L’amore ai tempi del corona

Mi sono comprato una mascherina in farmacia, l’ho pagata 140 euro. Ma dicono che se non ce l’hai muori, e insomma, mi sono appena comprato casa, sarebbe un bello scazzo morire prima di andarci ad abitare. Però il medico mi ha detto che se non sono malato la mascherina non mi serve a niente, mi ha detto che ho buttato via 140 euro.
Mi sono immaginato gli strepiti di mia moglie, le sue critiche sulla mia incapacità a far quadrare il bilancio domestico.
Per salvare il nostro matrimonio ho cercato di ammalarmi, per non buttare via i soldi, ma dalle mie parti il virus non riesce ad attecchire, bisogna andare nei paesi più fortunati, in Lombardia e nel Veneto, dove la gente è ricca e non si fa mancare niente.

Per entrare a Vo’ Euganeo, uno dei comuni colpiti dall’epidemia, bisogna oltrepassare un posto di blocco, sorvegliato da poliziotti in tuta spaziale e troupes televisive che la mascherina se la sono fatta disegnare sulla faccia dalla truccatrice, perché fa audience. Non mi hanno lasciato entrare in paese, hanno detto che è pericoloso.

Quando mi sono allontanato è arrivato un ghanese che per 5 euro mi ha venduto un sacchetto di plastica con dentro delle fettine impanate. “Devi dire che sono per tua figlia che sta nella zona rossa, sennò non entri”.

Sono andato davanti al poliziotto alle transenne e gli ho mostrato la sporta. Mi ha detto di posarla lì e allontanarmi, avrebbero chiamato mia figlia per fargliela raccogliere.
Non capivo come questo potesse aiutarmi a passare, ma appena ho posato il sacchetto a terra sono stato circondato da un nugolo di giornalisti in cerca di storie commoventi, che hanno distratto la guardia e mi hanno permesso di sgattaiolare via.

Ho camminato da solo sulla strada che conduce al paese. Era un pomeriggio di sole, sembrava estate. Ma non era estate, era febbraio, e gli insetti che di solito senti ronzare intorno, e gli uccelli che inseguono gli insetti e cantano, non c’erano. C’era un silenzio inquietante, nessun motore lontano, nessuna voce. Mi sono immaginato che questa storia del virus fosse tutta una montatura per tenere i curiosi lontano, e che in realtà a Vo’ Euganeo fossero arrivati gli alieni. Magari in questo momento mi stavano puntando addosso un qualche raggio disintegratore, e questo sarebbe stato il mio ultimo pensiero.
Mi sono vergognato di morire pensando agli alieni, e sono arrivato in paese canticchiando il ritornello di Saturday Night Fever.

In paese non c’era anima viva. I negozi erano chiusi, le strade deserte. Era spettrale, come qualunque paesino italiano alle tre del pomeriggio.

E come in qualunque paesino italiano, sapevo dove avrei potuto trovare qualcuno, e mi sono diretto alla piazza principale, al bar dei vecchietti.

L’insegna diceva Bar Sport, ma i suoi avventori non sembravano praticarne alcuno da parecchio tempo. L’unica attività alla quale si dedicavano ogni giorno era il sollevamento del bicchiere, e gliene potevi leggere in volto gli effetti, nel colore rubizzo del naso e nella vetrificazione dello sguardo. Quando li sentivi parlare, capivi dallo scorrere impastato delle parole che il flusso di pensieri là dentro stava attraversando una strada tortuosa per trovare l’uscita.

Ma a me non interessava la dialettica, ero arrivato fin lì per prendermi il coronavirus, e non me ne sarei andato a mani vuote.

Mi sono avvicinato a un anziano che sfoggiava la divisa da giovane, berretto da baseball e giacchetta grigio topo, e gli ho offerto la mia mano da stringere.
Lui non si è mosso, mi ha squadrato dall’alto in basso con diffidenza, e mi ha chiesto chi fossi e come fossi entrato in paese.

“Sono un candidato della Lega alle prossime elezioni”, gli ho risposto pronto. Non sapevo se ci sarebbero state elezioni comunali a breve, ma se sei un candidato della Lega la cosa non ti fa molta differenza, tu la campagna elettorale la fai comunque.

L’anziano in divisa da giovane mi ha fatto un sorrisone, e mi ha offerto da bere. Intanto che tracannavo un bicchierone di un liquido scurissimo e troppo aspro, mi ha raccontato che in paese ci sono un sacco di problemi, e che è ora che qualcuno cambi le cose, perchè qui son tutta gente per bene che lavora e paga le tasse, e a loro gli scansafatiche non ci piacciono, e sti negri è ora che se ne vadino da un’altra parte.

