Mi sono reso conto, con un certo fastidio, che questo blog si sta riempiendo di necrologi, e il fastidio è dovuto alla consapevolezza che la causa stia nel mio anno di nascita, che col tempo mi trovo a condividere con sempre meno persone.
Oggi purtroppo se n’è andato uno dei pilastri dei miei vent’anni, una donna un po’ più vecchia di me, che ha avuto una vita molto ma molto peggiore della mia, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario. Si chiamava Sinéad O’Connor, e non ho mai imparato a pronunciare correttamente il suo nome (è più o meno Scinèid).

Ora non voglio mettermi qui a raccontare le sue disgrazie, ci sono un sacco di informazioni disponibili in rete se uno ha voglia di andarsele a cercare, e se non ne ha voglia non vedo perché dovrei premiare la sua pigrizia riassumendogliele io.

Oltretutto fra le reazioni alla sua morte sui social ho letto diversi commenti di disprezzo per cose che o non erano vere o richiedevano un minimo di contesto, e l’ultima cosa che ho voglia di fare è mettermi a discutere con questi personaggi, che tanto sarebbe tempo perso. E comunque torniamo sempre a quella volta che strappò in diretta tv la foto del papa, un gesto potentissimo allora, ma che ancora oggi, fra i milioni di contenuti che ci affollano la giornata, riesce ancora a farci fermare per un momento il respiro. A certi fa ancora andare la lingua e le dita, non c’è niente da fare.

Se fermi l’immagine al fotogramma giusto puoi vedere il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei

Forse non è stata un’artista indimenticabile, è esplosa con una canzone che non era neanche la sua (e il cui autore è morto di morte prematura, come lei e come un altro ottimo interprete dello stesso brano, ma non sarò io a dire che la canzone porta sfiga), ha pubblicato qualche disco perlopiù ignorato dal pubblico, ha collaborato con un sacco di artisti più o meno famosi, coi quali ha tirato fuori delle perle. Ma era un’artista della madonna, e se non avesse sabotato la propria carriera con una caparbietà invidiabile, oggi saremmo molti di più a celebrare la sua scomparsa.

Se gli irlandesi sono stati considerati per secoli gli sfigati d’Europa, lei è stata di sicuro la sfigata d’Irlanda, ha incarnato per tutta la vita le disgrazie di cui è stato protagonista il suo popolo, dagli abusi dei preti all’esilio, al lutto. Per tutta la sua breve vita si è portata dietro un peso enorme, senza mai riuscire a conviverci. Ha cercato una quadra ovunque, nell’impegno sociale, nel cristianesimo, nel rastafari, alla fine si è perfino convertita all’islam, ma quel macigno non l’ha mai posato, e alla fine c’è rimasta sotto.
Poteva finire quarant’anni fa in un vicolo con una pera nel braccio, o nel suo letto imbottita di anfetamine durante una qualunque delle crisi che l’hanno perseguitata, e non ci sarebbe stato niente di inaspettato. Ha superato tutto, ha cercato sempre di trovare un modo, ma si vedeva che i mostri che aveva dentro se la stavano mangiando; poi l’anno scorso suo figlio si è ammazzato, e immagino che abbia semplicemente smesso di resistere.

A guardarla da lontano si potrebbe definire una fra i tanti artisti che fra gli ’80 e i ’90 hanno azzeccato un paio di canzoni per poi tornare nell’anonimato, ma è chiaro che non è così: la settimana prima che uscisse Nothing Compares 2U, a febbraio del 1990, la testa della classifica la occupavano i Technotronic, ma non so chi se li ricorda, oltre a me. Così come pochi si ricordano di Crystal Waters, e non credo che leggeremo mai da nessuna parte il necrologio di uno dei Kris Kross (di quello ancora vivo, peraltro. Lo sapevate? No, appunto).
Non era una qualunque, aveva una carriera spianata davanti: il secondo album, quello di Nothing Compares 2U, vendette 7 milioni di copie, e subito dopo partecipò al concerto di Berlino di Roger Waters per celebrare la caduta del muro. Era un fenomeno, e piaceva a tutti. Almeno finché non cominciò a dire quello che pensava, e quello che pensava non piaceva a tutti, perché era incazzata con l’America, era incazzata con la Chiesa Cattolica, e anche se aveva le sue ottime ragioni per essere incazzata il pubblico cominciò a fischiarla.

