non vorrei apparire troppo sbilanciato, ma Eddie Vedder è Dio

Mi ci sono voluti ventisei anni, ma alla fine ci sono riuscito a vedere Eddie Vedder da solo. Che poi, solo, c’erano altre cinquantamila persone, ma almeno non c’erano i Pearl Jam. Che mi piacciono, eh, tre anni fa a San Siro mi sono goduto un concerto straordinario. Che poi, straordinario, sarebbe stato straordinario se non fossi stato io sotto un treno, ma anche così è stato un grande spettacolo (e l’ho raccontato qui).

È che a me è sempre piaciuto lui, per la voce, la presenza, il carattere; non è un caso se le mie canzoni preferite dei Pearl Jam sono tutti pezzi piuttosto lenti; la colonna sonora di Into The Wild sarebbe in cima alla mia classifica se mi prendessi la briga di stilarne una, e resta una delle ragioni per cui ho un ukulele in casa.

Il concerto di ieri è stato uno dei migliori concerti della mia vita di frequentatore di concerti. Tipo uno dei primi tre. Per le ragioni qui sopra, e perché è stato un concerto straordinario. Ma partiamo dall’inizio.

Se invece non volete partire dall’inizio potete saltare subito alla recensione, che inizia qui.

quando ti porti l’ukulele in spiaggia per rimorchiare le pugliesi ma la sabbia scotta e già ti sei vestito di nero almeno un paio di ciabatte le potevi mettere

Partiamo da me, che vado a prendere John Malkovich e facciamo colazione in una pasticceria sotto casa sua, dove mi deposito nello stomaco un krapfen con tanta crema da riempirci il lavandino. Pesa anche come il lavandino, ma è buono e non mi si riproporrà per le due ore e passa del viaggio fino a Firenze, dove arriviamo giusto in orario per il pranzo. Che uno dopo un lavandino alla crema non avrebbe neanche tutta questa fame, ma devi considerare che durante il pomeriggio sarai bloccato dalla folla e ti riuscirà difficile andare a farti un panino al banchetto dei panini toscani. Che poi chissà cosa se lo fanno pagare un panino a un evento del genere.

Ma prima c’è da raccogliere Concertillo, che è salito in treno da Roma e ci aspetta davanti alla stazione, poi da andare in albergo a Fanculonia a lasciare gli zaini, poi da tornare in città e cercare posteggio dalle parti dell’ippodromo, o perlomeno a Firenze. Poi da tornare di corsa in albergo, perché dentro lo zaino ci ho lasciato i biglietti, e una volta trovato un altro posteggio veramente vicino ai cancelli possiamo dedicarci all’approvvigionamento: ci accomodiamo in un vero diner americano dove ci servono degli hamburger enormi, roba che al mio potrei far indossare il casco e legargli la cinghietta all’altezza della fetta di edamer. Ma asciutti come un sacchetto di calce. Anche inzuppandoli di salsa è come mangiare cartongesso. Anche perché la salsa ce la devi grattugiare sopra.

E poi entriamo. Pesanti come donne all’ottavo mese superiamo i controlli, ci facciamo legare al polso il braccialetto di riconoscimento e ci affacciamo sul terreno dell’ippodromo.

L’ippodromo del Visarno è come puoi immaginarti un ippodromo: un prato enorme, lunghissimo, senza un albero o qualunque cosa che proietti ombra. Ci sono stand lungo il perimetro, una piccola tenda al centro dove si sono accampate persone fino a riempire l’ultimo centimetro protetto dal sole, e i banchetti che ti cambiano i tokens.

come un cantiere ma senza l’umarell

Sono la moneta corrente all’interno dell’area. Con 15 euri ricevi cinque pezzetti di plastica quadrati che puoi spezzare a metà: una bottiglietta d’acqua costa mezzo token, un gelato uno, una birra due. C’è anche un barbiere, se uno volesse approfittare dell’attesa per sfoltirsi la pelliccia dovrebbe sborsare lo stesso numero di gettoni che ti servivano negli anni 70 per telefonare in America da una cabina.

