Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

Quand’ero bambino trovavo in edicola dei giornalini in un formato che stava a metà fra Topolino e i quotidiani nazionali; credo fosse lo stesso delle riviste patinate, ma a casa mia non si leggevano quelle riviste lì, oppure ero io che non le notavo, e di conseguenza il mio riferimento era un altro.

Erano i fumetti dell’Editoriale Corno, che pubblicava in italiano i fumetti della Marvel degli anni ’70, e lo faceva in riviste che ospitavano un po’ di tutto, dall’Uomo Ragno ai Fantastici Quattro, spesso troncando a metà la storia che mi stava appassionando per proporti l’inizio di una che aveva per protagonista un tizio che viveva nella giungla e di cui mi fregava generalmente poco.

Una delle serie che leggevo con meno entusiasmo, ma che è stata capace di sopravvivere fino a oggi al mio boicottaggio, si chiamava I Vendicatori. Ne avrete sentito parlare anche voi, probabilmente, dato che tre dei film a loro dedicati compaiono nella classifica dei più visti di tutti i tempi.

Quando questi film sono usciti in Italia il nome del loro supergruppo non è stato tradotto, forse perché Vendicatore è un termine che evoca cose brutte, ti viene più facile associarlo a un personaggio a cui hanno fatto delle cattiverie terribili, poi lui si è preso male e ha deciso di rispondere con la stessa moneta; in quei film lì non si parla di vendetta, i concetti morali che vengono espressi sono altri, più elevati probabilmente, e c’era il rischio di confondere il pubblico.

La vendetta è un sentimento tutto sommato semplice, non nasce dal ragionamento, è più che altro istinto: mi dai uno schiaffo e te ne do uno indietro, mi fai del male e trovo il modo di fartela pagare; al limite la razionalità sta nel concepire un piano per ferirti con più efficacia, ma il sentimento che sta alla base è sempre quello, istintivo, atavico, che condividiamo con gli animali. Credo che sia una versione appena più complessa della reazione al dolore che prova la maggior parte delle specie, l’autodifesa. Essendo la nostra in grado di elaborare le emozioni, abbiamo sviluppato forme di autodifesa più complesse, ma alla fine è sempre quella roba lì, quel sentimento basico che condividiamo coi cani.

Quindi no, i cani non sono meglio delle persone, ma non è di questo che volevo parlare.
Lascio due parole di contesto per quei due tre che mi leggeranno fra un mese e non capiranno a cosa mi riferisco:

In brevissimo, una ragazza è stata uccisa dal suo ex, lui è scappato ma l’hanno preso dopo qualche giorno. Nel frattempo ovunque, giornali, televisione, social e mondo reale, si è celebrato il rito collettivo del desiderio di vendetta, talvolta definita col suo nome e altre mascherandola dietro al concetto di giustizia, che però deve sempre includere mutilazioni fisiche sennò non vale.

Quello che ci tenevo a evidenziare qui sopra, per quegli stessi due tre, è che desiderare la violenza nei confronti di una persona che ha commesso un crimine violento non ci mette dalla parte del giusto, ma da quella che ha commesso il medesimo reato.

Perché è di quella roba lì che stiamo parlando, di quella reazione istintiva che ci rende parte del regno animale. Esprimerla è solo naturale, non ci rende migliori, non dovrebbe farci sentire parte della squadra dei Buoni, ci rende solo esseri umani. Neanche ci qualifica come mammiferi, perché l’istinto all’autodifesa ce l’hanno anche i rettili. Stiamo solo esercitando il nostro dovere di specie, quello di opporsi all’estinzione, e lo stiamo facendo nel modo più elementare possibile, ma essendo noi creature complesse lo abbiamo decorato con qualche parola in più. È la stessa ragione per cui quando vogliamo accoppiarci e abbiamo scelto il nostro partner lo invitiamo a cena fuori invece di annusargli il culo e poi zompargli addosso. Ci abbiamo appiccicato un costrutto più o meno civile, ma il concetto è rimasto lo stesso.

Quello che dovremmo essere capaci di fare, se volessimo davvero stare dalla parte dei Buoni, è augurarci che questo tizio sconti la sua pena in un istituto che lo metta in condizione, in un futuro non troppo lontano, di essere reinserito in società ed essere utile in qualche modo. È bruttissimo da leggere, quando sei ancora scosso da una tragedia, ma una società evoluta dovrebbe porsi questo come obiettivo, non Hammurabi.

Il problema è che se ci guardiamo intorno, di società evolute non se ne vedono granché. La tendenza generale sembra premiare i comportamenti istintivi a scapito della razionalità, l’ostentazione della forza rispetto alla ricerca del dialogo, la punizione dove servirebbe maggiore comprensione.

Istinto, forza e punizione, peraltro, sono proprio i tre elementi che compongono il terreno ideale in cui avvengono i femminicidi: uomini che si fanno guidare dal cazzo e puniscono le loro ex per averli lasciati.

Non ho granché da dire sul femminicidio, sono un uomo e ho esercitato molte volte il mio potere sulle donne, e probabilmente a qualcuna è venuto il dubbio che potessi finire anch’io in cronaca, perché di comportamenti sopra le righe ne ho avuti quanti ne vuoi. Non credo di poter dare lezioni a nessuno e quindi non ne do, mi limito a contenere il mio istinto e cerco di imparare a essere migliore, però mi interessa questa deriva vendicativa, la punizione come ragione di essere, perché la sto vedendo ovunque, negli uomini che ammazzano le compagne e in quelli che vogliono impedirglielo, in quelli che piove governo ladro e nel governo che promette di costruire una società migliore.

È appena stato emesso un nuovo “decreto sicurezza”, perché si vede che prima non eravamo abbastanza al sicuro. In realtà in dieci anni i reati sono scesi in media del 25%, ma a questi poveri cristi degli elettori di destra devi pure darglielo un motivo per votarti di nuovo, e quindi aumentiamo la pena per una manciata di reati già esistenti, anche se non è mai successo nella storia che l’inasprimento di una pena portasse a un calo del reato in questione, mai, per nessuno, neanche per i furti di biciclette.

Quello che trapela, mi sembra, è l’espressione della stessa triade di cui sopra, appagare gli istinti più bassi, esibire la propria forza, punire. Che sia per appagare i propri bisogni o quelli dell’elettorato di riferimento fa poca differenza, ad un certo punto della nostra storia ci siamo trovati di fronte a un bivio, e abbiamo abbiamo preferito dare più importanza alla soddisfazione dei bisogni immediati, mangiare e scopare, che a quelli a rilascio più lento, come l’educazione, e oggi ne stiamo raccogliendo i frutti.

Per me quel momento è abbastanza definito:

Quello è stato il momento in cui una parte degli italiani hanno trovato il modo di evitare tante menate che non potevano o non volevano capire, hanno potuto lasciarsi alle spalle le responsabilità di tenere in piedi un Paese vecchio e pieno di problemi, e si sono lanciati dietro al carrozzone da cui usciva un sacco di musica allegra e promesse per il futuro. Che ci pensasse qualcun altro a far funzionare il sistema, loro avevano già dato.

Peccato che di quel sistema facessero parte certi valori che garantiscono il funzionamento dell’essere umano, prima ancora di quello di uno Stato: l’empatia, il rispetto per i più deboli, il senso di responsabilità, generosità, educazione, diritti delle donne sono solo i primi che mi vengono in mente.
Si sono attenuati tutti questi principi, come se quei pochi che ancora cercavano di mantenerli fossero stati annacquati in mezzo alla massa di persone che avevano cominciato a voltarsi dall’altra parte. L’espressione “patriarcato” è venuta fuori con insistenza più di recente, e un po’ li raccoglie tutti questi concetti, ma secondo me ce n’è un’altra più efficace e che ci riporta al centro del tema di questi giorni: “avere il cazzo”.

