Sparare ai matti con la pistola perché sono pericolosi, e ai matti senza pistola perché la tengono nascosta sotto la giacca, e ai matti senza giacca perché la pistola oggi l’hanno lasciata a casa, ma domani..

Ricordare a qualcuno quanto gli volete bene spedendogli una cartolina di un vecchio viaggio insieme, poi ricordare quanto volete bene a un altro, tanto avete comprato un mucchio di francobolli.

Piangere fino a consumarsi gli occhi, farsi prestare altri occhi dagli amici. Farsi nuovi amici assicurandosi prima che abbiano gli occhi.

Rimediare a tutti gli errori cambiando le regole, renderle retroattive per non sbagliare mai. Stupide volpi, l’uva acerba sfama come l’altra, basta dichiarare che ti è sempre piaciuta.

Uccidere centinaia di schiavi sotto il peso dei massi che li costringi a trascinare tutto il giorno, sotto il sole, senza acqua da bere o un riparo, godere delle loro fatiche, assaporare ogni goccia di sudore, ogni vescica, farsi cullare dal lamento, veneratemi, erigete un tempio che celebri la mia bellezza, nutritemi col vostro amore.
In mancanza di schiavi prendersi un cane.

Non raccontarsi bugie. Le altre volte me le sono raccontate, ma stavolta no, stavolta è tutto vero. Ripeterlo ogni volta.

Dispensare perle di saggezza a chi non ve le chiede, come atto di generosità. Dare via per prime quelle col verme.

Abbonarsi alla Settimana Enigmistica per diventare campioni di Aguzzate La Vista, esperti nel trovare differenze fondamentali fra la predica e la razzola. Nella vignetta a sinistra il muretto ha un mattone sbeccato, cambia tutto eh? Nel dubbio diventare bravi anche a Il Corvo Parlante.

Arrampicarsi su peri molto bassi, da dove sia più agevole cadere.

Tenersi timidamente lontani dalla prima fila, cercare una posizione sul fondo, chiedere a tutti di girarsi.

Stilare un elenco di tutti i difetti dell’ego che voi invece non avete. Far sapere a tutti che voi invece non li avete. Farci una maglietta con l’elenco di difetti che invece voi figurarsi se. Venderla al Club degli umili, da voi timidamente fondato since 1953.

Essere sempre gli ultimi a pagare il conto, pagare meno perché non vi hanno portato il dolce, tenersi il resto.

Rompere il cazzo a tutti di quella volta che avete subito un torto, invocare il Consiglio Di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’intervento aereo, l’invasione preventiva, poi svegliarsi un giorno coi sensi di colpa perché quel torto forse non l’avevate subito proprio proprio così. Cambiare idea il giorno dopo, ricominciare da capo.

Arrivare a pagare qualcuno che vi ascolti con la scusa di chiedere aiuto.

Soprattutto non tacere mai: i narcisi sono fiori chiassosi, devi parlare forte sennò ti coprono.

Vorrei scoprire che sei sola. Che ti sei lasciata da poco con uno stronzo che non ti considerava abbastanza e aveva sempre da andare a giocare a calcetto il martedì sera. Con cui comunque non avevate mai avuto granché da dirvi.

Che leggi un sacco di libri seri, ami i classici e le poesie, e che quando non hai voglia di leggere ti butti sul divano e ti scarichi l’ultimo Iron Man. Vorrei incontrarti per caso in fumetteria e dirti che sono quello che ti ha parlato quella volta là, mentre cercavi di spiegare alla libraia come si cucinano le albondigas. Vorrei che lo spiegassi anche a me.

Sarebbe bello che ti mancasse proprio uno indipendente ma disordinato, che ama farsi da mangiare ma è pigro, che se può evita ma quand’è costretto se la cava piuttosto bene, che se ti invitasse a cena da lui non ti farebbe mangiare male, ma se gli preparassi una schifezza non si lamenterebbe.
Non troppo, perlomeno.