Il pubblico è diviso in diversi settori, ci sono i Paganti che stanno nel grosso del parterre, i Più Paganti che hanno accesso a un’area davanti al palco capace di contenere qualche migliaio di persone, gli Strapaganti che godono del privilegio di occupare due piccoli recinti davanti al palco, della capacità di boh, due-trecento persone ciascuno, e i Non Oso Immaginare Quanto Paganti che si guardano tutto il concerto sul palco, insieme ai tecnici. Quest’ultima soluzione mi sembra un pacco, una volta ho assistito a un concerto di Patti Smith da una posizione analoga, e va bene, stavo bello largo e vedevo tutto quello che succedeva dietro le quinte, ma l’energia che trasmette un concerto va a finire tutta davanti, così è come in televisione.

Noi siamo fra i Più Paganti, andiamo a collocarci a ridosso del piccolo recinto di destra e aspettiamo che cali il sole sperando di non calcificarci.

Ci sono gli addetti della sicurezza che smazzano bottigliette d’acqua caldissime e ci innaffiano con l’idrante durante le ore più calde, e un tizio sul megaschermo ci ricorda a intervalli regolari che ci ruberà solo pochissimo tempo per informarci sulle misure di sicurezza, le stesse che il tg4 raccomanda all’inizio di ogni estate: bere tanta acqua e non svenire. Ci ricorda che in caso di incidenti occorre evitare di seminare panico e non bisogna muoversi in modo disordinato.

Ci si domanda come si fa a muoversi in modo disordinato, qualcuno prova a muovere in modo disordinato un braccio per vedere che succede e lo infila nell’occhio del vicino, ma non scoppia nessuna rissa grazie ai preziosi consigli del tizio nel video. E perché fa troppo caldo anche solo per pensare.

Alle cinque e mezza salgono sul palco gli Altre Di B, un gruppo di Bologna che canta in inglese. Il cantante somiglia a quello dei Thegiornalisti, solo più basso. Sono belli vivaci, contenti di esibirsi davanti a una marea di persone e del tutto a proprio agio. Mi ricordano un po’ gli Arctic Monkeys, oppure li confondo con uno di quei gruppi che ascolto ogni tanto senza guardare chi sono. Sono bravi, comunque, molto meglio di quelli che verranno dopo. E sono venuti a suonare a Genova ai Giardini Luzzati, ma l’ho scoperto solo adesso cercando un video su youtube.

gli Altre Di B spaccano

“Quelli che verranno dopo” dovevano essere i Cranberries, ma la cantante ha problemi di salute e hanno annullato la tournèe. Sale sul palco una tizia avvolta in una specie di mantello nero, indossa un top nero e dei pantaloni aderenti dello stesso colore. È magrissima, sennò avrei pensato subito a Batman. Invece è Eva Pevarello, che mi dicono essere venuta fuori da X Factor. Non il gruppo di mutanti che lavorano per il governo americano, ma la trasmissione televisiva che spinge talenti musicali precotti verso una fama di un paio di mesi prima di lasciarli liberi di esibirsi alla Sagra della Provola. Fra un anno a Coachella e fra due anni a fare il benzinaio, dicevano quelli là.

È timidissima, propone tre o quattro pezzi che non ricorderò, e se ne va a difendere Gotham dal crimine, ignorata da un pubblico che sembra avere di meglio da fare. È simpatica, dai, ma con me le ragazze magrissime che si chiamano Eva partono avvantaggiate.

e comunque ho visto Eve migliori

Poi guadagna il palco uno che sembra un incrocio fra un salumiere e un Teletubbie, guarda se non somiglia a Dj Ringo di Virgin Radio. Cazzo ma è lui! È Dj Ringo! Ringaccio!

Io lo adoro, Ringaccio, perché è uno di noi! È il tizio che incontri la mattina al bar mentre cerchi di leggere il giornale e ti blatera addosso un luogo comune a caso sul governo che ruba. È l’altro tizio che al pub vuole presentarti un suo amico che sa fare Balliamo Sul Mondo coi rutti. È quello che fa la battuta a sfondo sessuale invece di quella divertente. Che ti manda le donne nude su whatsapp. Che beve la Guinness. Che ascolta il mitico Blasco. Che prima o poi farà la mitica Route 66 su una mitica Arlei Devinso. È uno di noi, quello che di solito cerchi di evitare.