Ho posato il bicchiere, l’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto “mi piacciono gli uomini di polso”, poi ho cercato di buttargli la lingua in bocca.
L’anziano sportivo si è divincolato strillando, e i suoi strepiti hanno fatto alzare in piedi gli altri avventori, l’Anziano-che-gioca-a-carte, l’Anziano-che-legge-il-giornale e i tre Anziani-che-discutono-di-calcio.

Ormai ero in ballo, mi sono buttato addosso a chiunque, cercando di limonarli, e nella foga siamo finiti in strada, ad agitarci sul marciapiede.
Si era fatta un’ora più consona, e adesso circolava qualche passante. Un gruppetto di ragazzini sulla bici si è fermato ad assistere allo show di me che importunavo i Voeuganesi.

Dopo un po’ è arrivata una pattuglia di carabinieri.

“Documenti”, mi hanno intimato da dieci metri di distanza. Io ho tirato fuori la carta d’identità e mi sono avvicinato, ma questi hanno fatto un salto indietro e mi hanno gridato di non muovermi, che in base alle vigenti norme di sicurezza non mi era consentito avvicinarmi di più.

“Allora che facciamo?”
“Potrebbe seguirci in caserma”
“Non ci vengo in caserma”
“Eh in questo caso non lo so”

Siamo rimasti un po’ lì a guardarci, poi sono andati via.

I ragazzini hanno interpretato il mio gesto come un moto di ribellione, e hanno deciso di emularlo mettendosi a cantare “la disoccupazione ti ha dato un bel mestiere, mestiere di merda, coronasbirro”.

Intanto il signor Bepi, un pensionato che stava montando in servizio in quel momento, si è lasciato convincere a baciarmi con la lingua dietro il compenso di una damigiana di amarone, e si è appartato con me su una panchina.

Ci siamo abbracciati con passione, ma proprio mentre stavo per cacciargli in gola un metro di muscolo grondante umori, ha adocchiato la mia fede nuziale e si è fermato.

“Ehi bello, a che gioco stai giocando? Io non sono quel genere di uomo, sai?”
“Ma no, sono sposato solo sulla carta, in realtà non viviamo neanche più insieme. Sto aspettando le carte del divorzio”

Non ha voluto saperne, ha detto che senza un documento del giudice lui questa storia non la portava avanti, e se n’è tornato al bar.

Anch’io sono tornato a casa, e ho detto a Shasha che volevo il divorzio.
Lei non ha capito, va bene che litighiamo spesso, ma è perché siamo entrambi orgogliosi e impazienti, e non ci stiamo ad avere torto né a lasciare all’altro l’ultima parola, ma ci amiamo, sappiamo di poter contare uno sull’altra, e facciamo un sacco di sesso stupendo. Perché ci dovremmo lasciare?

Le ho spiegato che dovevo divorziare per mettermi con Bepi, prendere il coronavirus e salvare il nostro matrimonio, ma non ha capito. Davvero volevo lasciarla perché potessimo stare insieme?
Ammetto che messa così non l’avrei capita neanch’io.
È scoppiata a piangere, ha detto che lei un marito così scemo non se lo merita, poi si è asciugata gli occhi e ha deciso che questo matrimonio andava salvato, e che ci avrebbe pensato lei.

Mi ha fatto vedere il suo computer, c’era un negozio cinese online che vendeva boccette di coronavirus a 2.900 kuai.

Comprarlo su TaoBao era stata anche la mia prima idea, ma non parlando la lingua non ero stato in grado di procedere all’ordine corretto, avevo provato a tradurre letteralmente le parole corona e virus, ed ero solo riuscito a farmi arrivare a casa l’imperatore Tang Taizong con tutte le sue concubine. Erano tutti raffreddati e passavano la giornata sul divano con la copertina sulle gambe a guardare Netflix e scroccarmi litri di tè.

La boccetta del virus è arrivata un mese e mezzo più tardi, quando in Italia tutti si erano ripresi dal panico collettivo ed erano tornati a vivere normalmente, i bambini erano tornati a scuola, nei supermercati l’amuchina restava invenduta come al solito e le farmacie non sapevano più come smaltire le quantità enormi di mascherine che erano state costrette a ordinare durante i primi caotici giorni.

Non so se sia stata colpa del corriere Bartolini o del viaggio in aereo, o della scarsa qualità del prodotto, ma la boccetta mi è arrivata aperta, e qualunque cosa ci fosse stata dentro se n’è andata.

Mi sono immaginato cosa sarebbe successo nei giorni successivi: un altro caso qua e là, altra psicosi, gente che dà di matto e svaligia i supermercati, altri che se la prendono coi cinesi, scuole chiuse, telegiornali monotematici. Onestamente non me la sono sentita di tornare ai livelli di allarmismo immotivato da cui eravamo appena usciti, se proprio dovevamo spaventarci allora che ne valesse davvero la pena, mi sono detto.

Sono tornato sulla pagina del negozio in cui abbiamo comprato il coronavirus. “Shasha, come si scrive, in cinese, ebola?”

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.