Vorrei che fossi in quel particolare periodo della tua vita in cui se proprio devi avere vicino un uomo dovrebbe essere spiritoso, e non il solito palestrato idiota con cui esaurisci gli argomenti dopo un quarto d’ora. Anzi, vorrei che il tuo ideale fosse proprio il contrario del palestrato, tipo uno con gli occhiali e l’aspetto trasandato, incapace di presentarsi e che ti guarda andare via da dietro uno scaffale sperando che ti volti a salutarlo. Uno timido, non l’esibizionista che poi cosa cazzo avrà da esibire, visto un tricipite visti tutti, uno che se ci perdi mezz’ora ti apre una finestra su un mondo di cui non si vede la fine e devi picchiarlo per farlo tacere.
Magari uno che però alla fine non lo picchi perché smette di parlare e ti guarda come si guarda un quadro, cercando di capire le ragioni di ogni pennellata, guardando la traccia di blu e provando in silenzio a farsi un’idea di quello che ha davanti. Che cerca di imparare qualcosa, e se può di condividere quel poco che conosce.

Sarebbe fighissimo che proprio quella sera ti trovassi per caso al solito baretto e vedessi arrivare un tipo così, e fossi con qualche tua amica che quel tipo lì lo conosce e lo fermasse per dirgli qualcosa e ti desse l’occasione di presentarti, e restassi colpita da qualcosa, ma colpita in positivo, non dai peli di gatto sulla giacca che fanno un sacco sciatteria o dalla barba di due giorni che o te la tagli o te la fai crescere ma così proprio non si può vedere.

Magari ti ricorderesti che tu quel tizio lì lo hai già incontrato tempo fa, e poi ti verrebbe in mente quella cosa della libreria e a quel punto sarebbe pazzesco se tu fossi una di quelle ragazze disinvolte che amano attaccare bottone e si fanno guidare dalla simpatia a pelle che scoprono di provare per una persona, e sarebbe del tutto normale chiedergli a quel tizio lì se alla fine ha imparato a cucinarle, le albondigas, e lui, che non aspetterebbe altro, perché è timido mica ritardato, ti terrebbe lì a chiacchierare di qualsiasi cazzata per un’ora, e la tua amica sarebbe bello che fosse abbastanza sveglia da capire che non è il caso di intromettersi.

Poi vabbè, magari questo è fantascienza, ma mi piacerebbe che a quel tizio lì gli lasciassi il tuo numero di telefono e ti venisse voglia di rivederlo presto, tipo il giorno dopo, e trovaste una scusa qualsiasi per organizzare un altro incontro, e poi vi vedeste con quella luce negli occhi di due che sanno benissimo cosa sta per succedere e se la prendono con calma ma non troppo, e prima della fine della giornata quello che sta per succedere succedesse e vi ritrovaste dopo qualche giorno sparati dentro un film adolescenziale un po’ stereotipato di quelli che passano su Italia Uno alle cinque del pomeriggio, ma che non ve ne fregasse granché perché in quei film ci si sta da dio, e dopo tanti scazzi un po’ di gioia ve la meritereste, sia tu che lui.

E poi vorrei scoprire come si chiama quello stronzo lì, e menarlo, perché al suo posto volevo starci io.

magari sarà un asteroide
si schianterà su questo lato del mondo
alzerò gli occhi al cielo in fiamme
dirò forse machecà

oppure un esaltato pigerà un bottone
non sarò tra i fortunati che alzeranno gli occhi al cielo
mi toccheranno le radiazioni
soffrirò come una bestia

sarà il cofano di un fuoristrada
una madre di famiglia cogli occhi al cellulare
un pazzo al supermercato
un coltello da cucina col manico ergonomico

una curva veloce
una frenata
un sorpasso del cazzo
un colpo di sonno

cuore fegato cervello
milza reni pancreas
si rompe da niente quella roba
lì dentro

cadere dalle scale
dal terrazzo
su un filo scoperto
con le forbici in mano

vederti

bisognerebbe impararsela a memoria solo per i nomi bellissimi che riporta

« Piramide al capo più meridionale del Nilo, come segno dell’inizio del fiume delle Piramidi – Eretta nel 1938, sotto la protezione del proconsole Jungers e con l’aiuto dei Padri Colle e Gerardine e di Monteyne, dal dr. Burkhart Waldecker in memoria di tutti coloro che hanno cercato il capo del Nilo, [che sono] Eratostene Tolomeo Speke Stanley e altri – Sono nomi del Nilo Kasumo-Mukesenyi-Kigira Luvironza-Ruvubu-Kagera Lago Vittoria-Nilo Vittoria Lago Kyoga-Mwita Nzige (Lago Alberto) Bahr el Gebel-Kir-Bahr el Abiad Nilo. »


