Cina, agosto 2018 (7/12) – orsi gatto e locali ambigui

Domenica 12 agosto

Dall’hotel ci facciamo portare al parco Qianlingshan (黔灵山公园),dove i macachi girano liberi e infastidiscono le persone, ma a differenza di qui non hanno diritto di voto.

In realtà sono le persone a infastidire i macachi, urlando e tirando loro bottiglie di plastica per attirare l’attenzione. Perché, al di là della palese maleducazione, è evidente che se tiro la spazzatura addosso a un animale questo si fida di me e si lascia avvicinare. Sapete quando dicevo che dell’idiozia diffusa dei cinesi dovrei scrivere un capitolo apposta?

Alcuni macachi, costretti ad attraversare la strada su cui transitiamo, si arrampicano sugli alberi e saltano di ramo in ramo fino ad arrivare dall’altra parte: è uno spettacolo cui non mi era mai capitato di assistere, se non nei documentari; ciononostante io e la mia fidanzata siamo gli unici a guardare per aria, tutti gli altri strillano in direzione di un paio di esemplari fermi sul terreno a qualche metro di distanza, con l’espressione di chi davvero vorrebbe essere altrove.

Shasha è infastidita dalla ressa, e vorrebbe andarsene alla svelta, ma accetta di accompagnarmi all’interno di una specie di zoo che si trova lungo il percorso. Le gabbie le evitiamo, un po’ per la folla e un po’ per la tristezza, ma soprattutto perché appena scopro che ci sono anche i panda parto alla bersagliera verso l’edificio indicato dalle frecce.

Ci sarebbero da dire diverse cose sugli zoo, e specialmente sugli zoo che ospitano animali rari come i panda. La Cina mantiene la proprietà su questi animali, compresi quelli ospitati all’estero, e se da una parte ha costruito santuari e aree protette, come quella di Chengdu, nel Sichuan (sulla cui eticità ho letto un articolo piuttosto interessante), dall’altra tiene esemplari in pessime condizioni negli altri zoo cittadini, primo fra tutti quello di Pechino. Non l’ho visitato di persona, ma dalle foto e dai racconti di chi c’è stato nei giorni in cui mi trovavo in città mi sono fatto un’idea abbastanza realistica di animali sporchi e segregati in piccole gabbie dalle pareti in plexiglass.

D’altra parte il panda è seriamente in pericolo, l’ultimo censimento del2014, secondo il WWF, parla di poco meno di duemila esemplari ancora liberi. Forse ci sono modi più efficaci di proteggerli, sono sicuro che qualche animalista sarebbe in grado di elencarmene diversi, ma ho paura che alcuni di essi non sarebbero realizzabili in un mondo reale. Tipo abbandonare le città e lasciare che la natura si riprenda i propri spazi non è un’idea su cui avrei voglia di discutere.

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I panda di Guiyang mi sembrano piuttosto soddisfatti di stare lì: quello che ho visto era da solo in un capannone con l’aria condizionata, i giochi e un sacco di bambù da rosicchiare. Prima che iniziassi a fargli il video si stava rotolando su una specie di scivolo di legno, e non dava affatto l’idea di essere depresso.

Il complesso di Qianlingshan comprende anche una grotta e un lago, e sulla cima del monte è situato un tempio ma, come ho detto, alla mia fidanzata scottano i piedi, e anch’io dopo aver fatto il pieno di scimmie e ricevuto il dono inaspettato dell’orso gatto (il nome cinese del panda è xiongmao, 熊猫, che significa, appunto, orso-gatto), non ho più niente da fare e voglio allontanarmi alla svelta dalla cagnara.

Torniamo a casa dei nonni, e più tardi, ma non troppo tardi, perché i nonni di tutto il mondo sentono lo stimolo di cenare a orari impensabili per i più giovani, raduniamo tutta la famiglia per andare al centro commerciale a mangiare una cosa che non ho capito, un piatto tipico di Guiyang.

Panda lo escluderei, forse macaco.

Ci sediamo in un recinto in mezzo a due ristoranti, dove aspettiamo un tempo interminabile che chiamino il nostro tavolo. Nel mentre due solerti cameriere ci offrono bicchieri di tè, e facciamo quattro chiacchiere col resto della famiglia. Cioè, immagino che sia quello che stanno facendo i miei vicini di tavolo, io sto seduto accanto al nonno sperando fortissimo che Shasha torni dal suo giro per salvarmi dalla noia. E sì che suo nonno è una persona con cui mi piacerebbe parlare, ha visto più cose lui di questo Paese che Licia Colò in un anno di trasmissione, ma le barriere linguistiche sono insormontabili. Per fortuna Shasha torna alla svelta, mi recupera e mi porta a fare un giro per i negozi.
Quando ci riuniamo col resto del gruppo viene fuori che il quarto d’ora che resta è un quarto d’ora di Plutone, corrispondente a 542.500 ore terrestri.