Lui e un altro dj di cui non ricordo il nome ci fanno ascoltare diverse pietre miliari del rock, ma solo una ventina di secondi ciascuna, sennò Spotify gli chiede di pagare l’abbonamento, e per ognuna di esse ci regala un commento che se stava zitto era uguale. Ogni tanto punta un cannone di plastica verso il pubblico e ci spara addosso delle magliette. Se qualcuno se lo stesse chiedendo sì, prima se lo mette in mezzo alle gambe e finge che sia il suo grosso uccello, poi mima di ficcarlo nel culo di un tecnico. Haha.

Si congeda ricordandoci che siamo più forti di quegli stronzi che cercano di farci paura, e mostra il dito medio al suo nemico immaginario. Mi domando se avrebbe accettato di salire sul palco in un paese dove il terrorismo è una minaccia reale e non qualcosa che vedi in televisione, ma sono argomenti di cui non mi sento in grado di parlare, preferisco raccontare le mie cazzate.

Mentre va via gli urlo “Ringo, tua mamma ascolta 105!”, ed è una soddisfazione che volevo togliermi da anni.

Samuel ce l’ha ‘sta fissa delle mani

Il primo artista che non devo cercare su google è Samuel, il cantante dei Subsonica recentemente lanciatosi in un’avventura solista. Si presenta disinvolto come un vero animale da palco, canta una canzone e poi ci saluta: “Mi dispiace tantissimo per i Cranberries”, dice ridacchiando, “Avevo anche comprato il biglietto, ho dovuto rivendermelo. Vorrà dire che vi farò sentire il mio nuovo disco, anche a quelli che avrebbero preferito non ascoltarlo”. Ed è di parola, ce lo fa sentire tutto. Tutto. Non finisce più, dopo quattro o cinque canzoni la gente comincia a sedersi, tira fuori le carte, dei libri, parte un esodo verso il bar. Lui prova a coinvolgere il pubblico, urla “tutte le mani!”, ci mostra come batterle, ma lo seguono in tre. Finisce e se ne va raccogliendo gli stessi applausi di Eva Pevarello. Finora la gara dell’applausometro l’hanno vinta i tizi sconosciuti di Bologna, di lì in poi è stato un calo. Non è il caldo, è la pochezza.

Ci vuole Glen Hansard a cambiare la situazione.

Per chi non lo conoscesse, e io ero fra questi fino a sabato mattina, si tratta di un cantautore irlandese, ha fatto diverse cose interessanti, tipo vincere un oscar per la miglior canzone di un film e recitare in The Commitments, quel film straordinario di tanti anni fa che se non l’avete visto vergognatevi.

Si presenta sul palco con un paio di polacchine invernali e una chitarra tutta scavata dalle pennate del plettro. Suona canzoni di tre accordi, un ritornello semplice, e ottiene centomila mani alzate. Samuel è nel recinto supervip a mangiarsi il cappello come Rockerduck.

secondo me le buca apposta per scena

Quando gli cambiano la chitarra gliene danno una che devono averci fatto il nido i topi, ha due grossi buchi appena sotto il foro centrale, e ci vuole poco a capire come sia successo: l’uomo dalla folta barba comincia a picchiarci sopra a una velocità e una potenza che io così rapido so solo fare le pulizie di casa e infatti non viene mai nessuno a trovarmi. Il pubblico è suo, può fare di noi quello che vuole. Quando ci saluta qualcuno gli urla “bis!”, sebbene dopo di lui sia finalmente il momento di Eddie Vedder.

E finalmente..

Il palco sembra il negozio di un rigattiere, ci sono strumenti dappertutto, valigie aperte, un vecchio organo in legno, un registratore a bobina e una scatola piena di adesivi sul pavimento che non si capisce a cosa serva.

Alle spalle della bottega una fila di steli reggono delle lampadine che trasmettono un calore da soffitta, e sullo sfondo un cielo stellato. È già bello così.

foto a fuoco non ne ho trovate

Il nostro eroe arriva, fa un inchino goffo e ci saluta in italiano, leggendo da un foglio. Dice che è la prima volta che viene nel nostro paese da solo, e anche la prima che suona a un evento così grande. “Queste cose succedono solo in Italia”, dice. Ha un legame particolare con l’Italia da quando, durante la sua prima tournèe, ha conosciuto sua moglie a Milano, e non manca di ricordarcelo anche stavolta.

