Se il titolo urta la vostra sensibilità potete tranquillamente sostituire “negri” con “poveri”, tanto è di quello che stiamo parlando, ma credo che “negri” sia più appropriato: secondo me vi stanno sul cazzo anche i negri integrati, quelli che non sono sbarcati stamattina sulle nostre coste e minacciano la vostra sicurezza.

È di questo che vorrei discutere con voi, direttamente, senza fare tanti giri e nasconderci dietro il diritto internazionale, dietro quelli che sugli sbarchi dei migranti ci lucrano, dietro la differenza fra clandestini e richiedenti asilo, tanto lo sappiamo che sono tutte cazzate, che di diritto internazionale ne sapete quanto ne so io, che equivale a zero.

La verità è che queste persone voi non le volete perché sono negri. Non neri, africani, stranieri, no, non cerchiamo compromessi politicamente corretti, nella vostra piccola testa (perché è piccola, limitata e sta soffocando, ma agli insulti ci arriviamo dopo) sono negri. Come nel secolo scorso, come nelle barzellette che vi raccontavate da bambini, nell’immaginario collettivo da cui abbiamo pescato tutti per un po’, voi e io, e che adesso qualcuno ci sta smontando perché sarebbe offensivo. Adesso non li potete più chiamare negri, considerarli inferiori, fargli il verso usando la b al posto della p e coniugando tutti i verbi all’infinito. Adesso l’ultimo scalino della scala evolutiva non può più essere occupato da un africano dalla pelle scura, perché è sbagliato, è degradante, e già che ci siamo da oggi toccare il culo a una donna, fischiarle quando passa per strada, fare apprezzamenti sul suo fisico, è considerato una molestia sessuale, e si rischia la denuncia.

Lo so, è difficile da accettare per qualcuno dall’intelligenza limitata come voi (no, neanche adesso vi sto insultando, quello me lo tengo per dopo), ma averla passata liscia per tanti anni non significa che il vostro comportamento fosse giusto, solo che i giudici erano ottusi quanto voi.

Ma torniamo ai negri. Se aveste delle obiezioni serie al loro arrivo nel nostro Paese non ci sarebbe niente da dire, un pezzo come questo non lo avrei neanche scritto e avrei passato di sicuro una serata migliore davanti a un film, ma quando vi chiedo perché siete contrari all’immigrazione mi rispondete con una cantilena di luoghi comuni e cazzate così ignoranti da farmi esplodere il fegato. Sono sempre le stesse, a chiunque chieda un parere ottengo sempre la medesima risposta, si vede che anche formulare un pensiero personale vi costa troppa fatica, e prendete per buono il primo che trovate su facebook, postato da un altro genio amico vostro.

Sciorinate sempre lo stesso articolo, la stessa foto, lo stesso commento. Avete un’unica fonte di informazione, che gira e rigira siete sempre voi, chiusi in un recinto che non ammette altri punti di vista.

Potrei redigere un elenco dei luoghi comuni dietro cui vi nascondete, e spiegarvi perché sono tutte cazzate. Potrei fornirvi numeri, mostrarvi le fonti e suggerirvi di andarvele a leggere, ma sarebbe tempo sprecato, a voi non interessa informarvi, volete soltanto crearvi un alibi che vi permetta di sfogare il vostro razzismo senza sentirvi in colpa.

Qualche anno fa era più difficile, esisteva un’idea comune di razzismo, e più o meno si cercava di tenersene lontani. Non era accettabile semplicemente perché non c’era nessun leader a difenderlo. Al limite qualche nostalgico del nazismo, ma erano troppo pochi e mal rappresentati; assecondare il loro punto di vista era ancora considerata una cosa deplorevole.

Oggi le cose sono cambiate, oggi avete un leader, uno del popolo, uno che vi rappresenta in Parlamento senza ricorrere a tutta quella baracconata di svastiche e saluti col braccio teso che evocano un sacco di ricordi sgradevoli. Lui non vi chiede di imparare a marciare al passo dell’oca, vi lascia liberi di manifestare il vostro razzismo più genuino, quello che coltivate da sempre verso il diverso, l’altro, con la pelle di un altro colore e abitudini che non riuscite a capire, che parla un’altra lingua e vi fa sentire ignoranti.

State sereni, non è che vi sentite ignoranti, lo siete. Non studiate mai niente a fondo, per voi la conoscenza è una perdita di tempo, i giornali sono una perdita di tempo, i libri li avete abbandonati insieme alla scuola.

E ve ne fate un vanto. I vostri nonni si toglievano il cappello davanti al “ragioniere”, dove ragioniere significava qualcuno che aveva preso una laurea, ma anche solo un diploma. Voi disprezzate chi parla di cose che conoscete, avete elevato a virtù la vostra pochezza, e decidete da soli a chi dar retta.

Di solito è quello che parla più semplice, che vi spiega le cose in due parole e in altre due vi fornisce una soluzione. Perché la ragione è faticosa, molto meglio polarizzare, cancellare le sfumature, giusto e sbagliato, buono e cattivo, eroe e mostro. Un’intelligenza binaria che si pone al di sopra di qualunque laurea. Cosa contano anni di studi, esperienze, titoli, di fronte a un articolo su internet che dice che i vaccini provocano l’autismo? L’omeopatia, il fruttarianesimo, non esiste un limite alla vostra accettazione dell’esotico: se una cosa la fanno in tre non significa che non funziona, ma che i poteri forti la vogliono tenere nascosta, quindi è lì che si nasconde la verità. Siete così propensi al complotto da bervi qualsiasi idiozia vi venga propinata, basta che ve la dicano a bassa voce.

Vi credete liberi pensatori, ma è perché siete così ciechi da non vedere più le sbarre.

Ma sto divagando, volevo parlare degli idioti razzisti e sono finito a trattare degli idioti in generale, ma se metto in mezzo anche loro non finisco più.

Restiamo a noi, cari piccoli razzisti dei miei coglioni. Non sarebbe più semplice se ammetteste il vostro fastidio? Invece di trascinarci in conversazioni odiose, a fare la gara a chi ce l’ha più grosso, a tirarci fuori spiegazioni che neanche ascoltate, non sarebbe più rapido se diceste chiaramente che voi questi qui non li volete perché sono negri?

Non gli stranieri, in Italia arrivano molti più cinesi e ucraini che africani, ma non ve li cagate di pezza. Si comprano i vostri negozi, i vostri bar, le vostre squadre di calcio, il vostro lavoro e non fate una piega, per voi il nemico da abbattere è l’africano che raccoglie pomodori a tre euro l’ora e ruba il lavoro agli italiani. Come se ci fosse un italiano disposto ad andare a raccogliere pomodori a quella cifra. Neanche più i caporali sono italiani oramai: rendeva troppo poco anche maltrattarli, i negri.

Ora non è che voglio puntare il dito contro i cinesi, per me se mi danno un lavoro mi ci trasferisco pure, a casa loro, e ve la lascio questa bella Patria da difendere. Magari torno fra vent’anni, a vedere cosa siete stati capaci di fare. Se li avete cacciati tutti alla fine, se avete chiuso i porti, vi siete fatti rispettare dall’Europa, avete fatto la voce grossa con la Germania cattiva.. No, non cattiva, nazista. Per voi la Germania è ancora nazista. Poi bruciate gli zingari dentro le roulottes, ma i nazisti sono loro.

Mi fate proprio cagare, e non tanto per il vostro razzismo, quanto perché siete così vigliacchi da non ammetterlo neanche. Perché siete ignoranti, sprofondati nella vostra pigrizia, così limitati da non vedere l’ovvio, da cadere sempre negli stessi errori. Avete avuto un leader carismatico che vi ha portato in guerra, ma vi siete dimenticati e ne avete eletto un altro. Avete scoperto che rubava e ne avete eletto un altro. Che mentre andava a zoccole vi ha lasciati in mutande, e ne avete scelto un altro. Altri due, che uno solo non bastava. Questi non hanno neanche dovuto sbattersi a costruirsi un’immagine di leader vincente, siete così disperati che vi buttereste tutti in fila dietro Wanna Marchi, se fondasse un partito e vi promettesse di darvi gratis la sua polverina magica.

No, non disperati, idioti.

A Milano è appena terminato il salone del mobile, e io non ci sono andato, e adesso me ne pento. Mi succede tutti gli anni, mi dicono salone del mobile e io penso a capannoni pieni di cassapanche frequentati da coppie dove lei indossa il golfino e i tacchi e tiene a tracolla una borsetta dolcegabbana e dice cose tipo guardaammore quello starebbe benissimo nella stanza di Cristiano Malgioglio III, perché i nomi americani tipo Chevin non piacciono più e le coppie moderne oggi cercano di darsi un tono senza però abbandonare quella vena nazionalpopolare che li fa sentire fieri della propria italianità che noi siamo un popolo che non si deve vergognare di fronte a nessuno e difatti non hanno nessuna vergogna proprio, e da altre coppie più appesantite dagli anni con figli al seguito che tengono gli occhi sulla chat dove stanno scrivendo roba tipo minkiakeppalle alle loro amichette e tu li devi evitare come i relitti alla deriva, ma senza cattiveria, che un po’ ti senti solidale con la loro noia, e neanche hai delle amichette a cui scrivere.

E invece il salone del mobile di Milano è quella roba fighissima di design sparato ovunque per la strada in stanze buie piene di sculture di legno e neon e glitter che ce n’è tanto che secondo me i tuoi pori lo assorbono e poi ti viene la leucemia e inaugurazioni di gallerie d’arte dentro ex stazioni ferroviarie dove omosessuali spiritosi passano il tempo a coniare neologismi che poi le nostre fidanzate useranno a sproposito per spiegarci come intendono decorare la camera da letto per la settima volta quest’anno.