El Macho | Minion movie, Minions movie characters, Despicable me

Oggi gli uomini sembrano avere un grosso problema a dimostrarsi tali, seguendo quei precetti che sono stati inculcati nelle loro testoline semplici da decenni di celodurismo a mezzo televisivo, e sono andati in crisi. Non si sentono più maschi alfa, adesso che gran parte dell’attenzione si è spostata sugli omosessuali, sulle donne indipendenti, sui maschi sensibili, e per reazione hanno cominciato a fare l’unica cosa che la società in cui sono cresciuti è stata capace di insegnargli, alzare la voce e ribadire il loro essere gli unici autorizzati portatori di cazzo certificato. Quindi più cazzo per tutti, nelle declinazioni in cui esso è interpretato: esibizione di forza, prevaricazione, autoritarismo, chiusura. Quindi, di conseguenza, crescita dei movimenti di estrema destra, crescita degli episodi di violenza sui soggetti più deboli e sulle minoranze, intolleranze sparse.

Non succede solo da noi, guarda chi hanno appena eletto in Argentina (no, non è Jimmy Page), in Olanda, chi è stato presidente negli Stati Uniti dopo Obama, chi viene fuori nell’est europeo. Ci sono altri fattori, non è una conseguenza così diretta della crisi del maschio, ma mi sembra che il cazzo abbia una sua responsabilità.

Mi sembra che ci sia una tendenza all’imbarbarimento, e limiterei le responsabilità al cazzo, se non fosse che con l’aggressività sta aumentando anche il numero di sciroccati che si bevono qualunque minchiata. Sembra il film Idiocracy in versione pulp, e questo non credo che dipenda dal testosterone fuori scala, quindi forse la causa principale è un’altra. Ma allora cosa sta succedendo?

Idiocracy (2006) - IMDb

Non escludo che si tratti solo di una sensazione personale dettata dall’età: si sa che un effetto dell’invecchiamento riguarda la nostalgia per il passato, e si finisce per illudersi che una volta le cose fossero migliori. Magari i coglioni sono sempre stati così tanti, magari prima erano anche più rissosi di oggi, e ho letto da qualche parte che la destra in Europa ha fatto molti più proseliti nella prima metà del Novecento che in tutti gli anni successivi messi insieme, ma io vivo adesso, non nella prima metà del Novecento, e finora non mi era mai capitato di trovarmi i fasci al governo contemporaneamente in Italia, Olanda, Ungheria, Polonia, Russia e Argentina, 105 donne ammazzate in un anno e per contorno una streppa di scemi che mi dicono che i vaccini ci uccideranno tutti e il riscaldamento globale non esiste. Sì, perché ci sarebbe anche questo dettaglio che ci stiamo arrostendo, e neanche lentamente.

Passerà, credo. Un effetto positivo di questa esibizione sproporzionata di virilità è la risposta altrettanto decisa di chi preferirebbe altre parti del corpo a dirigere il mondo, magari quella preposta a farlo, e se finora ha tenuto la voce bassa perché è educata magari adesso comincerà a farsi sentire di più, e alla lunga le due forze contrapposte finiranno per bilanciarsi e le cose riprenderanno il loro ciclo. E magari la stessa cosa succederà in contrapposizione alle altre forze crescenti, gli idioti smetteranno di ottenere visibilità, i movimenti democratici si riprenderanno le piazze e tutto tornerà a funzionare in un modo più o meno accettabile.

Solo che per allora saremo tutti evaporati.

Innanzitutto una nota per i milioni di lettori che arrivano qui da fuori Genova:
Melina Riccio è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che può capitare di incontrare in giro per Genova, mentre butta mangime ai piccioni o si trascina dietro il suo carrello per la spesa. Può sembrare una delle tante pensionate che ciondolano per i nostri centri storici, ma Melina Riccio è molto di più, è un’artista di strada. Anzi, a Genova per qualche anno è stata la writer più popolare, la Banksy locale, direi. Fino a qualche anno fa, in città come altrove, non era difficile imbattersi nei suoi “murales”. Si trattava di brevi elenchi di parole, talvolta in rima, riguardanti perlopiù il nostro rapporto con l’ambiente cittadino e la natura, cose semplici tipo “la spazzatura fa paura alla natura”, o “amore certo casto bello”, scritte in stampatello con un pennello piuttosto largo sui muri e sui grossi bidoni metallici dell’indifferenziata. Ne parlo al passato perché da un po’ di tempo non mi capitano i suoi lavori sotto gli occhi, e magari si è ritirata per sopraggiunti limiti di età, ma magari invece è attivissima, non prendetemi in parola su questo (ma neanche sul resto, sono un cazzaro).

Melina Riccio - Costruttori di Babele

Essendo uno spirito inquieto, Melina Riccio ha portato la sua opera in giro per l’Italia, magari senza coprire grosse superfici coi suoi slogan futuristi, ma semplicemente lasciando la sua firma corredata da una stella. Fuori dalla stazione di Roma, o da quella di Venezia, un occhio attento può ancora rilevare il tag di Melina, scritto piccolo su una piastrella o enorme su un palo dell’illuminazione.

Negli anni ci si è interrogati molto se quella di Melina fosse davvero arte o semplici scarabocchi, ma non credo di poter dare io la risposta definitiva (anche perché l’ho già fatto). Quello che però mi sento di dire oggi è che se Melina Riccio avesse un sacco di soldi da spendere per le sue opere nessun critico avrebbe dei dubbi, quella sarebbe arte contemporanea e la gente pagherebbe un sacco di soldi per andarla a vedere esibirsi. Certo, Melina Riccio a quel punto non dovrebbe limitarsi a dipingere e fare collage, dovrebbe anche scrivere musica e cantare, e a quel punto tutti si renderebbero conto di quello che io ho capito solamente ieri sera, quando per la prima volta in vent’anni sono riuscito ad andare a un concerto di Bjork.

Bjork, una retrospettiva in quattordici puntate

Bjork è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che ogni tanto fa uscire un disco che divide a metà la critica: da una parte quelli che la considerano un genio assoluto e dall’altra quelli che trovano i suoi lavori inascoltabili e pallosi oltre l’umano. Per capire da che parte stia dovremmo andare per ordine e proporre una retrospettiva ragionata in quattordici puntate in cui analizzo ogni singolo brano a partire da quando suonava con gli Sugarcubes, ma farei felice solo me stesso e solo per i primi dieci minuti, perché comunque è vero che Bjork è pesante, non lo scopriamo oggi. Ma è anche un genio, forse addirittura superiore a Melina Riccio.

Di Bjork con gli Sugarcubes avevo scritto qui, perciò partiamo dalla sua produzione solista, che è più facile e si inizia col botto.

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Il suo primo disco solista lo incide nel 1977 a 11 anni, ottiene il disco di platino in Islanda, ma la verità è che il disco era una raccolta di cover in islandese e ha venduto 5000 copie su una popolazione di poco superiore a quella di Messina. Lasciamo perdere.

Debut è del 1993, e insieme ai due album successivi, Post (1995) e Homogenic (1997), compone l’intera discografia di Bjork che si può ascoltare senza cominciare a sentirsi scomodi sulla sedia. A dar retta a certe voci, il resto della produzione della cantante è stato fortemente influenzato dalla sua relazione con Matthew Barney, un artista visivo statunitense che ha conosciuto nel 2001 e con cui ha convissuto fino al 2013. Non è un’ipotesi così astratta, Vespertine è l’album che segue la trilogia meravigliosa, ed è appunto del 2001, e prima di incontrare questo personaggio Bjork si accompagnava a musicisti del calibro di Tricky e Goldie.

Ora, di sicuro Bjork non è un contenitore vuoto che chiunque arrivava riempiva a piacimento (nessuna allusione sessuale qui), e anche nei primi dischi è molto presente quella dissonanza sonora che dilagherà successivamente, ma le influenze sonore dei due signori qui sopra, e anche di Howie B, che collaborò al terzo album, si sentono parecchio.

La stessa cantante ha pubblicato una specie di guida all’ascolto dell’album che celebra la fine della sua relazione col compagno, Vulnicura, del 2015, spiegando come l’intero album sia una specie di processo di elaborazione del lutto e descriva i suoi diversi stati emotivi prima e dopo la rottura.