Trovatevi qualcuno che vi guardi come Sinéad O’Connor guardò il pubblico del Madison Square Garden alla fine della sua canzone.

Di lì in poi il termine “spianata” riferito alla sua carriera assunse tutto un altro significato.
Però noi c’eravamo. Noi che ci eravamo innamorati della sua testa rasata e della sua voce incazzata e delle lacrime e di quegli occhi che guardavano il mondo come se fosse stato un gatto che aveva di nuovo cagato fuori dalla cassetta.
Per noi Sinéad O’Connor ha rappresentato una grossa fetta della nostra vita. Non ci siamo limitati a cantare le sue canzoni, abbiamo modellato il nostro immaginario femminile su di lei, e da allora abbiamo subìto una bizzarra attrazione verso le ragazze coi capelli cortissimi, gli occhi grandi e il naso a punta e parliamo di noi stessi al plurale per imbarazzarci di meno. Abbiamo continuato a seguirla attraverso i suoi dischi mediocri, le sue dichiarazioni che col tempo si sono fatte meno incazzate e più tristi, e i suoi cambi di pelle per cercare di sopravvivere, che abbiamo interpretato come stranezze di una persona allo sbando.

Era l’otto luglio del 2010 quando sono riuscito a vederla dal vivo, al Porto Antico di Genova.
Aveva i capelli lunghi, non era più la ragazza su cui avevo costruito il mio immaginario femminile, adesso sembrava più sua madre, ma neanch’io ero più quel ragazzino là.
Portava un vestito a fiori e una chitarra, ma gli occhi erano sempre quelli, sempre splendenti di una rabbia che non aveva ancora smesso di bruciarle dentro. Aveva detto anche allora qualcosa contro la Chiesa, un riferimento al vescovo che abitava poco distante, o qualcosa del genere, non ricordo.

Stamattina in rete si trovano commenti di ogni genere, alcuni molto belli e toccanti. Vabbè, ci sono anche quelli negativi, ma appartengono tutti agli stessi profili che negano il riscaldamento globale, l’utilità dei vaccini e il nazismo di Putin.
Tolti i terrapiattisti, l’opinione comune è che se ne sia andata una persona stupenda, che avrebbe dovuto essere ascoltata di più. Fra tutti, ne vorrei riportare due, che mi hanno colpito per ragioni diverse. Mi scuso in anticipo per la traduzione povera e i tagli, non posso riportare il link perché Elon Musk è fondamentalmente un idiota.

L’Irlanda negli anni ’80 era un luogo buio che si stava spostando verso la luce. Erano i nostri artisti e, più di tutti, i nostri musicisti, che indicavano la strada da seguire.
Piccola di statura, i capelli rasati, Sinéad O’Connor cominciò a prendere a calci le ultime vestigia di rispettabilità del nostro passato cattolico. Il fatto che la sua testa fosse rasata non era dovuto al caso; dato il modo in cui i corpi e le azioni delle donne erano controllati, lei era il simbolo supremo di chi eravamo, e di chi volevamo essere.
E poi si mise a cantare.
“Mandinka” cambiò molte cose, perché era arrabbiata e cruda ed energica e rassicurante, tutto insieme. Poi arrivò “Troy”, e all’improvviso questo folletto incazzato con gli anfibi (non nel senso che era in lite con le sue scarpe, n.d.t.) stava cambiando le classifiche e il modo in cui vedevamo noi stessi.
Lavorai in un hotel dove alloggiava durante quell’iniziale esplosione di popolarità che non si addiceva alla sua figura – piccola, vulnerabile, circondata da persone che volevano qualcosa, ma lei se ne lasciò travolgere. Suonò all’Olympic Ballroom, e sia noi che lei fummo storditi dalla sua esibizione. Ad un certo punto non aveva più canzoni da cantare, e dovette ripeterne qualcuna. Non importò a nessuno.
Poi arrivò il successo vero, e tutte le belle cose finirono.
Ci sono persone migliori di me – fra cui Sinéad stessa, nella sua autobiografia – che possono raccontarvi la storia del suo dolore e di tutto ciò che le è successo, e di tutte le persone che l’hanno abbandonata così brutalmente.
Immaginate di essere gravati da qualcosa della grandezza e della magnificenza di quella voce, e di non esserne felici; per lei questa cosa era talvolta un macigno.
Non cambiò niente nella sua musica; quel dolore era sempre lì, ed è così triste che qualcuno che ci ha dato così tanto non abbia potuto godere di quella generosità che ci ha sempre mostrato.
(…) Siamo stati fortunati ad averla avuta, e dovremmo chiederci cos’altro avremmo dovuto fare per tenerla con noi; la sua sofferenza avrebbe dovuto essere qualcosa che andava condiviso fra tutti noi, perché glielo dovevamo, alla fine.
Riposa in pace, Sinéad.
Nothing – nothing – compares.