Che poi ho visto le foto e sono sempre le stesse, il mio instagram è pieno di persone che sono state al salone del mobile e l’hanno documentato secondo il proprio gusto, e o tutti i miei contatti su instagram amano i baretti coi neon e i glitter della morte o il salone del mobile di Milano consta di due ambienti due e tutto intorno la solita città del resto dell’anno, solo più affollata e con molti più sacchetti dello stesso colore, ma quello succede anche quando ci sono i saldi da Zara, non ci si fa più caso.

Solo una mia amica ha postato delle foto di una roba che poteva essere una galleria d’arte, e che non ho visto fotografata da nessun altro: c’erano delle sculture tipo animali, mostri, creature uscite dalla fantasia di scrittori dell’occulto tipo Salvini, e tutte fatte con roba che sembrava balsa, sai quel legno piatto e leggerissimo che si usa per fare gli aeroplanini e i dinosauri, che li metti insieme incastrando i pezzi senza usare la colla e che in vetrina sembrano solidi e in grado di resistere alle ere geologiche e solo a te vengono fuori tutti traballanti che non li puoi toccare sennò si disfano e finiscono a morire su una mensola sepolti dalla polvere che oltretutto su quel legno lì ci si deposita che è un piacere? Il legno di balsa non so da che albero viene estratto, credo dall’albero della balsa, che sono piante leggerissime e piatte che tagli a fette della forma che ti pare, ma che in giro non si vedono mai perché prima devi scavare sotto quintali di polvere e chi ne ha voglia.

A Genova intanto siamo meno mondani che a Milano, ma un po’ di mondanità ce l’abbiamo anche noi, e questa settimana comincia euroflora, che per chi non è del posto sarebbe una fiera come quella del mobile però coi fiori, ognuno espone quello che conosce meglio, qui c’è la riviera dei fiori e abbiamo l’euroflora, là si fanno un sacco di seghe e c’è il salone del mobile. Anche la nostra città è tutta colorata e ricca di iniziative che rimandano all’attrazione principale, e per farla più colorata qualcuno ha deciso di appendere gli ombrelli aperti.

Come ad Agueda, in Portogallo, dove nel 2011 qualcuno ha avuto un’idea interessante e da allora non c’è città al mondo che non l’abbia ripetuto. Quest’anno è arrivata Genova, e tutti a scattare foto a sti cazzo di ombrelli aperti, che oltretutto siamo andati al risparmio e invece di coprire tutta la strada come nel progetto originale ne abbiamo appesi parecchi meno, e l’effetto tristezza è esploso come una bomba. Ma tanto i genovesi sono persone semplici, vedono un po’ di colore e lo fotografano, vedono un politico nuovo e lo votano, gli sembra sempre tutto nuovo e bello, beati loro.

Solo a Ronco, dove abito io, questo vento di novità non soffia mai, perché stiamo in fondo a una valle cupa e umida dove il cambiamento non riesce ad arrivare, le fiere di design ce le sogniamo e i fiori non hanno il coraggio di sbocciare perché appena va giù il sole torna l’inverno e gelano.

quando a Ronco c’era ancora qualcosa da vedere la gente ci si fermava, altroché! A fare benzina, ma ci si fermava!

Giusto per sentirmi più mondano ieri ho tolto il piumone invernale e ho messo quello di mezza stagione, ma ho dormito col pigiama di flanella perché non mi fido mica.

Dovrei anche mettermi a pulire casa, e invece sto qua a scrivere, ma mi sembra che il cambiamento vada affrontato un po’ alla volta, sennò stufa. D’altronde anche euroflora la facevano ogni cinque anni, poi per sette non si è più fatta, e adesso forse ricomincia e forse è una cosa estemporanea, vediamo se piacerà o no, io voto no, perché questa nuova collocazione ai parchi di Nervi non mi sembra la più adatta: prima la allestivano dentro il palasport, e il suo punto di forza era proprio come riuscivano a trasformare un edificio triste e vecchio e spoglio in una foresta piena di colori, un colpo d’occhio incredibile; ai parchi il massimo che potranno ottenere sarà di migliorare un luogo già bello di suo, capirai che sforzo, e l’effetto dirompente si perderà tutto, la gente tornerà a casa pensando di aver visto qualcosa di carino ma che non valeva i venti euri del biglietto e finirà lì.

Una svolta significativa sarebbe quella di allestire entrambe le manifestazioni a metà strada, tipo a Ronco, che non è a metà strada ma il suo clima tropicale si presta allo scopo: facciamo il salone del mobile nella zona sportiva, che è il punto più umido del paese, poi stiamo a guardare mentre la flora locale prende possesso delle installazioni e crea composizioni naturali che all’euroflora se le sognano; i funghi spuntano dagli sgabelli vintage, le spine si mangiano i lampadari al neon, il muschio e le ortiche coprono il resto. Per dieci euri invece che venti potete aggirarvi liberamente in questi spazi dove natura e design hanno imparato a convivere, e invece della borsetta chic potete portarvi a casa la pleurite.

Frotte di genovesi e milanesi accorrono a visitare il nuovissimo Salone Del Luvego, si accoltellano nel posteggio e alla fine fra morti e ammalati otteniamo un drastico calo del traffico lungo l’autostrada A7 e una vivibilità maggiore nel centro cittadino e nelle spiagge della riviera.

Non so voi, ma per me sarebbe l’estate perfetta.

Una mattina Renzi si sveglia e scopre di non essere più il segretario del PD. Gli ci era voluto del tempo per accettare di non essere più Presidente del Consiglio, ma col passare dei mesi se n’era fatto una ragione. In fondo, si diceva, sono sempre il segretario del PD, lasciami vincere un’elezione ed è un attimo che torno a governare il Paese.

Quella mattina lì, un lunedì, quindi già brutto di suo, Renzi scopre che le elezioni ci sono state, e non le ha vinte lui. Le ha vinte la destra, e il prossimo Presidente del Consiglio sarà probabilmente Salvini, o Di Maio.

E come se la notizia non fosse già abbastanza grottesca, viene fuori che il suo partito, il PD, ha subìto la sconfitta più disastrosa della storia repubblicana, e adesso gli iscritti vogliono la sua testa su una picca.

Renzi non ci sta, è un combattente, non si arrenderà mai senza lottare, e dichiara guerra al sistema!

Tornerà più forte di prima, si riprenderà il partito e il governo, si farà eleggere anche Papa, se gli gira! Oltretutto Papa Renzi fa sicuramente più simpatia di Paparesta.

Per prima cosa ci vuole un piano. Bisogna capire dove sta andando l’Italia, e proporsi come la soluzione migliore ai problemi del Paese. Sì, ma quali sono? Analizzando i risultati delle elezioni Renzi elabora una risposta.

Intanto per cominciare sembra finalmente fuori tempo la secolare lotta fra fascisti e antifascisti: le due fazioni agli estremi dell’emiciclo parlamentare si sono presentate con diverse liste, ma tutte insieme hanno raccolto meno del 3% necessario a superare lo sbarramento. È evidente che l’Italia, tranne i soliti quattro stronzi, non si considera fascista, e anche i partigiani salvatori della Patria preferiscono stare a casa a guardare Netflix che andare sulle montagne a combattere per la libertà.

Renzi tira un sospiro di sollievo e si toglie gli scarponcini. E anche il fez, che fra l’altro lo fa sembrare un cretino.

ognuno ha il Che che gli pare
(Getty)

Che l’Italia non si senta fascista non esclude che possa..

No, fermo, qui c’è una doppia negazione. Una cosa che Renzi ha capito dai risultati del 4 marzo è che la maggioranza degli Italiani conosce la grammatica per sentito dire, e la sua capacità di concentrazione non supera i 160 caratteri, quindi Renzi dovrà esprimere i suoi concetti in un linguaggio più semplice, o non verrà capito.

Diceva, dunque, che pur non sentendosi fascista, quest’Italia si comporta come tale con una frequenza allarmante: tizi che scendono in strada a sparare ai negri in nome dell’amor patrio, altri tizi che scendono in strada a sparare ai negri perché volevano suicidarsi ma hanno una pessima mira, sindaci che si incazzano perché ad un certo punto i negri scendono anche loro in strada per chiedere di essere tutelati, e rompono due vasi.

Renzi si gingilla per un po’ con l’idea di assecondare questa deriva razzista: in fondo se è questo che vuole il Paese dovrebbe essere un dovere dello Stato assecondare i desideri dei suoi cittadini. Senza contare che un elettore spaventato è molto più facile da convincere di uno che si prende il tempo di riflettere, e oggi come oggi la paura degli immigrati vale il 30% dei voti.

No, non degli immigrati, diciamo le cose come stanno. Dei negri. Perché degli immigrati albanesi, sudamericani o cinesi non frega un cazzo a nessuno, sebbene siano molti di più. L’”Emergenza Albanesi” ormai ha ventisette anni e non se la ricorda più nessuno, l’”Emergenza Rumeni” è più recente, ma è durata da novembre a gennaio, quando è caduto il governo. Siamo andati a votare, ha vinto Berlusconi e i rumeni hanno smesso di essere una minaccia, come già gli albanesi prima di loro.

Renzi decide che non vale la pena assecondare una moda passeggera per raccattare voti, e sparare alla gente non è degno di un Paese civile, non siamo mica la Germania nazista. Se una fetta dell’elettorato aspira a diventarlo non è un elettorato da inseguire, ma casomai da educare. Il populismo paga solo sulla breve distanza, poi ti taglia le gambe.

La prima decisione di Renzi come futuro premier è impopolare, ma necessaria: adottare una politica di sostegno verso gli immigrati.. verso i negri, che punti a favorire l’integrazione dei nuovi arrivati da una parte e a tranquillizzare gli autoctoni dall’altra.