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Ce la siamo persa, Bjork. Da Vespertine in avanti la sua voce e la sua musica sono state accomunate solo per essere registrate contemporaneamente sulla stessa traccia, ma andavano ognuna per la sua strada ignorandosi a vicenda. Tappeti sonori densissimi, effetti barocchi, echi, atmosfere ambient, la produzione di Bjork negli anni ha preso una strada che anche i critici più eccitati hanno cominciato a guardare prima con sospetto, e poi con sempre più disaffezione. Dall’altra parte le sue apparizioni in pubblico sono state caratterizzate da abbigliamenti sempre più bislacchi e complicati, fino al Coachella di quest’anno, in cui si è presentata sul palco, fra le altre cose, in un abito su cui erano stati cuciti quasi 1500 led che reagivano al suono.

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Non mi piace dare la colpa a qualcun altro di questo suo ripiegarsi su sé stessa, preferisco credere che faccia tutto parte di un suo percorso interiore che non siamo tenuti a capire o apprezzare, ma solo accettarlo e andare avanti. Se e quando deciderà di tornare a meravigliarci col suo pop extraterrestre saremo qui ad aspettarla.

Io però nel frattempo avevo comprato il biglietto per il suo concerto di Milano, e mentre la data si avvicinava stavo maturando una certa apprensione. Su setlist avevo già sbirciato la scaletta del concerto, sempre la stessa per tutte le date, e conteneva praticamente solo canzoni degli ultimi due album: il pesantissimo Utopia e il meno pesantissimo ma comunque sempre difficile da digerire Fossora. Perdipiù ero da solo, non essendo riuscito a imbarcare nessuno dei miei amici e familiari in questo progetto assurdo. “A vedere chi? Ma tesseiffuori!”, mi hanno risposto tutti quelli a cui l’ho chiesto. L’unico che avrebbe accettato è stato il mio amico Musicadimerdillo, che è abituato ad ascoltare gente che suona la verdura sotto la doccia, e per lui Bjork è una passeggiata nel bosco, ma quel giorno doveva strapparsi le unghie a morsi e non poteva venire.

Sono andato a Milano da solo. Prima del concerto una voce ha spiegato che Bjork non vuole vedere telefonini durante il concerto, perché la distraggono e danno anche fastidio a chi vi sta vicino, perciò sul sito sarebbero state messe a disposizione gratuitamente foto comunque migliori di quelle che potrete fare voi coi vostri cellulari di merda. Per questa ragione le foto che trovate a corredo del mio post non le ho scattate io, le ho prese dal sito ufficiale. I video invece li ho scroccati a quelli che se ne sono sbattuti le balle e il telefono l’hanno usato lo stesso.

Vabbé, ma il concerto com’è stato?

Qui i pareri si dividono. Qualcuno che l’aveva già vista altre volte l’ha trovata particolarmente intonata, ma noiosa oltre l’umano, quindi in linea con la sua produzione discografica. Matteo Bordone, giornalista del Post, è uno di questi, e il giudizio molto severo che esprime nel suo podcast (che non vi linko, essendo solo per abbonati, ma se siete abbonati lo avete sicuramente già ascoltato) è che fa sta roba complicatissima da ascoltare e poi neanche te la spiega: in un’ora e quaranta di esibizione ha detto solo “grazzi” un paio di volte alla fine. Però la trovo una critica ingiusta: ochei, non ti fa gli spiegoni sul palco, ma rilascia interviste, scrive roba sui social, non è un’artista chiusa in casa che produce roba ermetica e ti lascia l’incombenza di interpretarla. Io ai concerti difficilmente vedo artisti che chiacchierano col pubblico. Certo, ci sono quelli che introducono le canzoni dicendo due parole, ma ce ne sono tantissimi che salgono sul palco, fanno la loro roba e se ne vanno senza dire niente né fare soste. Cazzo, ho visto De Gregori per anni e in tutto l’avrò sentito pronunciare meno di dieci parole.

Il concerto di Bjork è la versione in grande, più tecnologica, più rumorosa e (poco più) musicale del portone di casa di Melina Riccio.

MELINA RICCIO - Drawing - Outsider Art Now

Ci sono questi due livelli di tende trasparenti su cui vengono proiettate le immagini, e la scenografia è grossomodo tutta lì. C’è una piattaforma su due piani e Bjork e le sue ragazze lo percorrono avanti e indietro, c’è una specie di cabina che ricorda un po’ la testa di un polpo.
Le ragazze in questione sono le Viibra, un settetto di flauti e clarini che fanno anche da corpo di ballo, muovendosi in sincrono e componendo figure. Il resto della band sono Bergur Þórisson (che lascio scritto senza la traslitterazione così vi resta la curiosità di sapere come si pronuncia), ingegnere del suono, Katie Buckley all’arpa e soprattutto Manu Delago, percussionista bravo abbastanza da giustificare tutto quel circo e il costo del biglietto. Per dire, ad un certo punto si è messo a suonare delle ciotole dentro una vasca piena d’acqua, ma in generale la base ritmica del concerto, quando c’era, si sentiva forte.

Il concerto è stato un’ora e quaranta di musica noiosa, ma la coreografia, le immagini che scorrevano alle spalle dei musicisti, il carisma di quella piccoletta stramba vestita da omino Michelin, e probabilmente il fatto che questo fosse uno dei pochissimi concerti a cui ho desiderato partecipare per anni, hanno fatto scorrere il tempo molto velocemente. Il tizio seduto accanto a me con un grosso problema di traspirazione ha contribuito ad allungarlo un’altra volta.

Non è un’esperienza facile, e probabilmente non è neanche davvero un concerto. È più vicina a uno di quei videogiochi fatti apposta per mostrarti le capacità della nuova console, ambientati in un luogo pieno di forme che si muovono e suoni che hanno poca musicalità, ma sotto tutta quella roba messa lì per confonderti c’è sempre la stessa Bjork di Post, che gioca con la techno e agita il braccio sopra la testa per tenere il ritmo, che strilla e si mette a ballare. O perlomeno ci prova, visto che l’abito è piuttosto ingombrante.

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Prima del pezzo che chiudeva il concerto ci ha detto “if you feel like dancing don’t hold it”, come se fosse facile mettersi a ballare su quella roba, ma poi gli strumenti si sono allontanati e il ritmo si è fatto sentire più chiaramente, e se non fossimo stati tutti seduti e sedati dal tappeto sonoro ininterrotto che ci ha portati fin lì magari ci sarebbe venuta voglia di alzarci e saltellare. Invece la musica finisce, ci alziamo e ce ne andiamo.
Io peraltro stavo vicino all’uscita, e cinque minuti dopo la fine del concerto ero già all’imbocco della tangenziale.

Magari è stato più noioso e superfluo e ridondante di molti altri concerti, ma per me che era il primo, e su cui avevo pochissime aspettative, è stato pazzesco. Quando ho riconosciuto in mezzo a quel casino Venus as a boy mi sono lasciato scappare un’esclamazione che quello vicino a me ha staccato gli occhi dal telefono su cui seguiva la partita dell’Italia; quando ha presentato i musicisti, sentirla parlare con quel suo accento assurdo, dopo una vita che la ascolto solo attraverso delle casse (vabbè, anche stavolta in realtà, ma ci siamo capiti) è stata un’emozione.
Insomma, io Bjork la voglio rivedere prima possibile, e stavolta non voglio comprare il biglietto in piccionaia, voglio stare davanti. Non mi importa del costo, ne vale la pena. Per lei ne vale la pena.

Mi sono reso conto, con un certo fastidio, che questo blog si sta riempiendo di necrologi, e il fastidio è dovuto alla consapevolezza che la causa stia nel mio anno di nascita, che col tempo mi trovo a condividere con sempre meno persone.
Oggi purtroppo se n’è andato uno dei pilastri dei miei vent’anni, una donna un po’ più vecchia di me, che ha avuto una vita molto ma molto peggiore della mia, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario. Si chiamava Sinéad O’Connor, e non ho mai imparato a pronunciare correttamente il suo nome (è più o meno Scinèid).

Ora non voglio mettermi qui a raccontare le sue disgrazie, ci sono un sacco di informazioni disponibili in rete se uno ha voglia di andarsele a cercare, e se non ne ha voglia non vedo perché dovrei premiare la sua pigrizia riassumendogliele io.