Philip O’Connor (giornalista irlandese)

L’anno scorso ero in Irlanda per lavoro. Stavo bevendo una pinta fuori da un pub di Dalkey con alcuni nuovi amici, quando una donna ci passò accanto con passo determinato. Piumino chiuso fino alla nuca e la testa china coperta da una sciarpa. Uno dei miei nuovi amici borbottò un’esclamazione, saltò in piedi e la inseguì. Trenta metri più avanti il mio amico e la donna si abbracciarono, e lui mi fece cenno di raggiungerli. Fu là, sotto la luce dei lampioni, col freddo che ci condensava il respiro, che incontrai Sinéad. Mi guardò negli occhi, e con una dolcezza disarmante, disse “oh, sei tu, Russell”.
Tornò al tavolo con noi e ordinò un tè caldo. In una conversazione senza barriere passammo dalla recente ondata di calore su Dublino alla politica locale, da quella americana alle proteste per i diritti delle popolazioni locali che stavano avendo luogo in diversi paesi, ma specialmente in Australia. Ci parlò dei suoi caldi ricordi della Nuova Zelanda, di fede, di musica, film e di suo fratello, lo scrittore. Ebbi l’opportunità di dirle che per me lei era un’eroina.
Quando la sua seconda tazza si stava raffreddando all’aria della notte si alzò, ci abbracciò tutti e si allontanò a grandi passi verso i lampioni offuscati dalla nebbia.
Noi quattro ci siamo seduti e, con parole diverse, abbiamo espresso lo stesso pensiero. Che donna straordinaria.
Che il tuo cuore coraggioso riposi in pace, Sinéad.

Russell Crowe (gladiatore)

Immagino la tua faccia e anche la mia assume un’espressione diversa, come quando mi guardavi e mi chiedevi di baciarti, o quella che avevo la sera in cui ti sedevo davanti e la parete grigia ti rendeva parte di un quadro che non avrei mai smesso di contemplare, come si fa con gli stereogrammi, che dopo un po’ viene fuori l’immagine in tre dimensioni oppure un gran mal di testa.

Mi si conficcano negli occhi questi momenti, quando facevamo qualcosa insieme e avevamo ancora i vestiti addosso. Sarà perché erano così rari che me li ricordo tutti; il sesso unisce, ma era altrove che costruivamo il nostro rapporto. Tu dall’analista, io al bar.
Poi ci vedevamo, ti nascondevo i vestiti e ti rivestivo delle mie mani.

Era splendido, finché durava, poi dicevo qualcosa di sbagliato e ti offendevi. Sei sempre stata una donna permalosa, non ci voleva molto a farti perdere la calma. Una volta è bastato dire sì. Va bene, la domanda era “ami un’altra?”, ma se avessi risposto no sarebbe stato lo stesso, quando ti prendevano quei momenti bastava la mia presenza a creare una discussione.

Eri un’esperta di litigio retroattivo, tiravi fuori cose che avevo detto al nostro primo appuntamento, mi sbattevi in faccia frasi pronunciate quand’era ancora vivo Cheope.

Che adesso ci rido, ma è la sindrome del sopravvissuto che guarda indietro e niente gli sembra più così orribile, solo perché è riuscito a superarla.
Se ne vedono di continuo agli incontri per la terapia di gruppo, dove c’è quello che si alza e fa “Ciao a tutti, mi chiamo Peppo, e sono già tre mesi che non rimango coinvolto in un incidente aereo” e tutti ciao Peppo, bravo Peppo. Se lo fai parlare capisci che è ancora traumatizzato, ti dice “Avessi visto che figata, si è aperto uno squarcio nella carlinga e la gente veniva strappata via dai sedili e sputata fuori come i semini dell’anguria. Da morire proprio!”, poi si mette a fissare il vuoto e il sorriso si cristallizza in una smorfia.