Qui Renzi si ferma un attimo per spiegare ai leghisti che “autoctono” significa “originario del luogo”. Loro, in parole povere. Gli italiani.

Questa parola gli fa venire in mente un altro punto importante del suo programma: italiano è chi nasce in Italia, non importa la nazionalità dei suoi genitori. Punto.

Siamo un popolo di vecchi, se non troviamo un sistema per rilanciare la natalità fra sessant’anni ci saranno due milioni di puri italiani veri a contendersi chilometri quadrati di territorio abbandonato e improduttivo, gridandosi terrone a distanza.

“Ma così viene minacciata la nostra integrità razziale”, bercerà dalle pagine di qualche giornale un emulo di Himmler

Renzi telefona a Salvini per spiegargli che emulo vuol dire “seguace, imitatore” e che Himmler.. vabbè, quello lo sa di sicuro, sennò l’alleanza con Casapound finiva ancora prima di cominciare. Le basi, Matteo! Le basi!

Comunque Renzi non ne ha voglia di spiegare perché questa teoria della deitalianizzazione è una cazzata, è talmente assurda che se hai bisogno di fartela spiegare significa che non sarai mai in grado di capirla. Vota quegli altri, fai prima.

E già che ci sei portati dietro gli antivaccinisti.

A proposito: le due forze politiche di maggioranza hanno inseguito il consenso così in basso da mettere in pericolo la salute pubblica avallando le cazzate medievali professate dai no vax. Questo non è solo cinico, è criminale.

I diritti umani occupano una buona parte del programma di Renzi, ma d’altronde prima che cittadini siamo esseri umani, e il nostro benessere dovrebbe essere l’ambizione principale di ogni governo, sennò non fondi uno Stato, apri una sala scommesse.

“Ma non è di soli diritti umani che vive uno Stato!”, esclama Renzi. Poi si appunta la massima su un quadernetto dalla copertina rossa pieno di idee per rilanciare l’economia e il sistema giudiziario e la legge elettorale e la finisco qui che se ve le sto a spiegare tutte facciamo notte.

ognuno ha la first lady che gli pare
(sempre Getty)

Una volta coperti tutti i punti del programma, Renzi si presenta alla più vicina sede del PD per cercare di convincere il partito a riprenderlo con sé.

Non gli aprono neanche, ma è probabile che non abbiano sentito il campanello: da fuori si sentono schiamazzi e porte che sbattono. Ad un certo punto si alza chiara e tonante la voce di Casini che urla: “Compagni! Ordine!”. Subito dopo dal portone esce Berlinguer in lacrime.

Renzi capisce che ormai lui e il partito si trovano su due strade diverse, e che deve rifondare un nuovo movimento, partendo dalla strada.

Rifondare è una bella parola, pensa Renzi, starebbe bene nel nome del partito. Decide così di chiamarlo Partito della Rifondazione Renziana. La tomba di Cossutta esplode.

Dopo la fondazione arriva il momento di farsi conoscere dall’uomo della strada, Renzi si mette a fermare persone a caso per sottoporre al loro giudizio il suo programma.

La prima signora che ferma ha votato 5 Stelle e gli dice PDiota.

La seconda persona è un leghista che lo accusa di avere portato i negri.

La terza è un elettore del PDL che gli da del coglione a lui e a tutti quelli che votano a sinistra.

La quarta è uno di Casapound che lo mena.

La quinta è uno di Potere Al Popolo che gli sputa in faccia.

La sesta è uno del nuovo Partito Comunista che gli sputa in faccia.

La settima è Bersani che se non glielo levano da sotto lo disfa.

L’ottava è Casini che lo chiama compagno.

Renzi capisce che bisogna cambiare strategia. In questi anni il partito si è allontanato dalla gente, ha smesso di ascoltarla, e questa si è rivolta altrove. È una storia cominciata tempo fa, quando gli operai votavano Berlusconi, che è come se un cinghiale si facesse la licenza di caccia.

Per la sua nuova strategia Renzi si fa crescere la barba, indossa un parka e va ad aspettare gli operai che finiscono il turno di pomeriggio, fuori da una grossa acciaieria siciliana. Perché è soprattutto il Sud a essere stato trascurato da tutte le forze politiche, perciò sarà da lì che ricostruirà il suo feudo.

Va a chiedere udienza al primo gruppetto che esce dal cancello, coi fogli ciclostilati in mano da vero comunista old staila si avvicina e li interroga.

“Ragazzi, volete il programma di Rifondazione?”

Per uno strano imbarazzo non se la sente di rivelare il nome completo del partito.

Quelli lo riconoscono lo stesso, ma invece di sputargli strabuzzano gli occhi:

“Mii! Ancora campagna elettorale?? Ma siamo appena andati a votare, che è?”

“È che questi partiti non riusciranno mai a formare una coalizione e andare al governo senza di me, quindi si andrà per forza a nuove elezioni. Mi sto solo portando avanti.”

“Vabbè, ma se votiamo di nuovo mica vinci te”, gli dice uno.

“Capace che stavolta pigli il 2%”, aggiunge l’altro.

“Vedete? È per colpa di questo disfattismo che il partito continua a perdere consenso. Non volete capire! Certe volte mi viene voglia di andarmene davvero e lasciarvi da soli a risolvere i vostri casini. Ma sono troppo buono, è il mio problema.”

“Mi sa che il tuo problema è la democrazia”, gli dice un anziano con un po’ di panza.

“Ma figuriamoci! Ma se abbiamo fatto anche le primarie per decidere chi sarebbe stato il segretario! E primarie vere, mica come quelle dei gril..”

“Democrazia nel senso del termine”, lo interrompe quello. “Democrazia inteso come governo del popolo. E il popolo ti ha fatto capire chiaramente che non ti vuole. Ma tu non te ne vuoi andare.”

“Ma perché non volete capire! Non c’è futuro senza di me, io sono l’unico che può traghettare il partito e tutta la sinistra fuori dal baratro! Io..”

“Hai perso. E non lo vuoi ammettere, vuoi restare lì. Ma non è un problema tuo, eh? Sono anni ormai che il partito ha smesso di ascoltare gli elettori. E alla fine gli elettori si sono stancati di parlare al vento. Io sono sempre stato comunista, fin da ragazzino. Figurati che quando stavo a Palermo ascoltavo Radio Aut. Poi avete cominciato a cambiare, e per un po’ vi sono venuto dietro. Ma non si poteva più, tutte le volte era un po’ più difficile. Un paio di volte mi avete fregato col ricatto che se non vi votavo vinceva Berlusconi, ma sto trucchetto non può funzionare sempre, no? Ad un certo punto dovete anche proporre qualcosa. E se qualcuno provava a cambiare lo isolavate. Perfino tu all’inizio sembravi una novità positiva, e guarda come ti sei ridotto. Adesso mi sono scocciato, ho votato i 5 Stelle. Perché sono quello che era il mio partito all’inizio, e magari loro non finiranno per inseguire il potere e basta.”

A sentir paragonare i 5 Stelle al Partito Comunista Renzi si inalbera, anche se lui di comunista non ha mai avuto neanche i nonni, ma essere il segretario di partito ti obbliga a indossare certi abiti che poi diventa difficile togliere.

“Come fai a paragonare questi populisti ignoranti col Partito? E gli ideali? E il progresso? Noi abbiamo lottato per l’aborto, per il divorzio, per le pari opportunità, loro cos’hanno fatto?”

“Voi avete lottato?”, gli grida in faccia l’anziano con la panza, “Voi? Ma che cazzo di lotta hai fatto tu a parte quella per tenerti la poltrona? Dov’è che il tuo partito ha soltanto immaginato qualcosa di sinistra?”

“Vi abbiamo dato i matrimoni gay! Eravamo a tanto così da darvi anche lo ius soli!”

“Ma non l’avete fatto! E i matrimoni gay mi pare il minimo, eravamo rimasti solo noi! Perfino Spagna e Irlanda hanno ottenuto questi diritti! E non mi dirai che sono paesi dove la chiesa non ha nessun peso! La devi ascoltare la gente, Renzi! La gente vuole un partito comunista vero, non questa porcheria!”

“Ce l’avevano. A queste elezioni ne avevano anche più di uno, e non li hanno votati. Hanno votato tutti i 5 Stelle. Perché non li hai votati tu?”

“Perché erano quattro scappati da casa. Io voglio un partito che sappia stare nel suo tempo, se volevo i maoisti andavo a vivere in Cina.”

“Comunque ho capito i miei errori. Per questo ho deciso di uscire dal PD e fondare un nuovo partito a mia immagine e somiglianza. Volete leggere il programma?”

“E faccelo leggere, dai.”

Renzi allunga al gruppetto i suoi fogli ciclostilati e quelli si mettono in cerchio con la testa bassa a rimuginare fra loro.

“Oh ma questo è un programma di sinistra bello tosto, ma che è?”

“Ho capito che non possiamo essere un ibrido né carne né pesce, dobbiamo schierarci. E allora ho preso una posizione netta.”

Gli operai sembrano convinti, sorridono un sacco. L’anziano con la panza gli dà una pacca sulla spalla e gli dice che magari stavolta ci pensa. Intanto si sono avvicinati altri personaggi, che ricevono il programma e si mettono a leggere. In pochissimo tempo il partito di Renzi sembra essersi guadagnato un discreto numero di simpatizzanti.

Poi uno gli domanda:

“Sì, vabbè, ma non è che il governo te lo puoi fare tu da solo. Chi chiami a darti una mano?”

“Eh ci ho pensato a lungo. Ho capito che il Paese chiede facce nuove, non importa la loro esperienza, basta che non siano gli stessi che lo hanno ridotto in questo stato. È per questo che ha avuto tanto successo il partito populista, perché è fatto da sconosciuti, gente non ancora toccata da nessuno scandalo. La gente vuole un rinnovamento, e io ho intenzione di darglielo. Sono o non sono il Rottamatore?”