Oltretutto fra le reazioni alla sua morte sui social ho letto diversi commenti di disprezzo per cose che o non erano vere o richiedevano un minimo di contesto, e l’ultima cosa che ho voglia di fare è mettermi a discutere con questi personaggi, che tanto sarebbe tempo perso. E comunque torniamo sempre a quella volta che strappò in diretta tv la foto del papa, un gesto potentissimo allora, ma che ancora oggi, fra i milioni di contenuti che ci affollano la giornata, riesce ancora a farci fermare per un momento il respiro. A certi fa ancora andare la lingua e le dita, non c’è niente da fare.

Se fermi l’immagine al fotogramma giusto puoi vedere il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei

Forse non è stata un’artista indimenticabile, è esplosa con una canzone che non era neanche la sua (e il cui autore è morto di morte prematura, come lei e come un altro ottimo interprete dello stesso brano, ma non sarò io a dire che la canzone porta sfiga), ha pubblicato qualche disco perlopiù ignorato dal pubblico, ha collaborato con un sacco di artisti più o meno famosi, coi quali ha tirato fuori delle perle. Ma era un’artista della madonna, e se non avesse sabotato la propria carriera con una caparbietà invidiabile, oggi saremmo molti di più a celebrare la sua scomparsa.

Se gli irlandesi sono stati considerati per secoli gli sfigati d’Europa, lei è stata di sicuro la sfigata d’Irlanda, ha incarnato per tutta la vita le disgrazie di cui è stato protagonista il suo popolo, dagli abusi dei preti all’esilio, al lutto. Per tutta la sua breve vita si è portata dietro un peso enorme, senza mai riuscire a conviverci. Ha cercato una quadra ovunque, nell’impegno sociale, nel cristianesimo, nel rastafari, alla fine si è perfino convertita all’islam, ma quel macigno non l’ha mai posato, e alla fine c’è rimasta sotto.
Poteva finire quarant’anni fa in un vicolo con una pera nel braccio, o nel suo letto imbottita di anfetamine durante una qualunque delle crisi che l’hanno perseguitata, e non ci sarebbe stato niente di inaspettato. Ha superato tutto, ha cercato sempre di trovare un modo, ma si vedeva che i mostri che aveva dentro se la stavano mangiando; poi l’anno scorso suo figlio si è ammazzato, e immagino che abbia semplicemente smesso di resistere.

A guardarla da lontano si potrebbe definire una fra i tanti artisti che fra gli ’80 e i ’90 hanno azzeccato un paio di canzoni per poi tornare nell’anonimato, ma è chiaro che non è così: la settimana prima che uscisse Nothing Compares 2U, a febbraio del 1990, la testa della classifica la occupavano i Technotronic, ma non so chi se li ricorda, oltre a me. Così come pochi si ricordano di Crystal Waters, e non credo che leggeremo mai da nessuna parte il necrologio di uno dei Kris Kross (di quello ancora vivo, peraltro. Lo sapevate? No, appunto).
Non era una qualunque, aveva una carriera spianata davanti: il secondo album, quello di Nothing Compares 2U, vendette 7 milioni di copie, e subito dopo partecipò al concerto di Berlino di Roger Waters per celebrare la caduta del muro. Era un fenomeno, e piaceva a tutti. Almeno finché non cominciò a dire quello che pensava, e quello che pensava non piaceva a tutti, perché era incazzata con l’America, era incazzata con la Chiesa Cattolica, e anche se aveva le sue ottime ragioni per essere incazzata il pubblico cominciò a fischiarla.

Trovatevi qualcuno che vi guardi come Sinéad O’Connor guardò il pubblico del Madison Square Garden alla fine della sua canzone.

Di lì in poi il termine “spianata” riferito alla sua carriera assunse tutto un altro significato.
Però noi c’eravamo. Noi che ci eravamo innamorati della sua testa rasata e della sua voce incazzata e delle lacrime e di quegli occhi che guardavano il mondo come se fosse stato un gatto che aveva di nuovo cagato fuori dalla cassetta.
Per noi Sinéad O’Connor ha rappresentato una grossa fetta della nostra vita. Non ci siamo limitati a cantare le sue canzoni, abbiamo modellato il nostro immaginario femminile su di lei, e da allora abbiamo subìto una bizzarra attrazione verso le ragazze coi capelli cortissimi, gli occhi grandi e il naso a punta e parliamo di noi stessi al plurale per imbarazzarci di meno. Abbiamo continuato a seguirla attraverso i suoi dischi mediocri, le sue dichiarazioni che col tempo si sono fatte meno incazzate e più tristi, e i suoi cambi di pelle per cercare di sopravvivere, che abbiamo interpretato come stranezze di una persona allo sbando.

Era l’otto luglio del 2010 quando sono riuscito a vederla dal vivo, al Porto Antico di Genova.
Aveva i capelli lunghi, non era più la ragazza su cui avevo costruito il mio immaginario femminile, adesso sembrava più sua madre, ma neanch’io ero più quel ragazzino là.
Portava un vestito a fiori e una chitarra, ma gli occhi erano sempre quelli, sempre splendenti di una rabbia che non aveva ancora smesso di bruciarle dentro. Aveva detto anche allora qualcosa contro la Chiesa, un riferimento al vescovo che abitava poco distante, o qualcosa del genere, non ricordo.

Stamattina in rete si trovano commenti di ogni genere, alcuni molto belli e toccanti. Vabbè, ci sono anche quelli negativi, ma appartengono tutti agli stessi profili che negano il riscaldamento globale, l’utilità dei vaccini e il nazismo di Putin.
Tolti i terrapiattisti, l’opinione comune è che se ne sia andata una persona stupenda, che avrebbe dovuto essere ascoltata di più. Fra tutti, ne vorrei riportare due, che mi hanno colpito per ragioni diverse. Mi scuso in anticipo per la traduzione povera e i tagli, non posso riportare il link perché Elon Musk è fondamentalmente un idiota.

L’Irlanda negli anni ’80 era un luogo buio che si stava spostando verso la luce. Erano i nostri artisti e, più di tutti, i nostri musicisti, che indicavano la strada da seguire.
Piccola di statura, i capelli rasati, Sinéad O’Connor cominciò a prendere a calci le ultime vestigia di rispettabilità del nostro passato cattolico. Il fatto che la sua testa fosse rasata non era dovuto al caso; dato il modo in cui i corpi e le azioni delle donne erano controllati, lei era il simbolo supremo di chi eravamo, e di chi volevamo essere.
E poi si mise a cantare.
“Mandinka” cambiò molte cose, perché era arrabbiata e cruda ed energica e rassicurante, tutto insieme. Poi arrivò “Troy”, e all’improvviso questo folletto incazzato con gli anfibi (non nel senso che era in lite con le sue scarpe, n.d.t.) stava cambiando le classifiche e il modo in cui vedevamo noi stessi.
Lavorai in un hotel dove alloggiava durante quell’iniziale esplosione di popolarità che non si addiceva alla sua figura – piccola, vulnerabile, circondata da persone che volevano qualcosa, ma lei se ne lasciò travolgere. Suonò all’Olympic Ballroom, e sia noi che lei fummo storditi dalla sua esibizione. Ad un certo punto non aveva più canzoni da cantare, e dovette ripeterne qualcuna. Non importò a nessuno.
Poi arrivò il successo vero, e tutte le belle cose finirono.
Ci sono persone migliori di me – fra cui Sinéad stessa, nella sua autobiografia – che possono raccontarvi la storia del suo dolore e di tutto ciò che le è successo, e di tutte le persone che l’hanno abbandonata così brutalmente.
Immaginate di essere gravati da qualcosa della grandezza e della magnificenza di quella voce, e di non esserne felici; per lei questa cosa era talvolta un macigno.
Non cambiò niente nella sua musica; quel dolore era sempre lì, ed è così triste che qualcuno che ci ha dato così tanto non abbia potuto godere di quella generosità che ci ha sempre mostrato.
(…) Siamo stati fortunati ad averla avuta, e dovremmo chiederci cos’altro avremmo dovuto fare per tenerla con noi; la sua sofferenza avrebbe dovuto essere qualcosa che andava condiviso fra tutti noi, perché glielo dovevamo, alla fine.
Riposa in pace, Sinéad.
Nothing – nothing – compares.