Ho inserito il link ai video che ho trovato su youtube per ogni canzone, almeno dov’erano disponibili. Non ringraziatemi tutti insieme.

Attacca Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town e John Malkovich inizia a darsi sberle in faccia dall’entusiasmo. Poi fa Wishlist e Immortality, sempre del suo gruppo, e il mio compagno di concerto non riesce a trattenere la gioia. Ascoltillo è più tranquillo, lui i Pearl Jam li conosce poco, ma si vede che sta attento.

La prima cover è di Cat Stevens, Trouble, a cui attacca una melodia che non so gli altri, ma io ho iniziato a ululare: Brain Damage, dei Pink Floyd!

Prima di posare la chitarra elettrica fa Sometimes, poi si alza e tira fuori una bottiglia di rosso. Ci ricorda che quella sera è San Giovanni Battista e brinda a lui e a tutti quelli presenti, uno per uno. Poi dice vaffanculo in italiano, prende l’acustica e inizia I Am Mine, dove ceffa subito un accordo e dà la colpa al bere.

Posa la chitarra e passa all’ukulele. Brividi, che Ukulele Songs è un disco pesantuccio.

Tranne Can’t Keep e Sleeping by Myself, e per fortuna canta quelle.

Le canzoni vengono via veloci, ne ha già presentate una decina e ancora non ha toccato i miei mostri sacri. Sono già esaltato così, mi chiedo cosa succederà quando arriveranno.

Non devo aspettare molto, mi spara quattro canzoni da Into The Wild, Far Behind, Setting Forth, Guaranteed e Rise. Su Guaranteed mi sono bagnato le mutande.

“Ehi, questa la so fare anch’io!”, mi dice Chitarrillo, che riconosce prima di me The Needle and the Damage Done di Neil Young. Nessuno dei due capisce che quell’abbozzo di melodia che segue è Millworker, un pezzo di James Taylor che di solito suona per intero.

Di Unthought Known non racconto niente.

Poi fa un collegamento fra San Giovanni e i Soundgarden, e s’incupisce, e ci dice delle cose tristi, e parla di Chris Cornell e poi io una versione così triste di Black, madonna, quell’altra volta a Milano ho pianto come un bambino perché mi ero appena lasciato con una, ma non è che posso piangere tutte le volte, dai. Facci qualcosa di forte. Ochei, mi risponde dal palco, e spara Lukin, e Porch.

Poi va all’organo. Non era coreografico l’organo, ci si siede davanti dandoci le spalle e spera di non fare casino. Legge il testo su due tablet appoggiati uno sopra l’altro in un equilibrio che vabbè, e ogni tanto si gira verso il pubblico con la faccia di quello che non credeva che ci sarebbe riuscito.

La canzone è Comfortably Numb, e no, non c’è riuscito, se n’è dimenticato un pezzo, si è perso a metà, ha improvvisato ed è arrivato in fondo con qualche difficoltà. E comunque Comfortably Numb all’organo non si può sentire.

Presenta Imagine, che non ha bisogno di presentazioni, e succede una cosa che se avevi la sensazione di trovarti a una funzione religiosa questo è il momento in cui ti inginocchi e rinneghi il tuo dio di prima: da sopra il palco cade una stella cadente. Alla fine della canzone più abusata del mondo per parlare di amore universale cade una grossa stella cadente. A voler essere cinici era una cosa che si poteva organizzare senza grossi problemi, spari qualcosa da dietro il palco, nel casino chi vuoi che la noti la differenza, ma onestamente non so se sarebbe così facile, e poi me ne frego, era una stella cadente, era la prova che Eddie Vedder è Dio e l’anno prossimo l’otto per mille ce lo dobbiamo spendere in cofanetti dei Pearl Jam.

Better Man è sempre mioddio Better Man, Last Kiss è una canzone divertente di Wayne Cochran, di Untitled e MFC non ho trovato nessun video.

Fine.