“Eh, e quindi chi ci metti?”

“Mia zia. Non è mai stata in politica ed è una bravissima persona. E anche suo marito, se avesse voglia di partecipare al progetto. Poi ci sarebbe il mio parroco, da sempre impegnato nel sociale. Al mio meccanico vorrei assegnare il ministero dell’economia, perché dovreste vedere come ha tirato su l’officina che ha rilevato tre anni fa..”

Il sole tramonta dietro le ciminiere, e sul piazzale le ombre si allungano. Mentre Renzi snocciola la sua lista di rappresentanti di specchiata probità e cieca appartenenza alla sua causa il gruppo di operai si disperde. Ai loro piedi tante palline di carta, bianche come lapidi. Ognuna la tomba di un ideale, l’incarnazione di un partito che è morto mille volte e non rinasce mai, ma non per questo smette di morire.

 

Va detto che questo titolo per la rubrica sulle serie tv andrebbe cambiato, ma per adesso ce lo teniamo.

Mia madre si è abbonata a Netflix e ha scoperto le gioie del binge-watching, e io ho scoperto cosa provano gli orfani: non esce più di casa, quando vado a trovarla è sempre sul divano con gli occhi alla tele, e mi risponde sisì. La capisco, le prime stagioni di Lost hanno fatto lo stesso effetto anche a me.
Poi vai avanti e capisci che quella serie ha perso un treno di possibilità gigante, o forse non l’ha mai avuto, forse è nata con l’intento di intrattenere senza spiegare niente, e allora è perfetta così com’è. Per me comunque una storia che apre mille interrogativi e ne chiude dieci è una storia che non funziona, scusate. Invidio mia madre che si sta divertendo tantissimo, ma non vorrei essere nei suoi panni quando dovrà sorbirsi le ultime tre stagioni e i viaggi nel tempo e i personaggi che entrano ed escono dal niente e i flash-fucking-forward e quel finale che se ci penso mi viene ancora voglia di associare divinità cristiane e animali da fattoria.

Bioparco!!

Intanto che aspetto di ritrovare un genitore perduto cerco di convincerla a guardare un’altra perla presente nel catalogo, e non voglio neanche ripetere di cosa sto parlando, mi limito ad alzarmi in piedi e portarmi la mano sul cuore.

Sarà proprio quella serie lì a introdurre il primo argomento di questo post, di cui proprio stamattina ho visto l’episodio finale della terza stagione: Better Call Saul.

Lo stile narrativo, l’ho già detto, non è lo stesso di Breaking Bad, ma non è un difetto. A dire la verità anche la sua serie madre iniziava con un tono a tratti ironico, poi ha cambiato registro nelle ultime stagioni, e ci ha portati al finale con una tensione addosso che se ci penso mi metto lì e me lo riguardo un’altra volta.
Intanto a mia madre ho proposto una visione collettiva settimanale a casa sua, con la scusa che non l’ho mai visto in italiano.

Mentre nelle prime due stagioni la storia andava avanti per conto proprio, con l’introduzione di un personaggio fondamentale di quell’universo narrativo ci siamo agganciati di prepotenza alla storia principale, diventando a tutti gli effetti un prequel. Ci sono i personaggi che abbiamo conosciuto insieme a Walter e Jesse, i luoghi in cui si sono ambientate le loro vicende, assistiamo alla nascita dei loro rapporti e di alcune loro caratteristiche. Mancano solo Walter e Jesse, ma a questo punto non escludo di vederli nella prossima stagione. D’altronde, se abbiamo ritrovato perfino Huell Babineaux..
L’ultimo episodio andato in onda finora è di quelli che ti fanno alzare dal divano dicendo “Waaah!”.

black is the new orange which is the new black

E restando su serie di cui abbiamo già parlato, ma nel frattempo sono andate avanti e ci sarebbe da dire qualcosa, è uscita la seconda stagione di Preacher.

Sai quella serie che sì, carina, ma il fumetto è un’altra cosa e Tulip mi sta pure sulle palle? Quella che non avevo ancora capito se mi piaceva o l’avrei recensita come gli americani recensirono Dresda nel ’45? Ecco, è ricominciata quella serie lì, e da subito si è capito che qualcosa è cambiato.
Intanto i protagonisti non sono più confinati nel buco del culo del Texas, ma se ne vanno in giro e incontrano personaggi (poi vabbè, sono andati a New Orleans, si fermano lì per tutta la seconda stagione, ma è comunque un miglioramento, voglio dire, New Orleans, c’è ambientato un ciclo di storie fighissime in quella città), e i personaggi sono di quelli importanti, che quando sono in scena se la prendono tutta. E poi c’è molto più umorismo macabro, situazioni grottesche, violenza gratuita, insomma, è Preacher. Magari non è fedele alla storia, ma è coerente, e non so voi, ma a me non dispiace affatto vedere una storia nuova, se è coerente con quella che conosco. È come farsi raccontare una nuova avventura dei tuoi personaggi preferiti.
Anche Tulip, alla fine, non l’ammazzerei più, me la sono fatta piacere. Facciadiculo no, è ancora il cosplay ragazzino odioso di Facciadiculo.

per esempio Ganesh non c’è nei fumetti, ed è un peccato

Questo discorso della coerenza lo ritrovo nel’ultima serie di cui volevo parlare, American Gods.
Hai letto il romanzo, ti è piaciuto da morire anche il finale che invece a me no, ma insomma, hai saputo che ne avrebbero fatto una serie e hai cominciato a sperare fortissimo che fosse fedele alla storia che conosci. E invece qua e là cambia. Ci sono personaggi che vengono sviluppati di più, altri che non esistono affatto, succedono cose che non dovrebbero succedere. Tradimento!

Epperò i personaggi che non sono nel libro potrebbero starci bene, se ci fossero sarebbero così, come una canzone che viene esclusa da un disco e la ascolti dieci anni dopo nell’edizione anniversario e diventa la tua canzone preferita.
Ecco, American Gods non diventerà la mia serie di culto, e i personaggi che sono stati aggiunti non sono già adesso i miei preferiti, ma è una storia che funziona bene, non mi fa mai provare quella sensazione di estraneità in cui per esempio The Walking Dead abbonda. Vabbè, ma lì il problema è che la storia è uno sbriciolamento di coglioni e i personaggi vorrei vederli tutti morti, ma non morti che ritornano, morti e basta.
La serie di Amazon (sì, la passano su Amazon, finora l’unica ragione valida per mantenere un abbonamento a Prime), fra le altre belle cose, mi ha riportato in vita diversi attori di cui avevo perso le tracce, prima fra tutti Cloris Leachman (nitrito di cavalli), che a novantun’anni tira fuori una splendida Zorya Vechernyaya. Una chi? Niente, un personaggio di American Gods, stavamo ancora parlando di quello. E poi c’è Crispin Glover, che tutti ricordiamo come il papà sfigato di Michael J. Fox in Ritorno Al Futuro, “ehi tu porco levale le mani di dosso!”, e qui fa il capo dei cattivi; Gillian Anderson, non potevo immaginarla diversamente che così, e adesso me la vedo vestita da David Bowie coi capelli arancioni e chi se lo ricorda più di Scully?

beating up the wrong guy

Per me American Gods è un grosso pollicione alzato, e non ho neanche parlato della colonna sonora, o della bellezza di Emily Browning, o di Kristin Chenoweth, che se per voi è la voce di un personaggio di Bojack Horseman (perché non ho nessuna voglia di vederlo nonostante ne parlino tutti benissimo?) vuol dire che non avete mai visto Pushing Daisies, e mi dispiace tantissimo per le vostre vite incomplete.

Adesso magari mi rimetto a scrivere qualcosa di divertente, eh? Con calma.

Che poi ci sono persone che semplicemente non dovrebbero morire mai, non è previsto nel contratto che le ha legate alla nostra esperienza. Certi cantanti, attori, i nostri genitori. Non è necessario che facciano qualcosa, possono anche ritirarsi in casa e non uscire più, non incidere più nessun disco (e il più delle volte quello è auspicabile), sarebbe sufficiente saperli lì, a irradiare sicurezza. Quando se ne vanno tradiscono le tue aspettative, anche se te l’aspettavi, se erano malati da anni, è comunque una condizione sbagliata. Non era previsto che si licenziassero.

Io un po’ mi ci incazzo che Villaggio sia morto invece di ritirarsi in una pensione eterna dove ogni tanto lo va a intervistare la conduttrice di qualche programma della mattina su Raidue. E mi ci incazzerò ancora di più quando ad andarsene saranno i miei idoli veri. Per me il 2016 è stato devastante, per dire. David Bowie, Prince, George Michael, Gene Wilder e la Principessa Leila. Leila, non Leia, sono nato nel 1972 e per me è Leila, punto. E non Carrie Fisher, per quanto volessi bene all’attrice per me lo scorso dicembre è morta la mia principessa delle favole.

E oggi se n’è andato il ragioniere, non il prestigiatore maleducato o l’attore macchietta che oltretutto tifava per quell’altra squadra di Genova.  Era genovese, e un po’ di campanilismo viene fuori, forse perché oggi da queste parti i comici bravi scarseggiano (non che altrove..), e quando se ne va uno di quel livello ti girano le balle. Che poi i suoi libri mi facevano ridere, i film già meno, ma è anche vero che dopo i primi due diretti da Luciano Salce non aveva più niente da dire, era patetico e sopravviveva a sé stesso come Massimo Boldi e Christian De Sica. Anche come Vasco, avrei detto fino a sabato mattina, poi quello ha radunato 220.000 paganti al concerto di Modena, lui che fuori dall’Italia è un perfetto sconosciuto è riuscito dove neanche i Rolling Stones, adesso diventa difficile  dargli del rottame. Magari domani Boldi fa il film dell’anno, che ne so.
Poi va a ritirare il leone d’oro e dice bestia che roba e tutti i fotografi gli tirano addosso la nikon.