Anch’io ogni tanto fisso il vuoto e mi perdo a sfogliare l’album delle figu che mi sono appiccicato addosso, una per ogni taglio che mi hai aperto nella schiena. Lo so, i cerotti funzionano meglio, ma mi mancava solo lo scudetto della Pistoiese per finire l’album, ho dilapidato uno stipendio in quella dannata edicola, non immagini quante doppie ho ancora in giro per casa.

Non tante quanti i tuoi accendini, comunque. E i filtri, quelli li ritrovo ancora nel letto, ma non è colpa tua, sono io che non ho più cambiato le lenzuola: pensavo di aspettare ancora qualche anno e poi venderle come un Pollock inedito.

Ma anche quando fisso il vuoto, senza la dolcezza che cresce col ricordo, né la tenerezza di chi riconosce anche le tragedie passate come una parte preziosa della vita, né l’indulgenza che si riserva ai propri errori, anche quando riesco a dimenticare i momenti in cui ti avrei investita col trattore per come mi facevi le pulci a ogni singola parola che pronunciavo compresi i rutti e i fonemi ad essi correlati, tipo aiuola e uaioming, anche in quei momenti di sospensione del giudizio e dell’incredulità riconosco che l’uomo è una creatura imperfetta e va amato per i suoi difetti, che sono ciò che lo rende unico.
E la donna va amata di più, perché oltre a quello ha pure le tette.

Erano aspetti della tua persona, la linea costiera del tuo carattere, fatto di spiagge su cui fioriscono i gigli e di sassi taglienti e ricci velenosi nascosti sotto la sabbia. Ci vuole coraggio a frequentare quei tratti di costa, e io quel coraggio non ce l’ho avuto. Dici che basterebbe un paio di anfibi, ma al mare con gli anfibi, d’estate, scusa, no.

Ti mettevi la mano davanti alla bocca, e spalancavi gli occhi, e dicevi voglio solo morire, e ggirato con due gì, e quando ti baciavo sapevi di menta e malinconia, e il tuo sorriso era come il fiore di una pianta che sboccia quando decide lui e mai quando c’è qualcuno che lo può fotografare, si vede che è come quei capi indiani convinti che gli freghi l’anima, o i punk londinesi che sticazzi dell’anima io voglio i soldi.

Ti ho trovata in un giorno di pioggia, ti ho persa al primo sole, non sono mai stato bravo con gli stereotipi.
E neanche con le lettere, la prima che ti ho scritto è la stessa con cui ti saluto. Non aggiunge, non spiega, ti lascia com’eri. Sarà che il tempo delle spiegazioni è passato, che non piove più da mesi e si è inaridita la gola, che mi hai lasciato senza parole.

Ciao Dolores,

questa non è la lettera che volevo spedirti. Ne ho scritta un’altra, lunghissima, in cui ti spiegavo il mio punto di vista nel solito modo puntiglioso che conosci. Sono un ragioniere, me lo dici sempre.
Ho trascritto fedelmente ogni pensiero, ogni dubbio che potevo avere riguardo noi due. Ho cercato di rispondere alle tue critiche in modo convincente, e ti ho rivolto domande precise su quello che di te non sono stato capace di comprendere. E quando ho finito di scrivere mi sono chiesto “e ora?”.

Se te l’avessi spedita non avrei fatto altro che prolungare quest’agonia in cui ci dibattiamo da.. quanto? Ho perso il conto, mi sembra che stiamo discutendo da sempre, con te da una parte a farmi l’elenco dei difetti e io dall’altra a difendermi e rimarcare i tuoi.
Forse mi avresti risposto, ma le mie domande sarebbero state comunque inevase, le spiegazioni che ti avrei fornito ancora insufficienti.

La verità è che io e te non siamo capaci di stare insieme. Tutte le parole che ci mettiamo davanti servono solo a nascondere la paura di ammetterlo. Ci desideriamo, ma il desiderio appartiene a chi lo prova, non lo si può condividere, e l’amore dovrebbe essere condivisione.
Io e te vogliamo qualcosa, lo vogliamo fortissimo, ma non siamo pronti a dare niente in cambio.
È per questo che litighiamo, perché nessuno dei due è disposto a cedere. Perché siamo due egoisti, ci siamo derubati a vicenda finché ce n’era e adesso che non è rimasto niente battiamo i piedi e gridiamo.