Philip O’Connor (giornalista irlandese)

L’anno scorso ero in Irlanda per lavoro. Stavo bevendo una pinta fuori da un pub di Dalkey con alcuni nuovi amici, quando una donna ci passò accanto con passo determinato. Piumino chiuso fino alla nuca e la testa china coperta da una sciarpa. Uno dei miei nuovi amici borbottò un’esclamazione, saltò in piedi e la inseguì. Trenta metri più avanti il mio amico e la donna si abbracciarono, e lui mi fece cenno di raggiungerli. Fu là, sotto la luce dei lampioni, col freddo che ci condensava il respiro, che incontrai Sinéad. Mi guardò negli occhi, e con una dolcezza disarmante, disse “oh, sei tu, Russell”.
Tornò al tavolo con noi e ordinò un tè caldo. In una conversazione senza barriere passammo dalla recente ondata di calore su Dublino alla politica locale, da quella americana alle proteste per i diritti delle popolazioni locali che stavano avendo luogo in diversi paesi, ma specialmente in Australia. Ci parlò dei suoi caldi ricordi della Nuova Zelanda, di fede, di musica, film e di suo fratello, lo scrittore. Ebbi l’opportunità di dirle che per me lei era un’eroina.
Quando la sua seconda tazza si stava raffreddando all’aria della notte si alzò, ci abbracciò tutti e si allontanò a grandi passi verso i lampioni offuscati dalla nebbia.
Noi quattro ci siamo seduti e, con parole diverse, abbiamo espresso lo stesso pensiero. Che donna straordinaria.
Che il tuo cuore coraggioso riposi in pace, Sinéad.

Russell Crowe (gladiatore)

Stamattina alle tre e mezza ero seduto sul gabinetto e cercavo di capire dove mi trovavo. Mi trovavo sul gabinetto, l’ho già spiegato, ma una parte di me non ne era ancora del tutto cosciente. Stavo aggrappato al telefono come un naufrago per non annegare un’altra volta nel sonno, e la prima cosa che mi è capitato di leggere è stato il messaggio di un’amica che mi scriveva che è morto il mio scrittore preferito.

In quello stato di semi incoscienza mi sono chiesto chi fosse il mio scrittore preferito, e onestamente non saprei rispondere neanche adesso che sono passate due ore e sono già pronto al secondo caffè, ma nella zona grigia in cui mi dibatto a quelle ore non lo avrei saputo indicare neanche se avessi a casa il suo busto in marmo.

Questa è la conversazione che hanno avuto i miei due neuroni funzionanti:
“Ma chi, Saramago?”
“Ma no, è già morto, siamo anche stati sulla sua tomba l’anno scorso”
“Ma che tomba, era un albero”
“Siamo stati sul suo albero l’anno scorso”
“Sì vabbé adesso era un macaco”
“No un ulivo”
“No dico Saramago”
“Nel senso che diventerà come Gandalf?”
“Ma chi?”
“L’ulivo”
“A me l’ulivo fa venire in mente più D’Alema”
“Quindi è morto D’Alema?”
“Ma non è il mio scrittore preferito”
“E allora chi è?”
“Un segretario del PD coi baffetti”
“No, dico lo scrittore”
“Qui non c’è scritto. Aspetta che apro google”

Era Cormac McCarthy, come ormai sanno già tutti, e non è stata una grossa sorpresa perché aveva 89 anni, e dato che aveva appena pubblicato due romanzi avremmo dovuto aspettarci il prossimo fra 15 anni, ma uno a 104 anni che cosa ci deve raccontare ancora, lasciamolo crepare in pace poveretto.

Non so se era il mio scrittore preferito, mi sa che neanche ce l’ho uno scrittore preferito unico al di sopra di tutti gli altri. È stata comunque una botta, più di quella ricevuta due giorni fa per la scomparsa di Francesco Nuti, di cui amo tuttora smodatamente due film, ma che alla fine sentivo vicino come il lontano parente simpatico che racconta le barzellette.

C’è stata un’altra scomparsa eccellente in questi giorni, ma non credo valga la pena di aggiungere contenuti, il carrozzone è già pieno così. Speriamo che non finisca come nel 2016, non gioco al fantamorto e buona parte dei miei eroi hanno raggiunto un’età ragguardevole, vorrei centellinarmi i lutti per quanto possibile.

Comunque McCarthy scriveva come uno che ha girato tutto il mondo a raccogliere le parole più adatte e poi si è seduto alla scrivania e le ha provate tutte una per una per trovare quella che ci stava meglio, io quando leggo i suoi libri mi sento come se stessi di fronte a un fantasma, a una di quelle cose che sai che non potrebbero esistere eppure ce l’hai davanti e ti sta dicendo delle cose e insomma ci dev’essere un motivo se le sta dicendo proprio a te, forse sei l’Eletto ed è il caso che lo stai a sentire, e il pensiero che questo privilegio è solo legato all’aver comprato un libro ed è un’esperienza ultraterrena che potrebbe vivere chiunque eppure non c’è la fila davanti alle librerie, a me è una cosa che mette una profonda tristezza.

Sarà che l’opera di uno scrittore richiede una partecipazione attiva da chi ne fruisce, mentre per un film o un disco basta che ti siedi e stai sveglio, ma quando muore un gigante della letteratura non assistiamo a scene di lutto collettivo, cordoglio nazionale, funerali di stato. È più facile che ne goda un pluripregiudicato il cui unico contributo all’arte è stato scorreggiare al G8.

Ciao signor McCarthy, io non porterò il lutto in tuo onore. Oggi tornerò a casa un po’ più triste, mi leggerò qualche altra pagina del tuo libro e berrò un po’ di quel prosecco che ho stappato l’altroieri per festeggiare una bella giornata, e anche questa lo sarà, alla fine.

Grazie per ogni linea di dialogo che mi hai obbligato a rileggere all’indietro per capire chi dei due stesse parlando, per ogni pagina che mi sono ripetuto ad alta voce per ascoltarne la musica, per ogni capitolo che quando finiva era come aver terminato una tappa di montagna, per i cavalli.

E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

Stasera ho guardato l’ultima di campionato, dove il Genoa si giocava la permanenza in serie A per la tipo tredicesima volta, a dimostrazione che una buona pianificazione societaria da queste parti non è considerata un requisito per gestire una squadra di calcio. Che poi dici vabbè, mica è facile, una società ha dei costi, e oramai campano tutte coi diritti televisivi, perciò se non hai il bacino di spettatori paganti delle grandi squadre non puoi stare a galla senza venderti ogni anno tre quarti di squadra e comprare in sostituzione i giocatori in offerta nel cestone della Lidl. Poi però il Sassuolo finisce ottavo con tanto pubblico quanto l’Alessandria, e l’Udinese sono anni che sta nella parte alta della classifica, e praticamente ogni altro club di serie A si tiene i giocatori per più di sei mesi, e allora forse non è una questione di quanti soldi ti girano per le mani ma di come li spendi. Gasperini ci ha portati a giocarci la Uefa, e l’abbiamo mandato via perché non andava d’accordo con la gestione della squadra che imponeva il presidente. È andato a Bergamo, e in quattro anni ha portato la squadra a giocarsi la Champions League per tre volte. Magari quei giocatori era il caso di comprarglieli? Noi da allora di allenatori ne abbiamo cambiati una decina, e ogni anno se non retrocediamo è per qualche miracolo. Che poi in giro parlano di miracoli infilati in buste passate lontano dalle telecamere, ma mi pare che essendoci già passati una volta dovremmo esserci fatti un po’ più furbi e queste cose vorrei sperare che non le facciamo più. Oppure l’esserci fatti un po’ più furbi consiste nel riuscire a non farsi beccare.