Ogni tanto unisco i palmi delle mani e ne tengo uno un po’ più indietro, per sentirlo più piccolo. Se chiudo gli occhi posso fingere che quella mano sia tua. Non funziona benissimo, eh? Manca il tuo viso perplesso quando riapro gli occhi, manca il profumo del tuo collo quando attraverso la distanza che ci separa e mi nascondo sotto la coperta dei tuoi capelli, e il mento e l’angolo della bocca che assaporo prima che la tua lingua mi travolga come una piena di fiume.

Mi mancano tutti i tuoi baci, quelli timidi e quelli affamati, e la tua mano che si infila nella mia quando non me l’aspetto, e il tuo sedere che mi scivola in mano, e tutto quello che ho assaggiato e morsicato e toccato, e il tuo respiro e quello che ho trovato nel tuo abbraccio, che è come sedersi sul dondolo e leggere un libro che racconta di te.

Ti ho conosciuta un po’ per volta, ho unito i puntini di quel che mi hai mostrato e il disegno è venuto fuori un po’ incerto, misterioso, ma più andavo avanti a tirare righe più i particolari mi facevano correre la penna sul foglio. Intorno al trentacinque ho cominciato a intuire che in quel ghirigoro si nascondeva qualcosa di prezioso. I tuoi pantaloni stretti, gli scalini di casa tua, l’anello della nonna, la passione per gli ombrelli, finestre senza le tende su un paese che non conosco, dove si parla una lingua così diversa dalla mia. Abitudini che non comprendo, così diverse dalle mie da farmi domandare se ci sia davvero qualcosa che ci unisce.

È che mi fai sentire un esploratore, di quelli che nell’Ottocento risalivano il Nilo per individuarne l’origine, coi binocoli e la bussola.

Mi affido al telefono, ti mando un messaggio per sapere dove sei, mi rispondi con una faccina. Ti dico che mi manchi, ricevo un’altra faccina. Potrei arrendermi e chiedere all’elefante se ti ha visto passare, ma io con gli elefanti non ci parlo.

Così ti scopro da solo, una faccina alla volta, quella per quando ti prendo in giro, quella per quando ti guardo ad alta voce, e vorresti che mi voltassi di là, che non lo sai sostenere uno sguardo, e non capisci lo spreco a non essere guardati da occhi come i tuoi.

Cammino lentamente, come uno che cerca posteggio, e ho paura che quando arriverò te ne sarai già andata, e mi guardo le mani, le unisco insieme e chiudo gli occhi. Non basta mica.

Ti ho baciata una sera, a sorpresa, ed è stato dolce, ed è stato speciale.
I primi baci ce l’hanno questa cosa, di essere dolci e speciali.
Poi non ci siamo più visti.

Quando ti rivedrò, domani, fra un mese, boh
Sarà come un altro primo appuntamento, quando non sai bene cosa potrebbe succedere
Resterò lì a chiedermi se posso baciarti di nuovo, magari ti sei scordata.
Magari me lo sono immaginato.
A volte lo faccio.

Piglierò di nuovo coraggio, basterà un po’ meno dell’ultima volta
Ti bacerò di nuovo, a sorpresa. Sarà dolce, e sarà speciale.
Sarà di nuovo la prima volta.

Se ci pigliamo gusto potremmo rifarlo sempre
Non ci vediamo più per un po’, poi ci rivediamo un po’ imbarazzati,
restiamo un po’ lì, poi ti bacio.
Tu fai quella che non se l’aspettava perché sei gentile, ma un po’ te la mena.

E anche questo mio struggimento lo trovi eccessivo
Ci vediamo tutte le settimane, dai.
Ma come faccio a spiegarti
Ci sono animali che non vivono così tanto.

Quella sera, mentre ti baciavo, da qualche parte del mondo nasceva un coso con le zampette
E quando ti bacerò di nuovo non ci sarà già più
perché i cosi con le zampette vivono solo cinque giorni quando gli va bene,
che di solito al terzo gli prende la depressione e s’impiccano.