Oppure no, aspettano che muoia, è più sicuro. Se riscopri qualcuno da vivo e inizi a celebrarlo poi devi essere coerente e mantenere l’attenzione su di lui, dargli l’opportunità di riscattarsi da decenni di macchietta. Non puoi andare controcorrente e dire che Paolo Villaggio è un grande attore e uno scrittore che avercene, finché è vivo. Conviene aspettare che muoia, a quel punto ti basta scrivere due righe e ne vieni fuori come l’esperto che se fosse dipeso da te, uh, vedevi che carriera faceva quello.
Mi spiace per Boldi, sarebbe stato interessante vederlo recitare in un film di Bellocchio, toccherà osannarlo anche lui quando non ci sarà più.
Spero che succeda il più tardi possibile, nel caso.

Vent’anni che te ne sei andato e vabbè, quand’è successo Freddie Mercury era già sei anni che lo rimpiangevamo, qualcuno neanche se n’è accorto, io per esempio ho dovuto andare fino ad Atene a scovare il tuo disco in un negozietto della Plaka per entrare nell’ordine giusto di idee e rendermi conto che avevamo perso qualcosa di grande, che se me lo fossi comprato al Porto Antico in quel grosso negozio che adesso non c’è più forse non avrebbe avuto lo stesso peso, l’avrei ascoltato tornando a casa in macchina e avrei detto vabbè, bell’atmosfera, e poi avrei messo su qualcosa che conoscevo meglio.

Così invece, al buio, in una stanza che neanche era la mia, con addosso quell’elettricità che ti viene quando sei in vacanza da solo in un paese che non conosci dove neanche sai leggere i cartelli e la tua unica compagnia è un tizio inquietante che va in giro con un caffetano nero e una pettinatura che neanche Scialpi, beh, l’effetto è stato lo stesso di un fiume che straripa dopo una pioggia intensa, ma senza l’odore di fangazza che resta dopo, sebbene dopo, nella stanza, ci fosse una puzza anche peggiore, ma giuro che non è stata colpa mia.

E non farmi parlare di quella sera in cui qualcuno a teatro ha messo su Hallelujah alla fine di una lezione difficile, perché quella volta lì altro che esondazione, è stato il Vajont, scusa il paragone, ma i tempi necessari alla bonifica e alla ricostruzione dopo l’onda sono stati pressappoco gli stessi, così come il panorama di chi mi guardava passare piatto e grigio, un orizzonte di morte da cui emergeva solo qualche detrito triste.

Lo so, scusa, non si parla di acqua in casa dell’annegato, come di corda in quella dell’impiccato o di politica in casa di mio papà sennò ti attacca dei pipponi che non finiscono più. Però sarebbe bello che dopo vent’anni di silenzio saltassi fuori dicendo dai, scherzavo, non sono morto, ero nascosto su un’isola deserta insieme a Amy Winehouse, abbiamo trombato come ricci per tutto questo tempo, ragazzi, che figata. Come dite? No no, lei è morta davvero, ma la necrofilia sarebbe un reato, perciò..

Che poi bello, insomma, finiresti per pubblicare un nuovo disco, le aspettative sarebbero altissime, e sono sicuro che resteremmo delusi, perché la musica è cambiata, noi siamo invecchiati, e tu a quel punto anche, ed essendo stato vent’anni su un’isola deserta a scoparti un cadavere non sono neanche sicuro che ci staresti tanto con la testa, chissà che roba verrebbe fuori. Immagino il terremoto all’annuncio del disco, i biglietti del tour venduti a un prezzo che uno se sapesse dove posteggiarlo ci si potrebbe comprare lo Shuttle, poi le recensioni sbalordite di chi l’ha sentito in anteprima, lo zoccolo duro dei fans che incaprettano i critici definendoli i soliti snob chiusi nel loro mondo non siete Lester Bangs non siete Carlo Emilio Gadda si fa fatica a capire cosa scrivete bontà di dio (e qui vorrei spezzare una lancia in favore di quei miei due tre amici che mi mettevano in guardia sui Lo Stato Sociale. Mi spiace ammetterlo, ma avevate ragione voi (però questa canzone mi piace lo stesso)), poi il disco esce e i fans li riconosci da lontano, sono quelli che camminano per la strada con gli occhi sgranati e parlano da soli, perché il disco è oltre la merda, è qualcosa che la merda stessa non aveva mai sentito prima di quel momento, è come prendere il peggio della musica mondiale e mescolarlo insieme e farlo cantare a Max Pezzali con arrangiamenti di J-Ax e poi chiedere al bravo cantante Mannarino di farci una cover e far remixare anche quella da.. non so chi ci sia adesso che fa queste cose, io sono rimasto a Fargetta, per me quando si nominava della roba che uno poteva ascoltare a scelta in discoteca o su Radio Deejay capivo che non era aria e me ne andavo a cercare una forchetta da conficcarmi in una tempia. Per fortuna non ne ho mai trovata, sennò questo post conterrebbe molte più virgole.

Insomma, il disco che potresti incidere se tornassi a suonare adesso dopo vent’anni di silenzio e idolatria non credo che sarebbe all’altezza delle aspettative, se mi passi l’understatement. Che poi è un po’ il problema dell’industria dell’intrattenimento, no? Che sia musica o cinema o letteratura fa poca differenza, il nuovo disco dei Guns’n’Roses oggi suona come il nuovo romanzo della famiglia Malaussène di Pennac, o il seguito di Blade Runner a distanza di ere geologiche: qualcosa che magari è pure di qualità, ma perché?

I morti stanno bene dove stanno, Jeff. Spero che tu non sia morto davvero, che stia su un’isola deserta a fare del gran sessone, magari non con quel che resta del cadavere di Amy Winehouse, insomma, anche alla creatività bisogna mettere un freno ad un certo punto, ma comunque a divertirti. E spero che ci resterai, perché siamo andati avanti, e se tornassi sarebbe un po’ come quando è uscito il seguito di Matrix, che uno può decidere di non guardarlo e fingere che non esista, ma tutto il mondo è lì a ricordargli che c’è, e la perfezione di quello che fino a ieri era l’unico Matrix possibile viene sporcata dall’idea che ci sia qualcosa dopo, e quando lo rivedi te lo godi lo stesso, ma meno. E io, scusa, ma Grace è qualcosa che non merita alcun seguito. Per i ricordi che si porta dietro, per la qualità delle canzoni.. Io i dischi postumi neanche li ho ascoltati, e comunque era roba uscita prima, erano demo, era il solito materiale vabbè che le iene buttano fuori per sfruttare il morto fino alla decomposizione.

Resta morto, Jeff. È meglio per tutti.

“Quindi dovremo trascinare via Polonio sui sassi?”, chiede lo Spettro. La domanda se la sono posta tutti appena la Maestra ci ha comunicato la nuova sede in cui porteremo in scena lo spettacolo di fine corso: le rovine dell’anfiteatro romano, ai Giardini Luzzati.

Avremmo dovuto recitare nel salone di un museo genovese, ma alla fine Teatro ha deciso che lo spazio a disposizione non era adeguato. Non era adeguato neanche il rapporto fra me e lo staff di quel museo, per una serie di ragioni che non ho voglia di raccontare, e proprio oggi festeggiamo un anno di sputi in faccia, perciò figurati se mi lamento. A dirla tutta io ero quello che a ogni lezione chiedeva se dovevamo andare a recitare proprio lì, forse li ho presi per stanchezza. Perché incontrarsi per strada e fingere di non vedersi è triste, ma stare tre giorni a stretto contatto, fra prove e recita, sarebbero stati giorni regalati alla morte. Almeno così non si fa male nessuno.

“Nessuno un cazzo!”, si lamenta Polonio, che proprio non gli va giù di finire scorticato sui sassi davanti a tutti i suoi amici. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che nella scena precedente, quando Amleto lo pugnala, verrà usato un pugnale vero, perché la Maestra insiste sul realismo, perciò in quella scena lui sarà già morto, ma morto sul serio, e i sassi non li sentirà neanche.

“Hai presente Amleto, no? Quello che l’anno scorso mi ha preso a testate alla prova generale. Secondo te riuscirà a ucciderti solo per finta?”

Me ne vado perché vedere un uomo che piange è davvero brutto. E poi devo provare la scena dove abbraccio la regina, e la maestra la vuole più realistica. Ho già cercato di metterle le mani nelle mutande, ma non basta ancora, dice che la regina me la devo limonare duro. Il problema è che le regine sono due, ci sono troppi attori per i pochi personaggi previsti, e alcuni ruoli sono stati divisi: due regine, due Ofelie, un solo becchino ma schizofrenico. E io due regine non le posso sostenere. Una è la mia vecchia conoscenza, Domenico Mugugno, che è come un gatto appeso alle balle ma peggio, come se appeso alle balle avessi un gatto con la katana; l’altra è Gloria, era la mia fidanzata al saggio dell’anno scorso, una storia ricca di passione che però non aveva resistito alla vaghezza dell’estate. Non ci eravamo più visti, lei aveva intrapreso una traversata dell’Australia a piedi da cui era tornata mezza rotta, diceva che l’aveva aggredita una banda di canguri, io ero stato assunto per fare la controfigura di quello che ha vinto Sanremo e per l’occasione mi ero anche fatto i baffetti come i suoi, poi mi hanno spiegato che sul palco avrei dovuto interpretare il gorilla, e che il costume non mi sarebbe servito, andavo già bene così.