Non so se immagini quanto mi costi ammettere questa cosa. Perché sono orgoglioso e anche stavolta vorrei l’ultima parola, e dimostrarti che ho ragione io.
E perché, maledizione, rinunciare a quello che sei capace di darmi è difficilissimo. A quello che abbiamo buttato avanti per poterlo raggiungere insieme, alla meraviglia del tempo che abbiamo condiviso, a tutto quello che avevo disegnato in testa e aspettavo paziente, e che adesso non tornerà più.
Ma sto cercando di diventare adulto, e pare che ammettere i propri errori sia parte del processo.

Ti saluto qui, con queste due righe, che non sono neanche un centesimo di quelle che ci siamo scambiati quando parlavamo solo di cose belle.
Vorrei che le mie ultime parole per te fossero più dolci, e ti lasciassero un ricordo con cui scaldarti di quando in quando. Ma non riesco a trovare niente di meglio, sto salutando la donna che ho nel cuore. Non so neanche se esistono parole adatte.
Ti porterò sempre con me, come un oggetto raro, e ti rimpiangerò ogni volta.

Ti voglio bene,

Dino

La faccio breve. Ho deciso di lasciare questo spazio.

Mi sono successe delle cose che mi hanno obbligato a mettermi in discussione, e tirando giù dagli scaffali degli aspetti di me che non toccavo da un po’ ne ho approfittato per buttare via quello che non serve, e rimettere a nuovo quello che voglio tenere. Così ho cambiato le corde alla chitarra, ho cancellato il profilo di facebook e mi sono comprato uno spazio dove aprire il mio blog.

Ci vediamo di là.

www.pablog.it

Il suo nome non era Ettore Majorana, ma lo diventò quando scomparve.
Oddio, scomparve. Non è che si smaterializzò in un fascio di luce extraterrestre, immagino che abbia continuato a guardarsi nello specchio del bagno come faceva prima; la sparizione è un concetto transitivo che colpisce tutte le persone tranne quella che ne è vittima.

Per me la scomparsa di Majorana avvenne il 2 febbraio, martedì grasso.

Volevamo andare a un ballo mascherato, ma non eravamo riusciti a metterci d’accordo sull’abito, io volevo vestirmi da tassista romano che porta la sua cliente all’ospedale, lei da Napoleone a cavallo che valica il San Bernardo, e pretendeva che io andassi in giro con una fiaschetta di liquore appesa al collo e lei arrampicata addosso. Non ci sarebbe stato niente di male, l’idea di averla appiccicata alla schiena mi faceva sorridere in quel modo scemo che tutti vorremmo durasse per sempre, ma secondo te vado in giro con una fiaschetta piena di alcool e non me la ingoio intera? Era irrealizzabile.

L’unica festa dove potevi entrare senza costume era quella dell’Opus Dei, dove l’unica regola era non divertirsi troppo, se ti beccano sono trenta padrenostri e passare il resto della serata con un limone in bocca.

“Mi faranno entrare vestita così?”

Indossava un maglioncino a collo alto, una gonna che non arrivava al ginocchio e un paio di stivaletti che si fermavano parecchio più in basso. Le sue gambe invitavano al peccato.

“No, ma mi darà un’ottima scusa per trascinarti a casa e far piangere Gesù”

Il suo hmm malizioso mi fiorì la testa di immagini che sono sicuro che ci siamo capiti.

Poi eravamo dentro. La fila per il bagno si incrociava con quella del bar, ma riuscivano a separarsi prima di rovinare la brocca della sangria. I tavolini erano coperti da pizzi a forma di croce, su ognuno era posata una copia del Vangelo e un bel rametto di gigli.

Sul palco in fondo alla sala quattro suore svisavano di brutto le hit di Fra Cionfoli, e proprio non riuscivi a stare seduto: la pista era piena di coppie che si stringevano voluttuosamente la mano, l’aria vibrava di elettricità e voglia di lasciarsi andare, sentivi che sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa.

Dopo due ore non era successo niente. Le hit di Fra Cionfoli avevano lasciato il posto alle consuete nenie, e per sfuggire all’ennesima riproposta di Camminerò mi trascinai al bar a prendere due succhi di frutta, che della sangria continuavo a non fidarmi, e tanto era analcolica pure lei. Nel mio bicchiere feci mettere del ghiaccio per sentirmi trasgressivo.