Capisci?
Amore e morte! Ma chi ce l’ha?
A parte Romeo e Giulietta, certo.
Vabbè, Tristano e Isotta, chiaro.
Ma sì, Orfeo ed Euridice, era sottinteso.

Ho capito, niente cosi con le zampette che muoiono male per noi.
Per noi passeggiate sul mare lucide di pioggia,
Lampioni pallidi nella bruma,
Mattonelle scivolose.

È dolce anche così
Ma la morte l’avrei preferita in senso figurato.

Succede di guardare una persona da vicino e vederci il futuro.
Il tuo, il suo.
Quello dei pochi fortunati che lascerete avvicinare alla vostra perfezione.
Succede, non posso farci niente.

Come succede che i tempi non coincidano,
che uno dei due non sia pronto, il futuro diventa trapassato.
Il posto dei trapassati è il cimitero.

Per fare il morto bisogna sopportare l’acqua nel naso, tenere la schiena rigida e le gambe tese, sennò ti ribalti. È anatomia, gli uomini stanno a galla sulla pancia.
Per le donne è più facile, basta lasciarsi andare.

Io vorrei sapere chi sei quando ti lasci galleggiare.

Come se bastasse dire che va bene e chiudere il mondo fuori dalla casa di cartone.
I muri si scollano, ai mobili disegnati non si aprono i cassetti, ma tanto cosa ci devi mettere dentro?
La felicità non esiste, è tutto rumore di fondo.

Volevo una ragazza, ho trovato i Joy Division.
Ma forse hai ragione, i sogni finiscono, la disillusione mai.
Il vantaggio degli ultimi è che non li sorpassa nessuno.

Io non vado mica bene per te.
Vuoi un uomo solido ma non vuoi la forma,
la quiete quando fa burrasca e il caos quando non c’è.

Fra noi non poteva funzionare, io sono anaffettivo e troppo emotivo,
tu sei troppo coinvolta e troppo fredda.
Aspetta, non ho capito, puoi ripetere?

È che non mi apro abbastanza.
Poi sì, poi no, poi troppo, e tu vuoi un fidanzato, mica una tapparella.
Tu devi far quadrare i conti.

Ma non eri tu, serate a leggere poesie? Un amore che mi porti via? Perdersi nell’altro?
Non accetto niente di meno?

No, adesso non hai tempo, non ti puoi fermare.
Le priorità.
Progetti per il futuro? Fissare il vuoto.

Fai bene, la poesia non te lo paga il mutuo.
Il futuro costruiscilo con chi te lo può mantenere.
Magari prima o poi riuscirete anche a parlarvi.

Anche il teatro delle marionette è teatro.

Magari lo trovi un contabile poco impegnativo
instabile nell’immobilità
che ti darà dei figli
ma non ti parlerà
troppo.

Ti farà
felice no
comoda.
Ti farà comoda.

Auguri.

Ho bisogno di una parola.

Da un po’ c’è questa moda di divulgare termini in lingue straniere che sembrano circoscrivere con precisione concetti per natura vaghi, come l’odore di ascelle e piedi sull’autobus che ti porta in centro nelle mattine di agosto.

Pare che in tedesco si dica Augustmorgenbusfüßeachselhöhlengeruch.
Sembra quasi una ninnananna, lontanissima dall’immagine che descrive.

Credevo che una lingua aspra come il tedesco funzionasse solo con gli insulti, ma è anche vero che è stato un poeta di lingua tedesca a scrivere questo sonetto bellissimo.

Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro
di te – come l’inverno che appunto se ne va.
Perché tra i tanti inverni c’è un inverno talmente infinito
che, se il tuo cuore lo sverna, allora sopporta ogni cosa.

Sii sempre morto in Euridice – innalzati cantando
e, nella pura relazione, ridiscendi celebrando!
Qui tra quelli che svaniscono, nel regno del declino,
sii risonante cristallo che già nel suono s’è infranto.

Sii – e insieme sappi la condizione del non-essere,
fondamento interminato della tua interna oscillazione –
che tu possa compierla appieno, quest’unica volta.

Alle risorse già usate, come a quelle oscure e mute
della natura ricolma, alle somme indicibili,
aggiungi con gioia te stesso, pareggia il conto!