La scena non funziona, la Maestra mi accusa di essere poco virile, tutte le donne mi perculano pesante, tranne Gloria, che mi guarda con compassione. Avrei preferito il perculo, è meno umiliante. Quasi quasi mi ritiro e Claudio glielo fate fare a qualcun altro. Oltretutto nel quinto atto sarò io a venire pugnalato da Amleto, e se proprio devo morire in scena vorrei che fosse una morte epica, tipo mentre uccido il crudele tiranno e faccio un discorso di libertà e giustizia che metà pubblico in sala si mette a piangere, non come uno stronzo fratricida ammazzato dal figliastro emo.

Poi vabbè, il pubblico in sala piangerà lo stesso, facciamo cagare a un livello mai visto, la settimana scorsa alle prove sono venuti i bambini della terza elementare, che porteranno in scena la nostra stessa versione della tragedia, e se ne sono andati disgustati.

Ad un certo punto Guildenstern si incazza, butta per terra gli occhiali da sole e si mette a urlare che a lei (sì, anche Guildenstern è una donna, e pure Rosencrantz, e si allude pure a una loro affettuosità particolare, e a me immaginare queste due in atteggiamenti intimi scusate vado un attimo di là) nessuno ha ancora spiegato se Guildenstern alla fine muore o no, e se non lo capisce non riesce a dare sufficiente profondità al suo personaggio e a rivestirlo di quella particolare drammaticità che il destino ineluttabile posa leggero sulle persone segnate dalla sventura. Lo dice proprio così, come a La Vita In Diretta, e tutti ci lasciamo sfuggire un oooh di ammirazione.

“Ragazzi, che roba! È da questa precisione che si riconoscono i professionisti!”, dice Laerte.
Non lo so, ero distratto, le guardavo le tette, scusate.

La Maestra le spiega che alla fine muore proprio come nella tragedia, ma muore fuori scena, mentre accompagna Amleto in Inghilterra. Lei però non ci sta, vuole morire in scena, davanti a tutti, anche a costo di spostare la recita in Inghilterra.
Rosencrantz, che è sempre molto gentile e cerca di riportare armonia, si offre volontaria per spaccarle la testa con un sasso appena terminata la loro parte. Così la vedranno tutti, e poi pensa che immagine suggestiva, su quel fondale bianco, il rosso del tuo sangue che schizza addosso agli spettatori. La convince. Avrebbe convinto anche me, Rosencrantz è una che parla poco, ma quando lo fa lascia il segno. Perché sputazza.

Tutto sembra sistemato e le prove possono riprendere. Entra Ofelia, quella pazza del quarto atto, non quella depressa dei primi tre, e mette tutti a sedere con un’interpretazione che neanche Al Pacino, guarda.
L’unica perplessa è l’altra Ofelia, gelosa di essere stata messa da parte, che fa sentire la sua voce querula: “Al Pacino non ha mai recitato nell’Amleto!”
“E infatti mi riferivo alla sua interpretazione di Ofelia nel Riccardo III!”, le risponde la voce fuori campo, che poi sono sempre io, che sono una primadonna e il ruolo dell’antagonista non mi bastava. Oppure è che spero in un ruolo secondario che mi eviti di finire ammazzato male.

“Ragazzi, io ve lo devo dire, fate cagare”, commenta la Maestra. E tutti ci demoralizziamo. Poi aggiunge: “Non tutti però”, e ci risolleviamo, perché dentro di sé ognuno è convinto di essere l’eccezione. “Voi due per esempio fate molto peggio che cagare, siete così imbarazzanti che la settimana scorsa dopo le prove mi ha telefonato Shakespeare per insultarmi”. Parla ovviamente di me e di Domenico Mugugno, che se non la tengo le tira gli stivali. Io non mi offendo, la Maestra può dire quello che vuole, e poi ha ragione, ma il teatro per me non è che una copertura, il lunedì sera prima di lezione vado a spacciare crack in un vicolo dietro la sala prove. Per Domenico è diverso, lei è una donna sensibile. Sì, donna, si chiama Domenico perché i suoi genitori volevano un maschietto ma ahimè è nata lei, nella culla le han messo un fioretto, lady dal fiocco blei.
Si chiude in un mutismo che non le ho mai visto, sembra davvero ferita, tanto che mi viene da cercare di consolarla. Le dico qualcosa di gentile, tipo che ha delle belle scarpe, ma lei mi ferma subito con la sua voce da aquila strozzata “Non me ne frega un cazzo delle scarpe! Io voglio sapere se sono brava a recitare!”

Le dico che ha anche una bella giacca.

Alla fine della lezione metà degli attori ha deciso che non proseguirà, ma la Maestra non si arrende così facilmente, è una tosta lei. Ognuno dei superstiti farà quattro personaggi, per quelli che si troveranno a interpretare più di un ruolo nella stessa scena verrà studiato un abito mezzo in un modo e mezzo in un altro, così basterà mostrare al pubblico il profilo giusto. Come un cattivo di Mazinga. Capocomico si ritrova a dover fare tutta una scena da solo, interpretando a giro Ofelia, Laerte e Polonio. Fra l’altro in quella scena Ofelia dovrebbe stare in braccio a Laerte e i due venire interrotti nel loro chiacchiericcio fraterno dall’arrivo di Polonio. Però è una brava attrice, Capocomico, e ci mostra come si fa a portarsi in braccio da soli e poi rientrare come terzo personaggio: è un trucco che ha imparato a un workshop con uno che aveva studiato da Franco Basaglia.

Ovviamente cade e si spezza un femore in tre punti. Nessuno dice niente, se l’è andata a cercare, però adesso qualcuno dovrà caricarsi sulla schiena anche la sua parte.

La Maestra continua a dire che va bene, ma adesso qualche dubbio è venuto anche a me. Il 13 maggio si avvicina, e rischiamo di non arrivarci preparati a dovere.

Per fortuna che ai Giardini Luzzati c’è un bar: il grosso vantaggio di presentarsi ubriachi spolpi al proprio spettacolo è che senza dubbio darai spettacolo. E non sarai neanche lì ad assistere!

 

 

“Il teatrodanza non è un genere del balletto né una corrente vera e propria, ma si è contraddistinto come un fenomeno alquanto complesso della coreografia del Novecento affermatosi nella Germania occidentale ai principi degli anni settanta, specie ad opera dei cinque antesignani del Tanz Theater tedesco: Pina Bausch (la più nota esponente del gruppo), Reinhild Hoffmann, Susanne Linke, Gerhard Bohner e Hans Kresnik.

Con il termine Tanz Theater si intende principalmente una diramazione nell’ambito della danza moderna dell’espressionismo tedesco degli anni trenta, la cui poetica risale alle teorie di Rudolf Laban e alle danze della sua allieva Mary Wigman.

In esso vengono innestati elementi propri della danza non accademica d’inizio secolo, ovvero della danza moderna, della danza libera e talvolta del mimo e del cabaret. Il riferimento al teatro si rivolge perciò solo in apparenza alla “dimensione teatrale” della danzache è propria del balletto romantico. Si tratta, al contrario, del recupero di una dimensione primordiale del rapporto tra gesto e azione e tra gesto e parola. Il teatrodanza, perciò, è una forma di danza spesso allegorica, che fa uso di simboli, fortemente animata dalla fusione tra teatro e arti figurative, e dove l’elemento narrativo è trattato in modo particolare, antinaturalistico.

Il fenomeno si è subito caratterizzato come un movimento estremamente composito e libero sul piano linguistico, oltre che per un certo intrinseco eclettismo, diffondendosi sia in Europa che in America.

Tra gli altri maestri riconducibili alla poetica del teatrodanza, i nomi di particolare rilievo sono Alwin Nikolais negli Stati Uniti, Carolyn Carlson in Francia, Alain Platel in Belgio, Lindsay Kemp in Inghilterra e Constanza Macras in Germania.”
(Wikipedia)

“Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi e io sto buttato in un angolo, no? Ah no, se si balla non vengo.”
(Nanni Moretti, Ecce Bombo)

cristoni nudi che ballano

Il teatrodanza non mi piace. Uno spettacolo in cui il significato di quello che stai vedendo va decrittato dai gesti degli attori, dal modo in cui interagiscono, mi spaventa, mi mette di fronte alla mia incapacità di comprensione, mi fa sentire limitato. Sono uno che di fronte a testi più complessi di “Otello crede di avere le corna e uccide Desdemona” va in crisi, e anche così mi faccio un sacco di domande su Jago.
Devo dare una forma alle cose, spesso una mia forma personale che non è proprio quella vera, ma sufficiente a sbloccarmi da quella catatonia che mi lascia come il pesce rosso nella boccia. Poi per capire davvero c’è sempre tempo, intanto andiamo avanti.

Ieri sera mi sono lasciato convincere a vedere In Spite Of Wishing And Wanting, uno spettacolo di Wim Vandekeybus, regista/attore/coreografo/ballerino, che al suo debutto nel 1999 ebbe un grande successo, e oggi viene riproposto con altri attori, un po’ come fa Jesus Christ Superstar, per dire.

Se devo spiegare di cosa parla lo spettacolo non scrivo più niente, perciò mi affido alla recensione del Teatro della Tosse di Genova, che lo ospita in questi giorni.

Nel  1999 “In Spite of wishing and wanting” scatenò enorme scalpore.
Per la prima volta, Vandekeybus aveva creato uno spettacolo in cui non si parlava dell’attrazione tra uomini e donne ma della pulsione del desiderio in un modo di soli uomini –impetuoso, selvaggio, ingenuo e giocoso.

Filmati surreali  e sequenze danzate, accompagnate dalle note sensuali della musica di David Byrne, scorrono dando vita a monologhi sulla paura, sul desiderio di sicurezza e sulla magia del sonno.