Quando tornai al tavolo Majorana non c’era più, era sparita la sua giacca e la sua borsetta. Non era sulla pista, non era nel bagno degli uomini. In quello delle donne non mi lasciarono entrare, ma non vedevo ragioni per cui avrebbe dovuto trovarsi lì: le donne e gli alpinisti fanno la pipì in cordata, e lei era entrata alla festa senza accompagnatrici, non raggiungeva il quorum.

Per rendere più enfatico il mio dolore per la scomparsa di Majorana racconterò al rallentatore la scena che seguì.

Salita leeenta di mani che arpionano una faccia.
Bocca che si apre sulla lettera o.
Cielo che si tinge di onde gialle e rosse.
Lettera di diffida dall’avvocato della famiglia Munch.
Messaggi di stima dalla curva della Roma.
“Nnnuoooooohh! Mmuaaaaaiuooooruaaaaaanaaaaaaa!”

Più tardi, a casa, Gesù lo feci piangere da solo.

Nei giorni che seguirono la chiamai al cellulare, le scrissi lettere, spedii messi a cavallo fino al suo villaggio ai confini dell’impero, poi bruciai le sue lettere per inviarle segnali di fumo, pugnalai le sue foto perché dalle ferite che avrebbero dovuto aprirsi sul suo petto potesse ricavare una specie di codice morse, banchettai coi suoi capelli che ancora trovavo sul cuscino, ma quello perché il raffreddore mi costringeva a dormire con la bocca spalancata.
Poi smisi di cercarla.

Ripensavo ai momenti trascorsi insieme e a quelli che li avevano preceduti, quando eravamo solo due che si divertivano a raccontarsi idiozie, e pensai che in fondo saremmo potuti tornare a quell’amicizia disinteressata, non è che due perché finiscono a letto non si devono parlare più. Solo che lei si disinteressava alla mia amicizia disinteressata: si recava a Napoli, saliva su traghetti alla volta di Palermo e scompariva. Chi dice di averla vista in Argentina cavalcare nella pampa, chi ha sentito il suo canto salire dal fondo del Tirreno ma non capiva che canzone fosse neanche usando Shazam, chi la vede tutti i giorni e la sa felice. Ogni tanto vedo la sua faccia spuntare nella rete, mi verrebbe da dire ciao come va, ma so la distanza dalle relazioni finite, va innaffiata tutti i giorni sennò appassisce ed è un attimo ritrovarsele davanti al portone con la mano tesa a chiederti indietro un libro o un po’ di sesso, e hai un bel dire che non sei così e vorresti solo. Cosa? Vorresti solo salutare, sapere come sta, cosa fa. Certo. Solo che volere solo è già volere, Io Voglio. Da una parte ci sei tu che vuoi e dall’altra qualcuno che ha deciso di non vederti più, cui non interessa neanche sapere come stai.

Lasciamo perdere, le cose prive di equilibrio sono destinate a cadere per terra. E poi non è un caso che Ettore Majorana abbia collaborato con Werner Heisenberg, il cui principio di indeterminazione ci ricorda grossomodo che, quando due grandezze fisiche non possono essere misurate entrambe nello stesso momento, sono dette incompatibili.
Resta una manciata di ricordi e una tendenza al magone, più per la freddezza del dopo che per la fine del durante. Restano delle perplessità che sono come tarli annidati nelle vecchie fotografie.

Non resta altro.

Quando pensavo alla possibilità di chiudere il blog mi domandavo come sarebbe stato l’ultimo post, di cosa avrebbe parlato. Ero certo che ci sarebbe stato tempo di fare un saluto, spiegare le ragioni che mi portavano a una decisione senz’altro sofferta, avrei detto che ci avevo pensato a lungo e che ero arrivato alla conclusione che non ci fosse altra possibilità, mi sarei scusato coi miei lettori per le lunghe assenze e avrei promesso loro che un giorno ci saremmo ritrovati da qualche parte, e poi avrei chiuso con una foto.

Pensavo che sarebbe stata una possibilità remota, e che in ogni caso avrei avuto tempo per un discorso più ragionato di queste due righe buttate giù in fretta.

Perché stasera sono tornato a casa e ho scoperto che il mio tempo è scaduto, e me ne devo andare alla svelta. Mi hanno trovato, non so come ma mi hanno trovato; non ero in casa, ma adesso sanno dove abito e torneranno, ne sono certo, e saranno più numerosi e meglio equipaggiati.

