Porto 2017-6

6.

Esiste una serie di videogiochi molto popolare che si chiama Grand Theft Auto, generalmente abbreviata in GTA, in cui controlli un piccolo criminale in un’area di gioco enorme e molto realistica, e gli fai fare tutto quello che fa di solito un criminale senza scrupoli, rubare macchine, investire i pedoni, scendere dalla macchina e derubarli, ammazzare indiscriminatamente chiunque gli capiti a tiro, frequentare locali di striptease e andare a zoccole. Hai anche delle missioni da compiere per far progredire la storia, ma la maggior parte del tempo la passi scappando alla polizia perché proprio non ce l’hai fatta a non stirare quel gruppetto che chiacchierava sul bordo del marciapiede.
Ho installato sul computer l’ultimo capitolo di questo gioco, e devo dire che mi piace parecchio. Sapete quando vi state domandando perché non scrivo più niente da settimane e anche la mia pagina facebook giace dimenticata? Adesso sapete perché.

Il casino di questo gioco è che quando ci passi tanto tempo sopra ti fa perdere un po’ il senso della realtà, ti viene facile immedesimarti. Dev’essere stato per quello che mentre camminavo lungo la strada che dal museo di Serralves scende al fiume ho guardato con avidità le auto parcheggiate, mi sono tenuto alla larga dai tizi che camminavano in senso opposto e mi sono aspettato che in un quartiere così degradato (sì, Marzia, di nuovo) ci fosse almeno un night club in cui entrare e fare amicizia con la spogliarellista o picchiare il buttafuori o entrambi.

Non ce n’erano, i passanti non mi hanno spinto via mugugnandomi contro minacce alle quali non puoi non reagire tirando fuori un fucile d’assalto e massacrando mezzo quartiere, e soprattutto non c’erano night clubs. C’era una scuola francese che doveva essere molto cara, ma non avevo figli da spedirci e ho tirato dritto.
In fondo alla via non c’era neanche il fiume, ma una fermata dell’autobus e un benzinaio. Se fosse stato GTA avrei avuto un’arma da scaricare contro le pompe di benzina provocando un’esplosione che avrebbe ammazzato le persone in attesa alla pensilina, mi avrebbe procurato una o due stelline di taglia (quando hai delle stelline accese la polizia inizia a cercarti, con tre arriva in elicottero, da quattro in su intervengono le forze speciali, poi l’FBI e infine Trump in persona che però prima dice di non volersi immischiare in scenari di guerra internazionali), ma a Porto in un sonnacchioso pomeriggio di gennaio posso solo avvicinare un anziano e chiedergli dov’è il Douro. Mi dice di girare dietro il benzinaio e per favore di non sparare a nessuno, e in dieci minuti arrivo su una strada che conosco. Il fiume è davanti a me, o almeno qualcosa dentro cui scorre dell’acqua, ma sembra più una palude, quindi anche dire che scorre è inesatto.
In pratica davanti a me c’è una distesa di melma e sassi su cui svolazzano decine di gabbiani. Un cartello definisce l’area Paradiso Ornitologico Del Douro, e per sottolineare l’interesse turistico che dovrebbe rappresentare una pozza melmosa accanto a una strada sotto il cartello è stata collocata una panchina.

Seguendo la stessa logica basterebbe piazzare tre o quattro panchine davanti alla discarica di Genova per rivalutare l’area e tirare su i prezzi delle case sfitte.

volavo sopra le nostre case
non c’era nulla di eccezionale

No, esagero, la discarica puzza di cose che qui non ci sono, e poi il profilo di Gaia dall’altra parte è bello da guardare, e meno male, perché tutti gli uccelli strani indicati sul cartellone devono essere in vacanza, qui ci sono solo i soliti gabbiani prepotenti che ti zampettano intorno chiedendo cibo, come se uno a Porto uscisse sempre di casa con le tasche piene di mangime per gabbiani, siete su un fiume, avete l’oceano davanti, procuratevelo da soli il cibo, razza di fannulloni!

Questa panchina mi sta risvegliando istinti reazionari, meglio andarsene prima di diventare un piccolo borghese con simpatie leghiste. E sta giusto arrivando O Elétrico, il piccolo tram dall’aspetto ottocentesco, comodo come viaggiare seduti su un sasso, dove comunque non ti siedi mai perché è sempre pieno di turisti, e per il quale devi pagare un biglietto che costa il triplo di quello di un comune autobus di linea. E infatti ci salgo e sto in piedi, scomodo, in mezzo a turisti romani che aòeggiano meravigliati in direzione di tutto quello che vedono al finestrino, come se la nuova giunta Raggi avesse cancellato auto, pedoni, battelli fluviali e una fetta consistente di panorama.
Ad un certo punto mi siedo, ma siamo quasi arrivati, e neanche me la godo, che comunque le panche di legno vibrano come sedersi su una lavatrice durante la centrifuga.

Scendo alla Ribeira, affollata di turisti sbragati al sole come otarie. Provo disagio. Gira e rigira sono sempre qui e non ne ho voglia, vorrei essere altrove, vorrei essere sulla spiaggia in fondo ad Afurada, a guardare il mare senza turisti romani che aò er mare, to o ricordi quanno ce stava pure da noi, prima che a Raggi ce levasse pure quello, st’impunita. Mi sta di nuovo montando la solita insofferenza verso il genere umano, devo allontanarmi alla svelta da lì.
Ideona! Una bici! Con una bici posso raggiungere la spiaggia dall’altra parte del fiume mettendoci molto meno di tutta la vita! Ci vuole un ciclonoleggio!
C’è un ufficio informazioni, una signorina coi baffi mi indirizza verso un negozio che sta davanti al ponte, che per 10 euri mi affitta una bici da passeggio per quattro ore. E che ci faccio in quattro ore, ci vado a Lisbona? La mia insofferenza verso il genere umano non è così forte da spingermi verso l’eremitaggio definitivo! Ma non ci sono tariffe intermedie, piglio la mia bici e pedalo oltre il ponte di ferro, ridendomela delle macchine in coda di quelli che andiamo a fare un giretto in centro in questa bella giornata ma andiamoci in macchina che a piedi poi ci sono i romani che aò anvedi delle persone te ricordi quanno ce stavano pure da noartri.