Ripieghiamo così su un altro posto lì intorno che fa hotpot. Sembra che in Cina si mangi solo hotpot. Ogni regione prepara il suo tipico zuppone in cui pucciare cose: qualcuno ci mette le rane, qualcuno il manzo, qualcun altro il pesce. In questo ti servi da solo con degli spiedini di roba e salse varie. Rispetto ai precedenti che ho visitato ha un aspetto più informale, ma la qualità resta alta.

Finita la cena qualcuno ha la brillante idea di andare al Ktv, un locale dove ti conducono per un corridoio pieno di porte chiuse con una lampadina sopra, che ricorda tantissimo una casa di appuntamenti. Dietro ogni porta c’è un salottino con dei divani molto invitanti, ma invece di fare del sesso digiti su uno schermo il titolo della canzone che ti interessa e poi ti metti a cantarla. È un karaoke, cristiddio.

I divanetti di pelle e la luce bassa conferiscono alla stanza un aspetto lascivo. Mi domando cosa succederebbe se non ci fosse una grossa telecamera appesa in bella vista al soffitto, e anche così mi prendo il tempo per controllare se non mi sto sedendo sopra qualche macchia sospetta.
Quest’articolo mi dice che non sono stato l’unico a pensarla così.

Restiamo abbastanza per realizzare che le mie doti canore fanno di me la parte meno talentuosa della coppia, e che anche allargando la competizione alla sua famiglia otterrei comunque un ultimo posto. Provo a difendermi sostenendo che il repertorio mi ha penalizzato, ma la verità è che il catalogo del locale comprende decine di pezzi dei miei gruppi preferiti, sono proprio io che faccio anguscia.

Mentre Shasha si esibisce in pezzi famosi in occidente, sua madre e sua zia, che non parlano inglese, si buttano decise sul pop melodico cinese anni ’80. ne ascolto così tanto che quando finalmente andiamo a dormire ho i capelli cotonati e indosso un giubbotto di pelle con le borchie.

Lunedì 13 agosto

Ci alziamo presto, che il nonno ci aspetta alla stazione di polizia per rifare la carta d’identità. Non ho capito perché sia necessaria la presenza del nonno, ma la burocrazia cinese segue logiche troppo contorte per la mia mente di italiano arrangista.

Intanto l’ufficio anagrafe è alla stazione di polizia. E fin qui non ci sarebbe niente di strano, anche in Italia vai in questura a rinnovare il passaporto.

Ma è necessario essere accompagnati da un familiare?

Ho scoperto che se devi richiedere uno stato di famiglia rischi di sfiorare la tragedia: per quello non basta andare in ufficio e farsene stampare una copia, devi anche presentare un documento di identità di entrambi i genitori.

Non è difficile immaginare gli scenari che una richiesta del genere può aprire in una famiglia con una situazione delicata, magari dopo un brutto divorzio. Per non parlare di casi più gravi, con delle storie di abusi domestici: non ce la vedo una ragazza andare a cercare il padre violento perché le serve una fotocopia della sua carta d’identità. Ma i cinesi cos’hanno nella testa?

Poi immagino che sia tutto dovuto alla disastrosa campagna promossa da Deng Xiao Ping, sempre lui, per contrastare il boom demografico degli anni ’60 e ’70. Per quasi trent’anni chi contravveniva a questa legge era soggetto a una pena piuttosto severa, cosa che ha spinto moltissime famiglie a non registrare i figli in esubero. Oggi si sta cercando di riparare i danni: fra il 2013 e il 2017 qualcosa come 14 milioni di persone fantasma sono state registrate nel sistema anagrafico cinese, ma si stima che il numero di cittadini ancora sconosciuti allo stato si aggiri intorno ai 60 milioni.
L’intera popolazione italiana, per capirci.

Mentre mi perdo in queste considerazioni Shasha sta discutendo con un poliziotto, che le spiega come il documento oggi non si possa fare: ci sono stati dei lavori in strada che hanno interrotto la connessione internet, perciò non sono riusciti a scaricare le foto spedite dal fotografo.

Non posso fare a meno di pensare alle macchinette delle stazioni, che con 5 euro ti fanno quattro foto, le porti in comune e il giorno dopo hai la tua carta nuova. Ma sono fazioso, è evidente che in una situazione normale questo sistema funzionerebbe meglio.

Torniamo a casa, dove la nonna hapreparato il ripieno, e ci mettiamo a fare i jiaozi (che, ricordo a chi dovesse trovarsi in Cina e avesse a disposizione solo carta e penna, si scrive 饺子), di cui ormai sono un esperto, li chiudo con la stessa facilità con cui chiudo una cerniera. E quelli che non riesco a chiudere li occulto in bocca.

Cosa che fa inorridire la mia fidanzata.