Nel 2016 un cast tutto nuovo ha raccolto la sfida di riproporre questo grande successo internazionale.

La paura di essere posseduto da qualcosa o da qualcuno ha anche un’altra faccia: il desiderio di cambiare qualcosa o diventare qualcun altro.  La paura e il desiderio sono due lati della stessa medaglia.
Questo desiderio di trasformazione è il tema centrale di “In Spite of wishing and wanting”.

Due racconti, uno di Julio Cortazar e uno di Paul Bowles, hanno tormentato Wim Vandekeybus  per un po’ di tempo  e lo hanno ispirato mentre girava il cortometraggio che fa parte dello spettacolo. Il centro di entrambi è il flusso che muove ciò che è ci  familiare e ciò’ che ci è estraneo, un movimento che non può trovare pace.

Capito?
Allora me lo potete spiegare?
Perché quello che ho visto io è proprio un’altra cosa, e quando si sono accese le luci e tutti sono saltati in piedi ad applaudire e gridare bravih! ho avuto la netta sensazione di essermi perso qualcosa. Mi sono sentito limitato, ignorante, povero di spirito e di intuito, ho avuto di fronte tutte le mie maestre, da quella delle elementari a quella che ha cercato di spiegarmi la vita, e tutte mi bacchettavano le mani.

Cioè, bello, eh? Attori bellissimi, fisici scolpiti e culi di marmo che ti fanno mettere in discussione la tua eterosessualità, capaci di gesti atletici pazzeschi. Li vedi compiere con naturalezza movimenti che solo ad accennarli finiresti in ortopedia, e quando li fanno tutti insieme capisci la forza di questa forma d’arte: la danza è bellissima, forse adesso l’ho capito.
C’è un momento in cui sono sdraiati sul palco in mezzo alle piume, le braccia spalancate, tengono in mano dei fogli e li sbattono come se fossero ali. Poi si alzano in volo, per davvero. Cioè, sono salti, se li guardi uno per uno li vedi accucciarsi e darsi la spinta, ma la visione d’insieme è quella di uomini uccello che si librano in mezzo al palco, ed è grandioso.

roba da restare così, con la bocca spalancata e gli occhi fuori, e non perché sei la tizia allupata di fianco a me

E quando si spengono tutte le luci e questi cominciano a fare una cosa con delle lampade, e vedi questi fasci di carne poco illuminati che si muovono per il palco, ti viene in mente un presepe molto poco cristiano.
E quelle musiche di David Byrne sono proprio il genere di roba che mi va di ascoltare in questi giorni, e a dirla tutta anche i due cortometraggi che interrompono lo spettacolo sono interessanti e girati molto bene.

È che non ci ho capito niente. Se prendo le singole scene e le inserisco in un contesto diverso, come soluzioni narrative di una storia, funzionano alla grande. Voglio dire, se andassi a vedere uno spettacolo in cui ad un certo punto, per raccontare uno sviluppo della storia, gli attori inscenano uno dei balletti che ho visto ieri, uscirei dal teatro convinto di avere assistito a qualcosa di grandioso.
Così non riesco a dargli una logica, ho visto un sacco di cose molto belle in una lingua che non conosco. Ci sarà stato un nesso fra la storia del venditore di parole del cortometraggio e gli attori che fanno i cavalli, il monologo sui sogni e quello che cerca Annamaria fra il pubblico, solo che non l’ho capito.
Una sessione di ginnastica ritmica a squadre inframezzata da una recita in cinese mi avrebbe trasmesso le stesse sensazioni.

Il resto del pubblico evidentemente era più ricettivo di me, perché sembrava entusiasta. Io e i miei quattro compagni di serata eravamo perplessi. Le donne più allupate che perplesse, ma abbastanza perplesse pure loro.
Ho incontrato un’amica all’uscita, una che ha fatto di questo tipo di spettacoli la sua ragione di vita, e le ho chiesto cosa ne pensava.
“Mi ha fatto cagare”, ha risposto. “Se usi il linguaggio per esprimere un concetto, e addirittura giri un film, questo concetto mi deve arrivare, in qualche modo. Se non mi arriva niente o sono io stupida o hai prodotto una roba pretenziosa che non sta dicendo niente. È piaciuto solo ai ballerini e alle donne in fregola.”
“Fregola è un’espressione antiquata che ti si addice.”
“Mi stai dando della vecchia?”

Adesso mi trovo in quella posizione difficilissima in cui vorrei vedere un altro spettacolo simile per capire se sono io che non apprezzo il genere o era proprio lui che non si lasciava decifrare, col rischio di ritrovarmi qui a scrivere altri mugugni, e aver perso una serata in cui potevo starmene a casa a mangiare biscotti al cioccolato davanti a una serie nuova di cui peraltro dovrò parlarvi, prima o poi.

La prima volta che ho visto i Cure dal vivo è stato nel 1992, al Forum di Assago. Promuovevano il loro album Wish, che per loro era già il nono, ma per me era quello che me li aveva fatti conoscere, e sarà per quello che da allora è rimasto il mio preferito.

Eravamo arrivati molto presto fuori dal palasport per accaparrarci la prima fila, e avevo potuto conoscere un certo tipo di pubblico che da allora ho sempre incontrato solo ai concerti di questo gruppo: i dark.

Il termine corretto sarebbe goth, ma in Italia qualcuno ha iniziato a chiamarli così e il nome è rimasto. Erano i seguaci del post-punk, ascoltavano Cure, Siouxsie and the Banshees, Joy Division, e si divertivano molto più di quel che davano a vedere i loro abiti neri traboccanti di croci.

Negli anni 80, nel piccolo paese dove abito, se a un giovane anticonformista fosse venuto in mente di vestirsi di nero, cotonarsi i capelli e truccarsi la faccia col cerone bianco, avrebbe avuto una vita breve e difficile; Genova era più grande, ma altrettanto chiusa in quanto a mode. Per me questi bizzarri individui esistevano solo nelle pagine delle riviste per ragazzini che scroccavo alle mie compagne di scuola a ricreazione, e per questo ne rimasi affascinato quando me ne trovai davanti un esercito, nel piazzale di Assago.

Affascinato in senso negativo, chiaro: quei pagliacci erano i miei diretti avversari nella lotta alla prima fila, e i loro bracciali borchiati costituivano una seria minaccia in un ambiente ristretto. Mi domandai se non fosse troppo tardi per convertirmi alla musica paninara: strusciarsi contro una folla di piumini imbottiti era senza dubbio più confortevole.

Dentro il forum fu la morte. Ho assistito a diversi concerti in quell’edificio, ma solo a quelli dei Cure ho preso così tante spinte, sono stato trafitto da tante gomitate e ho avuto la maglietta impastata di lacca e rossetto peggio che in un postribolo o nel camerino del circo.

Sabato sono stato a Casalecchio di Reno, al mio quinto concerto dei Cure, ventiquattro anni dopo quello di Milano. E ad aspettare fuori dai cancelli, seduti per terra nelle loro palandrane nere, col cerone e il rossetto e i capelli cotonati, c’erano gli stessi individui di allora. Non la stessa categoria, proprio le stesse persone: quarantenni vestiti di nero, appena più sobri di allora. Cinghie e borchie comparivano solo ogni tanto, ma agli anfibi lucidati non aveva rinunciato nessuno. Un sacco di donne pallidissime con décolletés generosi, qualche nostalgico con la maglietta dei Clash, a ricordare che tanto veniamo tutti da lì.

l'irriducibile

l’irriducibile

E i maledetti bagarini. Sono ovunque, cercano di comprarti il biglietto a metà prezzo per rivenderselo al triplo, hanno una dotazione di tagliandi che ti domandi come abbiano fatto, che per ottenere il tuo hai avuto a disposizione una manciata di secondi prima che andassero esauriti. Una volta era facile, andavi in uno dei pochi punti vendita disponibili, compravi cinquanta biglietti e via, ma adesso con la vendita telematica sei soggetto a una limitazione, il sito non te ne vende più di due o tre. Come fanno questi ad averne sempre? E già che ci siamo, come fanno a vendere quelle sciarpette sintetiche orrende con la stampa del gruppo e la data del concerto dietro? Chi gliele può comprare, a parte un cieco ubriaco minorenne amante del kitsch e con un sacco di soldi da buttare?

Insieme a me, ad affrontare le tre ore e passa di attesa prima dell’apertura, il mio fedele compagno di avventure, Concertillo. Se siamo lì è merito suo, io non ce l’ho il tempo e la costanza di piantonare ticketone in attesa che inizi la prevendita con un anno di anticipo. Lui è il tipo che in una città straniera entra in ogni negozio di dischi e spulcia ogni scaffale per trovare il quarantacinque giri di un gruppo che neanche gli piace tantissimo, ma meglio che niente; per uno così comprare un biglietto online è solo un giochetto. Se Costanza fosse una bambina, Concertillo sarebbe il suo papà.

“Certo che arrivare alle tre e trovarci praticamente davanti..”
“Eh, invecchiamo tutti. Magari dentro è la volta che non ci massacrano, che ne sai.”

“No, ma la prima fila non è neanche più così importante, oramai uno preferisce stare dietro ed evitare la ressa”

“Vado in bagno, tienimi il posto”

“Dammi i biglietti, che magari aprono mentre non ci sei”

“Scusa, ma non mi aspetti? E io come faccio a ritrovarti poi?”

“Cazzi tuoi, io appena aprono mi fiondo dentro”

E infatti appena hanno aperto ci siamo fatti la nostra solita corsa fino alla transenna, dove altri quarantenni dallo scatto veloce si erano già presi i posti migliori.

Alla fine abbiamo ottenuto una quinta fila più che dignitosa, e la soddisfazione di avere ancora quella volata sul parterre che fa la differenza.