Sfreccio per il viale di Gaia come un ciclista vero, mi fermo solo davanti alle cantine Sandeman a fotografare l’ingresso e postare la foto scrivendoci sotto Enter Sandeman, che l’ha fatto una volta una mia amica e mi ha fatto un casino ridere e volevo farlo anch’io, oh, mica posso essere sempre originale, cazzo vuoi, vienici tu a Porto a fare foto con le didascalie spiritose.
Sfreccio oltre un’orchestrina che suona pezzi tradizionali napoletani (???) con grande entusiasmo dei locali e dei turisti che vabbè lo sapete già.
Sfreccio lungo le curve umide e inospitali che ieri mattina mi avevano quasi ammuffito le ossa.
Sfreccio attraverso l’odore di pesce grigliato dei vicoli di Afurada, oltre il lavatoio delle signore curve sotto gerle di panni sporchi, oltre il nuovo porticciolo turistico da cui spuntano giovani fighetti abbronzati, oltre la nuova passeggiata a sette corsie che costeggia l’ultimo tratto di fiume e che l’ultima volta che sono stato qui mica c’era, e neanche le famiglie col passeggino e i bambini col monopattino e stai un po’ attento a dove pedali cazzo!

ho pedalato tanto che sono arrivato in Normandia

Arrivo vivo. Evviva. Stanco come uno che ha appena valicato lo Stelvio, con la capacità polmonare del mio gatto dopo un pomeriggio speso a miagolarmi davanti alla porta che vuole uscire, accaldato come quella volta che seduto al tavolino di Berto ho baciato a tradimento la mia compagna di banco mentre mangiava la pizza, ma vivo.

La Praia do Cabedelo do Douro, come la chiamano qui, è lunga e ventosa, ed essendo a ridosso di una riserva ornitologica, una vera, non la melmaia di prima, è come trovarsi su una pista di atterraggio per aironi: se non stai attento è un attimo che ti ritrovi infiocinato dal becco appuntito di qualche trampoliere di passaggio.

È una bella giornata limpida, cosa che mi spinge a fare quello che ogni genovese in riva al mare tenta di fare in condizioni simili: aguzzare la vista e provare a vedere la Corsica. Dopo un po’ che mi faccio venire la congiuntivite mi sembra di scorgere qualcosa all’orizzonte, e non è una nave di passaggio. Un banco di pesci? Squali? Squelli! Rido da solo della mia battuta salace, che avevo tirato fuori una sera di trent’anni fa, curiosamente proprio l’ultima volta in cui ho avuto degli amici. No no, c’è proprio qualcosa laggiù, e si sta avvicinando.

È un mostro marino! Emerge dall’oceano in un abito di alghe. Ha la testa a forma di uovo sdraiato, il corpo a forma di uovo spaccato, le gambe corte, una peluria sul mento, gli occhiali spessi, i capelli crespi e l’espressione di qualcuno che vorrebbe tanto trovarsi altrove.
Se non fossimo lontanissimi da casa giurerei di conoscerlo. Provo a parlargli, ma mi ignora, attraversa la spiaggia e sprofonda nuovamente nell’acqua torbida alle mie spalle, in una delle pozze che costellano la riserva di cui sopra.
Poi magari non era un mostro marino, ma il guardiano della riserva, che ne so, chi l’ha mai visto un guardiano di riserva portoghese?

Recupero la bici e torno indietro perplesso.

qui è dove scopro di aver perso il cappello

Ho ancora più di tre ore di bici pagata, così vado a rapinare una banca del centro, progettando di far perdere le mie tracce fra le auto in coda, ma le banche in centro sono tutte nella zona alta della città, e dopo venti minuti che ansimo su per una parete che gli autoctoni si ostinano a definire strada, rinuncio e me ne vado in ostello a fare la doccia, poi con calma torno alla Ribeira in mezzo alle otarie. Ce ne sono due vestite in modo buffo, sono Marzia e Vivienne Westwood. Arrivo in volata con un gran darci di campanello, che Marzia è sorda e se non faccio così l’unico modo per attirare la sua attenzione è investirla.
Che fate? Prendiamo il sole. Andiamo a fare aperitivo? No. Dai. Ma dobbiamo tornare in albergo e l’ultimo aereo è fra mezz’ora. Ci andate a piedi, cazzo te ne frega, oppure non ci andate proprio, tanto stasera dovete tornare giù per la cena. Va bene dai, aperitivo. Circolo dei velisti? Che domande, certo!

Il circolo dei velisti lo abbiamo soprannominato così la prima volta che ci siamo stati, perché di sicuro appartiene a una qualche associazione cittadina, ma di velistico non ha proprio niente, e neanche di vagamente sofisticato. È un baretto pieno di anziani gestito dallo stereotipo del portoghese antipatico, e ai tavoli c’è un uomo preistorico che quando ti prende l’ordinazione non parla nessuna lingua che non si sia estinta da almeno un milione di anni: tu gli dici che vuoi una birra, lui grugnisce e ti mostra le zanne. Ha davvero le zanne, gialle e appuntite. Ci siamo sempre trovati bene lì, nessun turista scassacazzi e tanti tavolini liberi, o quasi liberi, basta spostare l’anziano che ci è morto sopra.

aperibeira

(continua)

1 commento

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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