Non posso aspettare che accada, devo sparire. Spero che mi capirete, chiedo scusa a tutti.

Arrivederci,

Pablo

they're coming to get you Barbara!

they’re coming to get you Barbara!

L’ultimo giorno in casa arriva senza che te ne rendi conto. Un momento prima stai organizzando la partenza per le ferie, quello dopo ti rendi conto che non hai più nessun bisogno di tornare in quelle stanze, potrai venire a prendere le tue cose quando ti serviranno.

I gesti consueti si vestono di malinconia, anche quelli più odiosi, e l’ultima volta che pulisci la stufa è come un’unzione.

C’è ancora tempo per ritrovare l’abbraccio del tuo letto, ed è strano sentirti al sicuro in quel nido che ti conosce così bene, perché quando ti rialzerai un’ora più tardi, per sbrigare le ultime faccende, sarai tu lo sconosciuto ospite. Ti scappa un sospiro, le emozioni di cui sono intrise quelle lenzuola sono forse il ricordo più difficile da mettere via.

Scrolli le spalle e te ne vai senza voltarti, raccogli la valigia e te ne vai per la tua strada:
una volta che ti sei preso l’anima delle cose che hanno rappresentato la tua vita, ciò che ti lasci dietro è un cumulo di sabbia e oggetti senza alcun valore.

So cos’ha rappresentato per me ogni centimetro di quella casa, ogni pagina di ogni libro, ogni granello di polvere sul pavimento. Quelli non me li porterà via nessuno, mai più.

Peccato che non mi chiami Francesco, perché Francesco sbaracca sarebbe stato un titolo un casino evocativo, e almeno avrei avuto qualcosa da salvare, visto che il contenuto non sarà granché.

È che stavo qui a far venire l’ora di andare quando sento bussare alla porta e mi trovo davanti Mohamed col suo solito carico di borse e viaggi e confusione. Mi ha fatto piacere, era un anno che non lo vedevo e pensavo che non passasse più da queste parti. E invece eccotelo, si siede, spilucca un po’ d’uva, ma non ha voglia di discorsi, con me ne fa pochi, si vede che è più amico di Marzia che mio. Dopo due frasi di circostanza mi dice che non ha i soldi per l’affitto e che per favore di aiutarlo e comprargli qualcosa. Io vorrei anche dirgli che lo aiuto volentieri, ma che di comprargli roba ne ho per le balle, che ho pure un trasloco nell’immediato futuro, meno roba ho da buttare negli scatoloni meglio è, ma è una comunicazione a senso unico, le mie parole non riescono neanche ad avvicinarsi alle sue orecchie.

Non riuscendo a spiegargli che non c’è bisogno che tiri fuori niente da quei cazzo di borsoni mi rassegno a prendermi delle calze in lana di vetro, un paio di guanti così sintetici che sfrigolano anche senza toccarli e uno di quei berretti boomerang che appena li infili tornano indietro.
Quanto vuoi? Dammi cento euro. Ma te sei fuori! L’affitto! Te ne do cinquanta perché è un anno che non ti vedo e probabilmente non ti vedrò più. Ah no? Andate via? Solo io. Come? E moglia? Moglia resta qui, vado via solo io.

Lentamente il messaggio si fa strada nella sua mente nomade, e la sua espressione si fa più drammatica:
Vete litigatu? Nate più dacòr? No, non abbiamo litigato, si, andiamo d’accordo, ma me ne vado lo stesso.

Non mi ci vedo a spiegargli una situazione troppo complessa per quei quattro vocaboli che riusciamo a scambiarci, nè lui è il tipo da giri di parole, a quanto pare, perché si piglia su i soldi e se ne va senza tanti complimenti.

Ci rimango anche un po’ male e mi pento immediatamente di avergli lasciato un obolo così sostanzioso, ma è un attimo, mi fa piacere poter dare una mano a chi ne ha bisogno, e poi sono sicuro che non ci vedremo più.

A rifletterci sono tante le cose che immagino non farò più, perché legate a questa casa o alla persona che ci abita dentro. Un trasloco come quello che mi aspetta non sarà fatto solo di oggetti che cambiano di posto, ma di abitudini che si perdono per strada: uscirò di qui con un casino di roba, ma quella che entrerà nella casa nuova sarà pochissima.

È eccitante, a modo suo.