gol di vantaggio e l’uomo in più semplicemente dicendo che le piace Tom Waits.

Poi mi racconta di questa cantante, Laura Nyro. Si sente che è la sua cantante preferita, le si sono accesi gli occhi come fari, le dita si sono fatte più veloci, adesso accompagnano le parole volando di qua e di là in gesti ampi, che però vengono frenati dalle ciocche di capelli ancora intrecciate alle dita, e gli strattoni che dà le provocano strilli di dolore.

Riprende il bicchiere con indifferenza, ma si trafigge con lo stecchino. Allora si infila in bocca una fetta d’ananas, che ovviamente le va di traverso, e attacca a tossire. I pezzetti di frutta che espelle dal naso non le tolgono una briciola di fascino, e quando mi rovescia adosso il bicchiere cercando di mettersi una mano davanti alla bocca non cerco neanche più di spostarmi. Mi ha conquistato, lo ammetto. Sarà che da bambino ero innamorato del tenente Crandall, la bella infermiera pasticciona di Operazione Sottoveste, ma non vorrei più alzarmi da quel divano. E neanche credo che potrei, ormai l’alcool e lo zucchero mi hanno avvolto in un bozzolo talmente appiccicoso che per tirarmi via di lì servirà un lanciafiamme.

La serata prosegue senza grossi incidenti, portano la torta che finisce, ovviamente, sul pavimento, il cameriere rimedia un paio di ferite lacero-contuse e per l’abbinamento candeline/vodka sulle pareti manca poco che arrivino i pompieri, ma devo essere onesto, non è stata colpa della mia nuova amica, quando il cameriere ha portato la torta era in bagno.

Per la precisione ne stava uscendo, e come faceva a sapere che dietro la porta c’era un tizio con una torta in mano?

Credo che sia stata una serata piacevole anche per lei, perché quando ci hanno cacciato dal locale ha accettato volentieri di continuare altrove.

Peccato che l’abbia investita un taxi mentre attraversava la strada.

Adesso è in ospedale, non è gravissima, e se la legano bene al letto dovrebbe guarire senza altri incidenti.

Nel frattempo ho cominciato ad ascoltare Laura Nyro, di cui vado a raccontare qualcosa, per chi non ha trascorso la serata con la sua fan numero uno in un locale che ha chiuso per restauri e non riaprirà prima del 2017.

New York negli anni ’60 è un calderone di generi musicali, tutti gli artisti che contano sono lì, Joni Mitchell, Diana Ross, Miles Davis. Se ne vanno in giro alle feste, quando si incontrano suonano insieme, salutano tutti.

Laura Nyro invece sta a casa, chiusa in cameretta a guardare dalla finestra le gang del Bronx che imperversano sul marciapiede. Nessuno la invita alle feste, le ragazze del Bronx hanno la fama di dure, e così lei s’incupisce e scrive canzoni tristissime che si canta da sola con quella voce incredibile da cantante gospel, che non ha mai potuto far sentire in chiesa, perché nel suo quartiere la chiesa l’hanno bruciata quelli della gang di Coney Island, li stanno ancora cercando, mi sa che non ci tornano nel loro quartiere.

Quando Laura canta anche le strade del Bronx si addolciscono, gli spacciatori si trovano un lavoro onesto, i mafiosi si costituiscono, le gang si iscrivono alle scuole serali, e i marciapiedi ripuliti si popolano di coniglietti, uccellini e caprioli.

Poi la magia finisce, perché le canzoni che Laura scrive sono davvero tristissime, e i coniglietti si buttano in massa sotto il tram, i caprioli si tagliano le vene e gli uccellini si annegano nell’Hudson.

Davanti a quella carneficina il padre di Laura, Louis, che suona la tromba nei locali, decide che è ora di dare una direzione a tutto quel talento, prima di beccarsi una denuncia da qualche associazione ambientalista, e la mette in contatto con Artie Mogull e Paul Berry, due produttori che conosce lui.

Grazie a loro Laura Nyro vende una canzone a un trio folk che sta andando molto forte: Peter, Paul & Mary, che noi conosciamo grazie a “Datemi Un Martello”, di Rita Pavone, e vabbè, ognuno ha i folk singers che si merita.

È dello stesso periodo la sua prima esibizione da professionista, in un nightclub di San Francisco, l’Hungry I (angri ai, non angri uno, e non chiedetemi perché), dove ha cominciato la sua carriera, fra gli altri, Woody Allen.

La sua seconda esibizione da professionista non è alla pizzeria Moromare, ma al Monterey Pop Festival. Quel giorno sul palco passa gente del calibro di Otis Redding, i Byrds, Janis Joplin con i suoi Big Brother & The Holding Company, e i Mar-Keys, che tutti vi chiederete chi cacchio sono, sono il gruppo in cui militò Donald “Duck” Dunn, il bassista dei Blues Brothers.

La sua esibizione è un successo, ma Laura si è convinta di avere fatto schifo, ha sentito dei fischi, c’è rimasta malissimo e vuole tornare a chiudersi in cameretta.

Per fortuna l’ha sentita anche David Geffen, uno che sta cominciando a muovere i primi passi di una carriera che lo porterà abbastanza in alto, tipo sulla luna, con un bambino seduto a cavalcioni che pesca in un laghetto: avete presente la Dreamworks, quella che ha prodotto l’ultimo film che avete visto al cinema, e anche quello prima? L’ha fondata quel David Geffen lì.

Fra il ’68 e il ’71 Laura Nyro pubblica i suoi cinque album migliori, poi si sposa e decide che non ha più voglia di fare la cantante di successo, che quella vita lì non le piace mica.

Cinque anni più tardi è il suo matrimonio a finire, e pubblica un disco nuovo. Si vede che non si era spiegata bene.

Da lì in avanti pubblica altri dischi, ha un figlio, una vita piuttosto intensa e non priva di dolori che termina molto presto, quando ha appena 49 anni.

Ma che genere fa Laura Nyro?

La prima cantante a cui mi viene da accostarla è Joni Mitchell, ma senza quella vena folk che attraversa tutta la sua produzione. Qui siamo più dalle parti di Nick Drake, ma anche Jeff Buckley, tutto messo a macerare in un pentolone di rhythm’n’blues. Sono canzoni intense, di quelle che se stai ad ascoltare finisci per sederti e non fare altro, si prendono tutta la tua attenzione, ma sono anche piuttosto malinconiche: il dolore e la solitudine sono temi ricorrenti nei suoi testi, e l’atmosfera notturna che dà il pianoforte fa il resto. Diciamo che se siete appena stati scaricati dalla fidanzata e tornando a casa vi hanno rapinato e nella cassetta della posta c’è quel referto medico che stavate aspettando e che comincia con “prima di andare avanti a leggere forse è meglio che si sieda”, ecco, magari è meglio se mettete su Jovanotti, tipo.