A me basta una cosa più semplice, credo.

Ho bisogno di una parola per descrivere quella malinconia che ti prende quando pensi a una città dove sei stato una volta, ed è troppo lontana per tornarci ancora.

Ma non solo.

Dovrebbe descrivere il momento in cui ti capita sotto gli occhi una sua foto, e ti prende il desiderio di rivederla, camminare fra i suoi palazzi, respirarne l’odore. La voglia di perderti in angoli che non hai avuto il tempo di esplorare, di scoprire aspetti di lei che ancora non conosci.

E questo desiderio dovrebbe impastarsi con la tristezza di sapere che probabilmente non la ritroverai più, perché è davvero troppo lontana.

Mi serve una parola che trasmetta le giuste dimensioni di quel piccolo dolore che non fa davvero male, tanto che ti piace coltivarlo, fossero tutti così i dolori, in un paio di sospiri se ne vanno.

Non lo so se in qualche lingua esiste una parola che spieghi tutto questo.

Magari in eschimese, loro ci stanno attenti a questi dettagli, hanno tremila parole per dire neve, figurati se non ne hanno una per spiegare che un posto lo senti tuo anche se non ci hai mai abitato abbastanza, ma se potessi chissà, forse lo faresti.
Che sopporteresti il rumore che fa una città, anche una rumorosa e scomoda e fredda e caotica.

Ma quanta vita c’è in una città, quanta ne puoi assorbire, eh, eschimesi?
Lo sapete voi?

Come si dice che del tuo luogo preferito al mondo ami anche i difetti, e oggi li rimpiangi tutti?
Che sei dall’altra parte del mondo a guardare la sua fotografia e vorresti essere lì, seduto sui gradini di un portone qualsiasi a guardarla per un po’, questa foresta di palazzi e persone che non si fermano mai, e camminarle accanto senza una destinazione, solo per il piacere di respirarla ancora un po’ e sentirti il suo odore addosso.

Stasera mi serve quella parola lì.

Non è che puoi chiamare Central Park e dirgli che ti manca.
Il Chrysler Building non lo incontri per strada e fai il distaccato per non mostrargli quanto è brutto girarti e andare via.
Non te lo sogni di notte, un newyorkese, e se succede non ti svegli come se ti fosse caduto dal letto il cuore.

Ci vuole una parola che sostituisca tutto questo, non importa in che lingua, mi basta che sia una parola sola.

E che magari si possa usare anche per le persone.

Di essere sensibile ai tuoi occhi lo sapevo già, specie quando non mi guardano.
Quando mi guardi è come stare sotto una cascata, d’estate.
Se non mi guardi è uguale, ma senz’acqua.

Poi ho scoperto che mi piace come ti siedi, che non sai dove mettere le gambe e le butti di là, le tiri su, le pieghi in tre.
Si agita tutta la fila di sedili, qualcuno mugugna per i tuoi continui cambi di posizione.
Io no, mi sembra di essere seduto vicino a una nuvola.

E ci sarebbe questa cosa delle mani, di come le muovi. Non è che me le muoveresti addosso?
Tipo i carrarmatini di risiko, facciamo che la mia schiena sono i Territori del Nord Ovest,
e tu li invadi.

Una cosa non mi piace di te, il modo in cui te ne vai.
Dici vabbè ciao, scendi dalla macchina e chiudi la portiera.
E basta.

Aiuterebbe baciarmi a lungo prima di scendere.
Farmi stare sotto una cascata, d’estate.
Invadermi le mani.
Aiuterebbe non scendere.

Ma forse è un bene che non ci amiamo,
perché starei tutto il giorno con la faccia assente a pensarti, e farei un sacco di casini sul lavoro,
e già così il mio capo pensa che mi droghi.

Amarci sarebbe un casino,
ti nasconderei nei libri un sacco di biglietti che poi saltano sempre fuori nei momenti sbagliati, quando stai con altri fidanzati,
che non la prendono benissimo.

Finché poi non ci ameremmo più
e dovrei fare giri assurdi per non passare sotto casa tua,
arrivando in ritardo agli appuntamenti.
Non che adesso..

No, guarda, meno male che non ci amiamo.
Fa lo stesso se io però un po’ sì?