No, scherzo, a questo punto torna sul palco Glen Hansard e cantano insieme il pezzo che ha vinto l’oscar di cui parlavo prima, Falling Slowly. Sullo schermo inquadrano una ragazza che piange fra il pubblico. Lei se ne accorge e la cosa la fa piangere anche di più, che oltre a sentirsi una merda per quella canzone si sta sentendo una merda in mondovisione.

Ci avviamo verso la fine del concerto, iniziano a suonare un altro pezzo di Hansard, Song of Good Hope, e il ciucchettone di Seattle viene a sedersi a bordo palco. Canta da lì per un po’, poi non gli basta e allora scende. Percorre tutto il corridoio fra palco e transenne accompagnato da due giganti della security, stringe mani alle prime file, e tutti và che culo quelli lì! Poi entra nel recinto supervip, quello che sta davanti a me, e tutti oh! Cazzo! Poi si arrampica su una transenna e me lo ritrovo a boh, tre metri, quattro, e in mezzo a tutte le mani tese a implorare una benedizione c’è anche la mia, e l’immagine di qualche libro di catechismo coi lebbrosi che si sporgono verso un europeo biondo e un po’ hippy mi attraversa la mente come la stella di prima. Me ne sbatto le balle, toccami la mano Eddie! Rendimi degno!

Lì! Era lì! (grazie ad Andrea per la foto)

Siamo così scossi fra tutti che neanche ci rendiamo conto che nel frattempo è risalito sul palco e ha iniziato a cantare l’altra canzone che aspettavo da tipo sempre, Society.

Finale con Smile, dei Pearl Jam, e l’immancabile Rockin’ in the Free World.

Escono, rientrano, fanno Hard Sun tutti insieme, compreso il gruppetto che prima accompagnava Glen Hansard.

Amen, scambiamoci un segno di pace. E io davvero, un concerto così intenso e intimo, nonostante fossimo un ippodromo di gente, non lo credevo possibile.
Poi vabbè, la suggestione e l’emozione e la stanchezza, lo so anch’io che i paragoni con la religione sono esagerati, grazie tante.
E fa tanto anche la fame, sulla via del ritorno non riusciamo a trovare un porchettaro aperto, un kebabbaro, un self 24h, niente di niente, il deserto.
Ci mangiamo i pani e i pesci che ci hanno moltiplicato al concerto e andiamo a dormire.

10 commenti

  1. sbilanciati pure, il concerto di Firenze è stata un’esperienza mistica! da giorni sto pensando che è stato qualcosa di incredibile, indimenticabile. Mi ha reso fiera di esserci stata, mi ha anche in qualche modo “cambiata”…chissà se i religiosi che tornano da Lourdes provano le stesse sensazioni… 🙂

  2. La parte su Ringo è una delle cose più divertenti che abbia letto ultimamente. Sei super bravo, e quello che hai scritto è tutto giusto. Posso confermare in toto vista la faticaccia (ripagata) della transenna. Samuel graziato dal caldo soffocante (che ha ostacolato gli insulti promessi nei giorni precedenti dai leoni del web) e delle sue droghe (prese copiosamente per ignorare gli insulti di cui sopra – di cui ha abusato anche il batterista, che forse stava sognando di essere al concerto degli Iron Maiden)

  3. “Poi si arrampica su una transenna e me lo ritrovo a boh, tre metri, quattro, e in mezzo a tutte le mani tese a implorare una benedizione c’è anche la mia, e l’immagine di qualche libro di catechismo coi lebbrosi che si sporgono verso un europeo biondo e un po’ hippy mi attraversa la mente come la stella di prima. Me ne sbatto le balle, toccami la mano Eddie! Rendimi degno!”
    Qui leggendo sono morto
    Cmq mi ha stretto la mano per ben 10 secondi netti.. Un po me la sono menata a lavarmela

  4. Bel resoconto, tanto che alla fine del concerto speravo tanto che quella fosse la scaletta migliore delle date italiane ma mi sa la batte la prima data di Taormina. Anyway, ho adorato tantissimo “Confortably numb” all’organo, mentre “Imagine” l’avrei evitata. Ma sono dettagli, è stato un concerto della madonna!

    1. Imagine me lo mena più o meno sempre, da chiunque. E anche secondo me la prima data di Taormina è quella con la scaletta migliore, No Ceiling grande assente a Firenze

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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