Consiglio: Quando devi correre per il posto migliore le scarpe da ginnastica rendono più degli anfibi.

Il gruppo che accompagna i Cure nel loro tour si chiama Twilight Sad, è scozzese e gode di una certa fama nell’ambiente post-punk, grazie a quattro album di discreto successo, ottime recensioni dalla stampa e un notevole 55esimo posto nella classifica di vendita britannica.

somiglia un po' a coso

somiglia un po’ a coso

Suonano quattro o cinque canzoni, non sono sicuro del numero esatto perché crollo addormentato a metà della prima. Però sono bravi, il cantante si esibisce volentieri nel numero dell’epilettico, e fra una canzone e l’altra alterna spasmi e gesti nervosi a baci verso il pubblico. Forse è il suo modo di omaggiare Ian Curtis, al quale cerca di somigliare nell’aspetto e nello stile musicale.

Smettono proprio mentre sto per tirargli una rastrelliera da cucina.

E poi inizia il concerto vero.

Robert Smith ormai non ha più una forma, un sesso. Si presenta in scena con la solita cofana sparata e il rossetto. Sotto una camiciona nera indossa una serie di collane vistose. È una grossa signora anziana dal seno cadente, la voce sommessa e le mani gonfie. Gesticola nel suo solito modo femmineo, fa venire voglia di chiedergli un biscotto. Qualcuno dal pubblico gli urla che la vestaglia poteva lasciarla a casa.

la zia

la zia

I miei amici che amano gli spoiler si sono studiati le scalette di tutte le date precedenti, e ne hanno ricavate due, che variano nella canzone di apertura e in poche altre. L’unica cosa che accetto di sapere è che una delle due contiene brani più cupi. Spero che a noi tocchi l’altra: il lato tetro dei Cure mi piace molto, ma persone tristi in giro ce ne sono già abbastanza.

Inizia con Plainsong, e l’espressione contrariata di Concertillo mi fa capire che ci è andata bene.

È un brano tratto da Disintegration, il loro ottavo disco, una perla da cui sono stati estratti un paio dei singoli più famosi. Alla fine da quel disco suoneranno otto canzoni su dodici, basterebbe già per farmi contento.

Dietro il gruppo cinque pannelli proiettano immagini di fuochi bianchi che cadono in scie lente, sopra di loro quattro file di fari compongono il resto della scarna scenografia. Una parete di amplificatori e spie chiude alla vista la parte posteriore del palco, racchiude i musicisti lì davanti, come in una sala prove.

Davanti a me c’è Reeves Gabrels, il chitarrista che si fa i cazzi suoi. Non indossa roba vistosa, non va in giro. Lui è lì per suonare e suona. E suona bene e potente. Non a caso ha una certa fama, nell’ambiente. Per dire, è sua la chitarra in diversi album del David Bowie più recente: questo signore ha inciso i miei album preferiti, Earthling e Hours, ha scritto Thursday’s Child, cazzo.

lasciatemi suonare e portatemi una birra

lasciatemi suonare e portatemi una birra

Uno che invece non si rassegna a stare fermo è Simon Gallup, il bassista storico, carismatico e sempre più votato a somigliare a Johnny Bravo, il personaggio dei cartoni animati. Percorre il palco avanti e indietro nei suoi jeans aderenti, pianta uno stivalone sull’amplificatore e fa gesti al pubblico, torna da Robertone e gli ghigna qualcosa. Porta al polso un fazzoletto coi colori del Reading, la sua squadra del cuore. Alle sue spalle, fissata a una cassa, ha trovato spazio anche una bandiera.

È secco e nervoso, la canottiera degli Iron Maiden gli lascia scoperte le braccia asciutte. Sembra Mick Jones negli anni ’70, tanto per restare sui Clash.

leningrad cowboys go to america

leningrad cowboys go to america

La seconda e terza canzone in scaletta fanno ancora parte di Disintegration: Pictures Of You e Closedown, e non si allontanano granché dalla versione in studio.

A Night Like This non l’avevo mai sentita dal vivo, nonostante la facciano sempre ovunque. Rende bene.

Un altro pezzo per me inedito è alt.end, che però mi fa anguscia. Per fortuna subito dopo inizia la tastierina scema di The Walk, che ti entra in testa e non se ne va più neanche due giorni dopo, a casa, col cane che vorrebbe mangiare e tu che gli rispondi tatta tatta tarattatta tattattà tarattattà.

Plainsong

Plainsong

E poi Primary rumorosa, quadrata, cattiva. Viene su un casino di energia in questo concerto, che però rimane circoscritta al palco, non ti fa venire voglia di muoverti, e ci metto un po’ a capire perché.

È il cantante. Dosa la voce, la tiene bassa, spesso accenna soltanto il canto, o non segue la melodia e si limita a recitare il testo. Il pubblico segue lui e non si sente trascinato. Quando devi tirare tre ore di esibizione hai tutto il diritto di conservarti, e quello che viene fuori non è un brutto concerto, solo più statico.

If Only Tonight We Could Sleep non la fanno mai, e se volete il mio parere va benissimo così. Charlotte Sometimes invece mi arriva addosso inattesa. E uh, è proprio bella.

Poi qualche classico, poi From The Edge Of The Deep Green Sea, che è sempre il momento in cui mi isolo dal mondo e mi faccio il mio viaggio. Non lo so se c’è una canzone che mi piace più di questa, sarà che ogni volta che la riprendo mi dice qualcosa di nuovo.

Dopo il blocco principale, che si chiude con Disintegration, rientrano tre volte. Tre. E ogni volta suonano almeno quattro canzoni. E l’ultimo blocco sono tutte allegre e ballerine. Io non lo so di cosa siano fatti questi tizi, per quanto mi riguarda sono uno straccio già da un’ora.

Friday I'm in love

Friday I’m in love

Hanno suonato tantissimo, e diversi pezzi che non avevo mai sentito dal vivo. Esco dal palasport sulle ginocchia, col telefono scarico e un letto da qualche parte a Bologna che spero di raggiungere col gps, perché se ci provo con le preghiere tanto vale dormire in macchina.

È a quel punto che Sadichillo mi rivela che l’altra scaletta conteneva molte più tracce di Wish, apriva con Open e chiudeva con End, che lascia da parte l’originalità, ma sono due pezzi da aprirsi il torace e tirargli il cuore come le ragazzine le mutande.

 

Un’associazione di arbitri di calcio vorrebbe pubblicare una raccolta di racconti su di loro, e mi ha chiesto di partecipare.

Ho raccolto tutto quello che so di questa categoria per vedere se riuscivo a tirar fuori un racconto decente, ma ho scoperto che sugli arbitri di calcio so pochissimo, tranne che corrono parecchio e si vestono male.

Anni di frequentazione della Gradinata Nord mi hano reso molto più esperto sul mestiere delle loro mogli.

Che cosa mangia un arbitro? Quante ore dorme ogni notte? Perché, nonostante l’assenza di difese naturali, preferisce gli ampi spazi erbosi alle più sicure tribune, e così si espone alla ferocia dei predatori?

Ho girato le mie domande ad Alessandro, il mio contatto all’interno dell’associazione.

Non lo conosco personalmente, o almeno non credo: ha un gemello con cui facevo teatro, magari si sono scambiati il posto a mia insaputa.

È un uomo scrupoloso, Alessandro, e mi ha inviato subito una trentina di pagine sull’argomento che mi interessa, e per dimostrarmi di non essere suo fratello attore mi ha allegato i suoi baffi.

Ho così tanto materiale da esaminare che adesso che finisco di leggere tutto si è fatto natale, ma alla fine credo che ne saprò più io di wikipedia.

Ecco alcune delle curiosità che ho scoperto fin qui:

  • Solitamente in campo sono convocati quattro giudici di gara: l’arbitro, il guardalinee, il terzo uomo e Orson Welles nella parte di Harry Lime;
  • Le mutande degli arbitri sono slip bianchi con l’apertura davanti e l’elastico grosso. Hanno le cuciture rinforzate e sono così brutti da smorzare all’istante ogni appetito sessuale.
    Questo è necessario per impedire i tentativi di corruzione da parte di certi presidenti senza scrupoli, che prima della partita si introducono nello spogliatoio in guepière. Succede più spesso di quanto immaginate. Un presidente famoso per avere tentato più volte questo tipo di minaccia è stato Demetrio Torrepietra, patron della Dinamo Biroccio, ma lui vestito così ci andava pure al lavoro;
  • Esiste un’antica leggenda secondo la quale l’ombra di un arbitro posto a mezzogiorno sul dischetto di centrocampo indica con la testa il luogo in cui sarebbe sepolto il favoloso tesoro di capitan Barbaspaziata.
    Nessuno l’ha mai trovato perché la leggenda non specifica in quale campo e quanto dev’essere alto l’arbitro;
  • L’arbitro Collina è davvero pelato. Non ricorre a trucchi o computer grafica, i capelli che gli mancano sono proprio i suoi.

Per il momento è tutto, se volete saperne di più sugli arbitri di calcio dovrete comprarvi il libro.

Solo che non credo lo venderanno, mi sa che sarà una strenna natalizia ad uso interno.

Potreste iscrivervi a un corso di arbitri e diplomarvi entro gennaio, data di scadenza per la consegna del materiale, quindi entrare nell’associazione e ricevere il prezioso dono. Ne varrebbe la pena, mi hanno detto che gli autori contattati sono tutti di grande prestigio. Uno su tutti Renato Busone, giudice di gara romano, che ha inviato una sua autobiografia in tredici volumi. Il limite massimo è due pagine e mezza carattere dodici, ma gli hanno promesso che in fase di editing cercheranno di tagliare il meno possibile. Lui ha chiesto che per completezza venissero inseriti solo tutti i capoversi, credo che varrà la pena di leggerlo.