“Guarda che la carne cruda qui è meglio non mangiarla”, mi rimprovera. Per “qui” intende la Cina, prima ancora che Guiyang, ma non sono sicuro che sia un consiglio sanitario e non un suo pregiudizio su certo cibo: nonostante i cinesi mangino praticamente tutto quello che si muove riesce a trovare disgustose certe mie abitudini, come fare colazione col pane e marmellata pucciato nel tè o mangiare il fegato (non contemporaneamente, è chiaro).

Vorrei passare il pomeriggio in giro a fotografare palazzi brutti, o andare a vedere il parco dei divertimenti, ma mi spiace privare Shasha del poco tempo che passerà con la sua famiglia per venire dietro ai miei affari, e comunque questa immersione nella vita di una famiglia cinese non mi dispiace, specie quando la nonna mi allunga un gelato.

Il problema sorge quando la mia fidanzata va a riposare un’ora e io non posso seguirla, devo stare sul divano a fingere di dormire con una coperta sulla pancia, a 40°,e sorbirmi una specie di sceneggiato cinese in costume su nobili del medioevo che si dicono cose e fanno la faccia sconvolta.

Ritorniamo in albergo e ci buttiamo in piscina, dove facciamo conoscenza con due bambini vivacissimi che ci chiedono un sacco di cose in un perfetto inglese. I bambini cinesi sono dei fenomeni, parlano diverse lingue, fanno sport a livello agonistico, li vedi prendere lezioni di nuoto, sci, pianoforte e arti marziali un po’ ovunque. Uno degli ultimi giorni, a Pechino, ho assistito a un allenamento di una bambina che faceva pattinaggio su ghiaccio, impressionante.

In compenso i grandi non capiscono mediamente una minchia e vanno in giro con la maglietta tirata su e la panza fuori.

Per raggiungere la piscina attraversiamo la hall dell’hotel in accappatoio e ciabatte, sentendoci un po’ come Cersei Lannister durante la sua walk of shame.

Si avvicina l’ora di cena, e non abbiamo voglia di tornare giù in città, così chiediamo al concierge di indicarci un posto nei dintorni. L’idea sarebbe di andarci a piedi e fare due passi, ma il posto migliore è un centro commerciale un po’ troppo distante. Vabbè, taxi, tanto costano poco.

Sulla via passiamo abbastanza vicino al palazzo con la cascata da riconoscerne la sagoma, ma dal nostro punto di osservazione non si vede la facciata, e non c’è modo di sapere se è attiva o no. Spero fortissimo di no, visto che non potrò andarci sotto almeno non mi sarò perso niente.

Il centro commerciale è enorme, con un piazzale pieno di macchinine colorate, bocce trasparenti che vanno avanti e indietro come i mezzi di trasporto dell’ultimo Jurassic Park (gyrosphere, le chiamano nel film), trenini. Funziona che paghi, te ne prendi uno e lo carichi di bambini che lasci liberi di scorrazzare in mezzo alla gente. Dico bambini perché mi vergogno di chiedere alla mia fidanzata di noleggiarne uno per un’ora, ma l’invidia è tanta.

Gli spazi all’interno sono altrettanto ampi, in quei corridoi ci potresti posteggiare un autobus. In genere i centri commerciali cinesi sono costruiti intorno a un grande atrio su cui si affacciano tutti i piani, ma non è sempre così. Questo,ad esempio, è sviluppato in larghezza invece che in altezza, quindi lunghi corridoi distribuiti su tre soli livelli. A quello più alto, come sempre, ci sono i ristoranti.

La scelta, a sentire Shasha, è ampia. Per me sono tutti uguali, hanno dei tavoli all’interno e una scritta incomprensibile sulla porta. Riconosco solo i ristoranti di hotpot perché sul tavolo c’è una pentola. Qui l’hotpot è più diffuso che a Pechino, ce n’è di ogni tipo, ma l’abbiamo già mangiato ieri, andiamo a cercare qualcosa di diverso.

Su tutto il piano aleggia un forte odore di piedi. È un banco che cucina tofu invecchiato, l’alimento cinese più vicino al nostro formaggio. Ne prendiamo una porzione, non è male.

Scegliamo un ristorante che offre il piatto tipico locale, il si wawa, che se dovessi tradurre in italiano suonerebbe un po’ come “neonato di seta”.

Il concetto è lo stesso dell’anatra alla pechinese: piccole sfoglie sottili che farcisci con ingredienti a piacere e inzuppi nella salsa. La parte difficile è infilarseli in bocca senza versarsi niente addosso. Quelli bravi riescono anche a mangiarli a morsi, ma quando ci ho provato ho schizzato cibo perfino sui vetri del ristorante. C’erano i passanti, fuori, che si fermavano a guardarmi.

2 commenti

  1. Fantastico, ormai sono nel tunnel aspetto il capitolo seguente come si trattase del Trono di Spade, solo che qui non mi addormento.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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