Quindi il problema è la società, a cui tutti chiedono a gran voce di levare le tende, come è stato chiesto a gran voce a tutti i proprietari che si sono succeduti, una volta terminata la luna di miele coi tifosi e realizzato che se vuoi fare cassa devi avere poche ambizioni. Avevamo un blog, anni fa, chiamato Nube Che Corre, dal nome che si era dato uno dei proprietari più bizzarri di questa povera società. Parlava delle sfighe del Genoa e lo curavamo in un gruppetto di amici. Poi ha chiuso Splinder, la piattaforma che ci ospitava, e l’abbiamo abbandonato, ma c’era anche il grosso problema di dover parlare di una squadra che allora stava vincendo tutto il vincibile, dov’erano le sfighe? Dov’era lo spirito di quel blog?
Mi domando se qualcuno abbia tenuto il backup da qualche parte, sarebbe un buon momento per riprenderlo in mano.

Tanto l’anno prossimo saremo ancora qui a dirci le stesse cose (aspetteremo l’autunno che ci ritrovi aspetteremo l’autunno che ci ristori aspetteremo l’autunno), a sperare che si faccia avanti qualche fantomatico acquirente a rilevare la società e a portarla di nuovo ai livelli che le competono. Che vorrebbe dire trovare un multimiliardario masochista disposto a buttare via miliardi per accaparrarsi (e tenersi stretti) giocatori di livello solo per compiacere una banda di teppe pronte a minacciarlo se non gli compra la nuova sede del club, e un numero non molto più elevato di disperati pronti a erigergli una chiesa, farlo sindaco, regalargli le figlie, in cambio del leggendario decimo scudetto.

E che ci vuole? Il Medio Oriente è pieno di miliardari narcisisti in cerca di notorietà, basta convincerne uno che comprare il Genoa è lo stesso di imbarcarsi in una guerra santa. Capace che se si appassiona ci ricostruisce pure lo stadio. Perché scusate la bestemmia, ma il Ferraris andrebbe rimesso a nuovo, dai. Mi sta anche bene lasciarlo lì, tanto io mica ci abito davanti, e Marassi pure senza lo stadio non è che sia questo gran posto. E poi anche lo stadio del Chelsea a Londra è in pieno centro, cazzo vuoi. Però rinnovato sì, dai. Ci metti due negozi sotto, qualche bar, lo fai diventare utile anche nei giorni in cui non ci si gioca dentro. Adesso è un grosso cadavere come la squadra che rappresenta.

Ochei, come tutte e due le squadre, ammetto l’esistenza di una seconda società sulla piazza genovese. Seconda società non certo messa meglio di noi, anche se i suoi tifosi si bullano di fasti ben più recenti dei nostri stiamo comunque parlando di tanto di quel tempo fa che se in quell’anno avessi fatto un figlio adesso potrei essere tranquillamente nonno.

Qualcuno ogni tanto butta là l’idea balzana di fondere le due società in una soltanto, più competitiva, più ricca, che unisca una volta per tutte le due tifoserie genovesi. Si sa che Genova è una città di talenti comici, quando qualcuno avanza questa ipotesi ridono fin dal marciapiede di fronte.
No, seriamente, gli dicono. E finisce lì.
Siamo destinati a galleggiare a stento, due barchette rattoppate, e qualcuno salterà su a ricordare che una porta cucito sul proprio stemma un marinaio, quindi dovrebbe essere più avvezza alla navigazione. Giusto, diamo a Cesare eccetera eccetera, delle due tifoserie una emana un forte odore di sentina, ma non parlavo di rivalità calcistiche qui, mi stavo domandando come uscire da questa bratta.

Tanto l’emiro innamorato di calcio non arriva, e molto probabilmente l’anno prossimo saremo ancora nelle mani del re delle figurine, che a forza di celo manca ci porterà un’altra volta ad affacciarci sul campionato minore, sperando in un altro miracolo. Come te ne tiri fuori?
Negli ultimi anni avevo risolto abilmente smettendo di seguire il calcio e leggendo un sacco di libri in più, fumetti in più, videogiochi e fidanzate in più, ma i videogiochi dopo un po’ sono tutti uguali, e le fidanzate mi facevano vivere l’ansia di giocarmi la salvezza all’ultima di campionato praticamente ogni due mesi. E ogni volta retrocedevo, peraltro.

Adesso che almeno quell’aspetto l’ho risolto per il meglio ho un po’ più di tempo libero da dedicare alle cose che mi piacciono, e il Genoa è tornato a mostrarsi, dapprima timidamente, poi con questi ritmi intensi post lockdown in maniera più decisa, e mi ha in qualche modo ritirato dentro.
Non conosco quasi nessuno dei giocatori, mi sono imposto di non leggere niente, non ricordare niente, mi guardo le partite quando capita e poi penso ad altro.

Solo che è l’una e sono qui a scrivere, quindi qualcosa nel mio piano di autodifesa dev’essere andato storto.
Ce l’abbiamo ancora il backup di Nube Che Corre?
(grazie a Hardla per l’immagine là in cima)

Non dovreste chiedere a nessun rappresentante di questo governo cosa intendono fare per far ripartire il Paese, perché non lo sanno, ed è normale, considerato che sono ormai decenni che scegliamo i nostri rappresentanti nella cesta delle offerte della Lidl, non potendoci permettere di meglio.

Lo ripeto perché è importante, “i nostri rappresentanti”, qualcuno cioè che fa le nostre veci, qualcuno a cui non è richiesto di essere meglio o peggio di noi, ma di “essere noi”. Non potendo garantire una selezione molto definita ci si affida a una media, fra tutta la popolazione, espressa tramite voto. Alla fine eleggiamo qualcuno di cui ci fidiamo perché ci sembra come noi, non migliore, e chi ti aspetti di trovare? La matematica te lo spiega benissimo come si fa una media, si sommano tutti i valori e si divide per il numero di valori considerati; significa che se vuoi ottenere Piero Angela devi sommare dieci Newton, quattro Einstein, un Gasparri e poi dividere per quindici.
Se sommi dieci Gasparri, venti La Russa e una manciata di suore non puoi che ottenere una figura vestita di nero con una spiccata tendenza ad alzare la voce e a dire cazzate. Però pregna di valori cristiani, eh.

Per questo non credo che dovreste chiedere ad alcun rappresentante di questo governo quali sono i passaggi da seguire per una ripartenza efficace.

Dovreste chiederlo a me. Che vi risponderei con un elenco di azioni divise per punti, spiegate in modo semplice, seppure sgrammaticato, ma cercherò di prestare attenzione ai congiuntivi.

Prima di tutto non esiste che la Fase 2, quella che dovrebbe rappresentare il passaggio intermedio fra una chiusura totale del Paese al ritorno a una vita normale, cominci il 4 maggio senza neanche un riferimento allo Star Wars Day, che si celebra nello stesso giorno. Per cui ritengo un obbligo che ogni provvedimento in direzione di una riapertura passi attraverso armature di plastica bianca e spade laser.

Quindi

  1. Affanculo mascherine e guanti di plastica, che tanto s’è capito che non li sapete indossare. A cosa serve mettersi una mascherina sulla fronte, sotto il mento, sulla bocca ma senza coprire il naso, o su tutta la faccia ma sempre mettendoci le mani dentro perché prude? E in ogni caso a cosa serve mettersi una mascherina se è provato e riprovato che non ti ripara a sufficienza se ti trovi troppo vicino a un infetto? E che nel caso l’infetto sia tu non garantisce comunque una protezione sufficiente a chi ti sta intorno?
    La soluzione per la Fase 2 è uscire di casa e andare dove cazzo si vuole, ma sempre indossando l’armatura bianca da stormtrooper completa di fucile di plastica, così potete anche rotolarvi nell’erba insieme a un lebbroso e non avrete mai niente da temere. Il fucile inoltre vi permette di inscenare divertentissime sparatorie mentre siete in coda davanti al supermercato.
  2. Sarà permesso andare a trovare i congiunti, dove per congiunti si intende persone disposte a guardare con noi l’intera maratona di Guerre Stellari. Dalla lista non sono ammessi quelli che hanno apprezzato l’ultima trilogia (Episodi VII, VIII e IX), perché se finisce a mani in faccia potrebbero generarsi nuovi focolai di influenza.
    Sia chiaro a tutti che il film su Han Solo non è mai stato prodotto e non sappiamo di cosa state parlando.
  3. Sarà permesso uscire dal proprio comune e addirittura dalla propria regione, a patto che gli spostamenti vengano effettuati tramite balzi nell’iperspazio.
  4. Diventa obbligatorio iscriversi a una scuola jedi, frequentare corsi anche online nell’utilizzo della spada laser, ma soprattutto è imperativo che ogni cittadino impari l’arte jedi di dissolversi quando muore, perché gli obitori sono pieni e non sappiamo più dove mettere le salme.
    Senza un cadavere da seppellire, peraltro, diventa superfluo anche organizzare i funerali, e la finiamo con le polemiche sulle 15 persone che si possono invitare.
  5. I bar potranno riaprire, ma non sarà consentito l’accesso ai droidi, né l’uso di folgoratori all’interno degli esercizi.
  6. Slitta ai primi di giugno la riapertura della rotta di Kessel: occorre risolvere una questione tecnica e stabilire una volta per tutte se i parsec sono una misura di tempo o di spazio.

Con questi semplici provvedimenti il Paese sarà in grado di ripartire col piede giusto, e in breve si potrà lanciare la Fase 3, che prevede la caduta delle Camere e l’istituzione di un Impero, guidato dall’ex pontefice Benedetto XVI che nel frattempo ha imparato a lanciare i fulmini dalle mani e non solo tramite enciclica.

Così tanto tempo senza scrivere neanche due righe non l’avevo mai lasciato passare, ma non è una novità, una volta smetti per una settimana, quella dopo per un mese, e prima che ti accorgi di non avere più nessuna ragione per sederti davanti a una tastiera è passato più di un anno dall’ultima volta che hai pubblicato due righe anche solo per dire che stai bene. Quindi la prossima volta passeranno probabilmente due anni, oppure non scriverò più e facciamo prima, che tanto oramai scrivere solo per dire che non sto scrivendo è una cosa che non serve a niente, e oltretutto credo di averlo già fatto un post o due fa.
È che di solito non scrivo perché ho qualcosa da dire, scrivo perché ho qualcosa da dire a qualcuno in particolare, e finché quel qualcuno non ti parla ma legge il tuo blog è facile essere prolifici, basta raccontare i cazzi tuoi e cambiare due nomi, mescolare le date, è un attimo che viene fuori il racconto divertente ma anche profondo e che bravo questo tizio lo raccomando alle mie amiche single che nelle disgrazie altrui ci sguazzano come pesci rossi. Ma quando quel qualcuno a cui vuoi raccontare le cose fra le righe non solo non legge il tuo blog ma neanche parla la tua lingua cosa fai? Non scrivi, facile. Non scrivi e quello che hai da dire glielo dici in faccia, di solito con la testa sul cuscino e la finestra aperta e la luce spenta e i gatti che vi dormono sui piedi.
Se sembra un bel quadretto familiare dove è tutto perfetto è perché lo è davvero, o perlomeno ci si avvicina molto, e quando non hai niente che ti prende a pugni da dentro non hai voglia di dire nient’altro a nessun altro, salvo magari invitare Andrea a un aperitivo quelle rare volte in cui ti girano due soldi in più.
Poi non è neanche del tutto vero, ho un paio di cose su cui ogni tanto mi metto lì e provo a lavorare, una è una riedizione migliorata dei miei diari di viaggio, ho pensato che magari a qualcuno potrebbe interessare pubblicarli, magari no, ma a me fa comunque piacere rimetterci le mani e aggiungere qualche dettaglio qua e là, o raccontare un aneddoto che quando l’ho pubblicato sul blog è rimasto fuori.
Lo dico così, un po’ per caso, che se un domani riuscissi a farci un libro ve lo andate a comprare come l’edizione di Avengers Endgame completa di extra.

E c’è sempre quella storia su cui stavo lavorando il post scorso, una vita fa, che allora ci aggiungevo materiale ogni giorno e contavo di finirla entro massimo quindici giorni, poi mi sono arenato, e dopo qualche mese che non la guardavo più ho provato a creare uno sfondo in cui ambientarla, ed è venuto fuori un disegno di fantapolitica che è un attimo che ti scappa di mano se non sei davvero ferrato sull’argomento, e difatti mi è scappata di mano e adesso sto cercando il modo di farla tornare nei ranghi mandando tutto in vacca, che quando mandi in vacca una storia non serve più che sia coerente, anzi, più sputtani meglio funziona. Però ancora ci provo, perché mi piace la direzione che ha preso, ma se la rileggo mi fa cagare, come tutte le cose che esulano appena un po’ dal mio solito modo di scrivere. Non mi ci riconosco, mi spaventa, ridatemi la mia comfort zone, e cerco di cancellare tutte le sbavature e trasformarla nell’ennesima storiella inutile.

Oppure è proprio che non ho più voglia di scrivere, è un processo lento, e una volta che ti abitui a twitter perfino facebook diventa troppo macchinoso, e allora che fai, ti cancelli, così ti togli pure di torno quella massa di vermi che si nutrono di spazzatura e te la sputazzano addosso quando ti vengono vicino.

Non è che quando parlo di vermi abbia in mente qualcuno in particolare, diciamo che mi riferisco in generale a quella grossa fetta di idioti che usano il cellulare solo per condividere video imbecilli e notizie che hanno trovato sui social, che poi è la loro unica fonte di informazione. Un po’ mi vergogno di loro, perché hanno in mano lo strumento più potente dall’invenzione della ruota e non sono in grado di distinguere una notizia vera da un proclama politico scritto in un italiano discutibile, ma più che altro mi fanno schifo, loro e i loro burattinai.

Se sembra che stia parlando di politica è perché lo sto facendo davvero, ed è un’altra delle ragioni per cui alla fine preferisco chiudermi in casa e non comunicare con nessuno, specialmente attraverso questi canali digitali. Sono seriamente preoccupato: quando c’era Berlusconi mi aspettavo che il vero danno lo avrebbe fatto il suo successore, perché vent’anni di campagna elettorale a base di culi e personaggi privi di credibilità politica ci hanno tolto gli anticorpi necessari a riconoscere le bestie. Ora siamo arrivati al dopo, sono arrivate le bestie, e davvero non ho idea di come sia possibile tornare indietro, e neanche credo che lo sia, possibile.
Non so se gli allarmi sul cambiamento climatico, le previsioni catastrofiche che ci vedono a un passo dall’estinzione, si realizzeranno davvero, ma in tutto il mondo stanno alzando la testa delle forze che non hanno niente a che fare con la democrazia, ma neanche con l’umanità e la ragione; gente che non pretendo si rifaccia a Voltaire, ma Raimondo Vianello sarebbe già un miglioramento; e io se devo immaginarmi l’umanità seduta su un pullman senza freni che corre verso un burrone preferisco che alla guida ci sia Trump, piuttosto che Obama. Ha più senso, è più coerente.

Ho detto Trump perché parlare dei protagonisti del caos nostrano mi dà la nausea al punto da non voler neanche scrivere il loro nome. E anche questa è solo l’anticamera di un casino ancora peggiore che deve ancora arrivare. E arriverà, tranquilli, mettetevi comodi e non vi curate di preparare il sacchetto di carta davanti alla faccia, quando scenderemo al prossimo livello dovrete imbracciare il fucile.

Ecco, di fronte a questo pensiero mi passa anche la voglia di scrivere queste poche righe, figurati un racconto vero.

È questo lo stato d’animo in cui passo le mie giornate, almeno finché non viene l’ora di tornare a casa e nascondermi fra le braccia della mia fidanzata extraterrestre, l’unico posto al mondo in cui mi sento al sicuro.

Non aspettatemi alzati, potrei tardare.

Ultimamente non scrivo molto, che è un modo un po’ vile per nascondere che non scrivo proprio niente neanche se mi metti una penna in mano e una pistola in faccia, ma non mi sembra di avere un’opinione che valga la pena condividere in una società in cui tutti dicono sempre la cosa giusta e tu invece sei un coglione, e quanto a inventare storie mi sembra che vivere in una distopia renda vano qualunque sforzo di creare qualsiasi cosa più interessante della cronaca.

Però leggo molto, e una delle cose migliori che ho letto oggi è questo post.
Lo ha scritto Alessandro, un mio amico di cui spesso diffondo il materiale, perché ha uno stile che mi piace, è intelligente e cerca sempre di aggiungere qualcosa alla discussione. Stavolta lo condivido perché si fa una domanda che mi sembra fondamentale:

“Come fermiamo la corsa verso l’imbarbarimento? Come affrontiamo una classe politica che, dal PD (…) alla Lega, non ha avuto remore di agitare i peggiori spauracchi razzisti e xenofobi?
Come si comunica, anche nel nostro piccolo di blogger o di gente con un profilo FB, la nostra avversione a questa gente senza sembrare dei girotondini fuori tempo massimo?
E, soprattutto: è davvero necessario farlo?”

È evidente che il dibattito sull’attuale situazione politica si è polarizzato come e più di quando al governo avevamo il Circo Di Silvio con tutto il suo codazzo di nani e ballerine; il gioco è passato dal “Seguitemi e vi farò ricchi come me” al “Siete in grave pericolo e solo io posso salvarvi”, riaccendendo una brace di odio e ignoranza che evidentemente era rimasta inattiva per decenni, aspettando solo la giusta corrente d’aria per innescare un altro incendio.

Il Ministro Di Tuttoquanto neanche ci prova a indossare i panni che gli sono stati assegnati e diventare un rappresentante del Paese e delle sue istituzioni, continua a rappresentare solo sé stesso e i propri interessi il suo elettorato, servendosi della carica governativa come amplificatore di notizie perlopiù false o ampiamente esagerate, al solo scopo di spaventare il suo pubblico e guadagnare consenso.

C’è una tale differenza fra gli spauracchi alimentati dall’Indossatore Di Felpe e la dimensione reale dei medesimi che diventa normale porsi la domanda di Alessandro: come se ne esce?
Perché è evidente che smontare le balle è utile come l’omeopatia, mostrare all’infinito le statistiche fornite dallo stesso Ministero dell’Interno dove c’è scritto grosso così che non esiste nessuna emergenza immigrati, spiegare per l’ennesima volta che no, i vaccini non provocano l’autismo, no, non esiste un piano di Soros per sostituire gli italiani con gli africani, e no, il bambino annegato che hai visto in fotografia non è un fotomontaggio, ti espone solo a commenti che prima di oggi avresti potuto trovare solo al Monty Python’s Flying Circus per quanto sono assurdi. Eppure la situazione è questa, ci sono due schieramenti che si affrontano con gli stessi toni pre-derby di quelle città dove l’agonismo è cattivo, una parte grida stupidi, l’altra rosiconi. Schierarsi non serve, astenersi è impossibile.

Annamaria Testa, su Internazionale, parla della piramide di Maslow, di come ingabbiare le persone nelle proprie paure risponda a una strategia precisa e di come offendere o perculare queste persone non faccia che rinforzare la loro gabbia.

Che poi parlo della “loro gabbia” come se io fossi libero, ma mi sono solo chiuso nella gabbia che sta di fronte, fatta di altrettanti pregiudizi e rigidità.
E allora chi sono io per intervenire? È giusto cercare di fermarli? È necessario?

Questo modo di fare politica, e soprattutto il consenso ottenuto abbassando l’asticella della civiltà invece di elevare le persone, è nocivo. Muoiono delle persone a causa di questa politica, quindi sì, è ovvio che sia necessario intervenire.

La risposta politica non ce l’ho, e non ce l’ha neanche la politica, visto che ad oggi l’unica voce vagamente di sinistra in Italia è rimasto il Papa, quando non prende lo xanax. Da un punto di vista umanitario ho una mia opinione, che va nella direzione opposta di quella perseguita fin qui, legata in parte a statistiche, e molto di più al fatto che ignorare chi viene trattato come una bestia ti rende una bestia anche peggiore.

Solo che ti ridono in faccia, le bestie vere, ti dicono cose che dieci anni fa si sarebbero vergognate di sussurrare in privato, e io non so cosa rispondere, perché la violenza non è mai una risposta, neanche quando è Karl Popper a suggerirtela.

Vabbè, lui non ha mai detto di picchiare i nazisti, ma se lo immagino seduto al bar a mangiare un gelato pistacchio e stracciatella mentre al tavolino accanto due idioti  persone intolleranti  idioti commentano con soddisfazione il naufragio di un barcone in mezzo al Mediterraneo non ce lo vedo a controbattere civilmente che certe forme di intolleranza non possono essere accettate in una società civile, secondo me si alza e il gelato lo spalma in faccia a uno dei due, e l’altro lo mena con la sedia. Perlomeno è quello che vorrei fare io.

Perché anch’io ormai sono diventato una vittima di questa semplificazione binaria: se qualcuno in buona fede mi dice che “bisognerebbe fermarli prima che partano, così non muoiono” non penso che questa persona sta esprimendo un parere magari anche condivisibile, penso di avere di fronte uno che nel migliore dei casi va dall’omeopata e nel peggiore offende i mendicanti fuori dal supermercato.
È sbagliato, sono così abituato a vedere la malafede dappertutto da avere smesso di concedere il beneficio del dubbio. Credo che ci sia una categoria di mezzo fra i due poli, fatta da quelle persone che di fronte alla povertà si sentono a disagio, e allora votano per tenerla lontana. Sono quelli che al semaforo abbassano gli occhi a cercare una stazione decente nell’autoradio per non dover dire no al mendicante. Non è che il mendicante gli stia sul cazzo o che si facciano chissà quale calcolo, è che questo tipo di transazione basata sulla pietà li fa sentire in colpa, e a nessuno piace sentirsi in colpa.

È ancora egoismo e ipocrisia, ma meno consapevole. Poi è chiaro che non è il soldo al tizio del semaforo a giudicare una persona, sono sicuro che il Ministro delle Felpe in persona ogni tanto regala dei cinque euri per zittire i detrattori, e sono sicuro che in questa idiocrazia risulta anche convincente.

Sto uscendo dal seminato, e sto continuando a dividere il mondo in buoni e cattivi, mettendomi sempre dalla parte dei primi, quindi torniamo al volo alla domanda di partenza.

Il debunking non funziona, siamo troppo schierati per ascoltare le ragioni della parte avversa; la lotta armata non ha funzionato negli anni passati, non vedo come potrebbe farlo ora; esularsi dall’agone politico è quello che ha fatto la Sinistra un’elezione alla volta, e guarda dove siamo finiti; percularli è divertente, ma fin troppo facile, oltre a non ascoltare le tue ragioni si prendono troppo sul serio per rispondere con altrettanta ironia. E d’altronde quando mai si è visto un comico di destra? Intenzionalmente comico, intendo.

Forse l’unica via è lavorare sull’immagine che gli italiani hanno dell’immigrato, smontarla, mostrare chi sono queste persone, da dove arrivano, come vivono, ma senza relegarli nella rubrica da tg3 “guarda cosa ti combina il negretto”, che però essendo il tg3 avrà un nome più colto tipo “l’Italia di domani”. Integrazione reale invece di serragli, convivenza alla pari invece di carità, partecipazione attiva invece di ospitate in costume tipico. Non chiedetemi esempi, perché vivo in un piccolo paese, e tutti gli esempi che mi vengono in mente riguardano la realtà locale, il negozio di alimentari che tiene prodotti halal e la festa di quartiere organizzata con tutte le persone che in quel quartiere ci vivono. E comunque nel mio piccolo paese vivono un sacco di immigrati e nessuno si lamenta, lavorano, fanno la spesa e aprono negozi come chiunque del posto. Però i profughi che stavano in croce rossa li hanno mandati via perché creavano problemi. Eh, loro erano negri.

C’è un’altra soluzione, la più difficile, ma in questo momento l’unica che mi sento di suggerire a chiunque, me compreso: andarsene. Lasciare l’Italia in mano ai fenomeni del cambiamento e delle idee rivoluzionarie, ai teorici della sicurezza, a quelli che fuori dall’euro si vive meglio, senza gli stranieri si sta più sicuri, chiudendo i kebabbari attiriamo più turisti. Lasciargliela per una decina d’anni e poi tornare a vedere quanti ne sono rimasti vivi, dopo che avranno cominciato a sbranarsi fra di loro.