Porto 2017-5

5.

Qui è dove mi alzo la mattina carico di ottime intenzioni e decido di smetterla con questa vita priva di stimoli e amici ignoranti e sopravvivere trascinandomi nella mediocrità e musicadimerda e teatro come se il teatro fosse l’unica cosa che mi salverà dalla buzzurra in cui ciabatto da anni, con le crocs.
Qui è dove vado a visitare il museo di arte contemporanea di Porto.

Perché va bene leggere, suonare, tutta l’arte è importante, ma signori miei, è solo nell’arte contemporanea che l’uomo trova le sue risposte. Quando ti trovi in una stanza tutta bianca, con delle vetrate che si affacciano su un parco stupendo, e la luce di una calda mattina invernale inonda le pareti spoglie, e tu sei lì, unico testimone di quell’incontro fra l’umano e il divino, e osservi una tavola da surf segata in quattro, che incombe su quel vuoto come il monolite di 2001 Odissea Nello Spazio, in quel momento lo capisci: l’arte non è appesa ai muri, l’arte sei tu. È tutto quello che ti attraversa e viene metabolizzato e rimesso in circolo, il messaggio, il significato, l’ispirazione sono tutte chiacchiere, sei tu quello che rende quel pezzo di poliuretano l’espressione di una sensibilità artistica, tu che sei lì e lo osservi. L’ha capito benissimo Christo quando ha intruppato migliaia di buoi con lo zainetto e il cellulare su una piattaforma galleggiante in mezzo a un lago. Se ti fa prendere il treno apposta per farti ore di coda e ti fa tornare a casa felice di essere stato partecipe di una passeggiata scomoda e umida e lentissima che se fossi andato a camminare ai giardinetti spendevi meno e ti restava anche il tempo di guardarti un film e pulire casa, non ci sono cazzi, quella è arte. Se domani vai a Venezia a fotografare l’autografo di Melina Riccio sul muro della stazione in fondo al ponte di Calatrava rendi arte anche Melina Riccio, e non solo una sciroccata che imbratta i muri di Genova. Che poi che differenza ci sarebbe fra lei e Banksy, a parte che uno disegna e l’altra scrive in un italiano discutibile?

E la forma più paracula di tutte le arti è proprio l’arte contemporanea. Quattro cerchietti disegnati a biro su un foglio a quadretti incorniciato in una cornice ikea di quelle più economiche fanno bella mostra di sé in un percorso dedicato a un artista scarno, Michael Krebber. Devi vedere la visione d’insieme, è un provocatore, è una tappa di un percorso, c’è un significato. Sticazzi. Lo decido io il significato, se me lo spiega lui mi addormento dopo due minuti, anche perché me lo spiega in tedesco. E la spiegazione che mi do io mi appaga, e mi godo tutta la sua opera con calma, senza sentirmi come se mi fossi perso un passaggio. Per quello è arte paracula, perché se non capisci qualcosa viene subito a batterti sulla spalla e a dirti va bene così, rilassati, non sei tu, tranquillo.
Giotto è molto più pretenzioso, per dire. Con lui fatichi a identificarti nel processo, ti dice delle cose e pretende che le capisci, che ti studi la storia della prospettiva, la simbologia, il contesto storico. I contemporanei montano una passerella gialla sul lago e ti chiedono solo di camminarci sopra e farti due foto, segano una tavola da surf, tagliano una tela. A posto così, il resto metticelo tu.

famo a capisse

Li adoro i contemporanei, appartengono a una generazione che si esprime secondo un linguaggio che pesca nello stesso calderone da cui raccogliamo tutti. Abbiamo un retroterra comune, e questo facilita il dialogo. Ogni volta che esco da Genova vado a cercare il museo e mi ci perdo. A Praga, a Milano. Oltretutto l’edificio è sempre interessante quanto il suo contenuto, e Serralves non fa eccezione: art deco e modernismo, qualunque cosa significhi, io il massimo che capisco è questo è il pavimento e quello no, devi camminare qui. Ma che bello lo stesso camminare per il parco e infilarsi nella palazzina a curiosare la mostra di Mirò e non capirci un cazzo e sentirsi in pace col mondo. C’era una scopa con gli occhi! Mirò usava dei colori carichi che ti fanno venire voglia di indossarli, ma di più, di averceli dentro sempre, anche i neri sono neri carichi, neri neri. Poco tempo fa uno scienziato ha inventato un colore nero capace di assorbire il 99.965% della luce, che ne fa il nero più nero esistente al mondo, almeno finché a qualcuno non verrà in mente di estrarre il cuore della mia ex. Mirò non lo sapeva e ha usato un nero molto meno nero e più lucido, ma è così ricco il nero di Mirò che il vantablack non lo paragono neanche.

Marzia dovrebbe farsi i capelli blu

Di meno bello c’è solo arrivarci, al museo di Serralves. La guida ti dice di scendere con la metro a Casa da Musica, un altro edificio figo che non ci crederesti, e prima o poi lo vado a visitare anche dentro, e poi di andare in quella direzione. Quello che non ti dice è che in quella direzione ci devi andare finché non superi la frontiera col Belgio, poi giri a sinistra. Ho camminato lungo un viale dritto e lungo che mi ha fatto finire in mezzo a palazzoni così tetri che sembrava la pagina del modernismo socialista, e ho pensato a Marzia che leggerà queste righe e mi prenderà per il culo per il mio solito superpotere, ma che se fosse stata con me mi avrebbe ringraziato per averla portata davanti alla sede del partito comunista portoghese ad ammirare il murale molto comunista, ma poi mi avrebbe insultato senza neanche prendere fiato da lì fino al museo. Quindi vedi che bello è viaggiare da soli? Niente insulti, ti fermi a fotografare i palazzoni tetri e ti godi il fascino della banlieue, che anche in portoghese avrà il suo nome ma che secondo me non è evocativo come banlieue e soprattutto non richiama alla mente film memorabili.

superbloc

Già che sono al museo e non ho idea di come tornare in centro e piuttosto che farmela a piedi chiedo se posso restare a vivere lì che oltretutto in una sala ho fatto amicizia con una custode così carina che restare a vivere lì non mi sembra neanche un’idea tanto assurda, vado a mangiare al ristorante del museo. Perché c’è anche un ristorante, ed è contemporaneo pure lui, pensa che figata. Se vai al museo degli impressionisti non sperare di mangiare un’insalata dell’800 perché è finita nella spazzatura da un paio di secoli. Al Dox di Praga c’è un baretto che fa anche da mangiare, ma è un baretto. Qui c’è il baretto da scappati di casa al piano interrato, e al primo piano c’è il ristorantone buffet con vista sul parco e camerieri che ti vengono a servire il vino e ti chiedono come stai e tu non capisci perché dei camerieri portoghesi dovrebbero essere gentili con te, visto che storicamente i camerieri portoghesi non sono gentili mai ma mai (qui la storia dei camerieri portoghesi raccontata dal mio amico Alessandro), e considerata la strada lunghissima che hai fatto per arrivare ti sembra plausibile che da qualche parte lungo Avenida da Boavista ci fosse un posto di frontiera e nessuno ti abbia chiesto i documenti perché Schengen o perché erano in pausa colazione, che da queste parti è serissima, visto che come abbiamo già visto i dolci portoghesi sono una roba che ti ci vuole una settimana a finirli.

Dopo pranzo mi affaccio alla balaustra nell’atrio per capire seriamente se dovrò rifarmi la strada a piedi, rubare una macchina, chiedere ospitalità, chiamare un taxi o buttarmi di sotto, e in quel momento esce dalla sala di Klebber la custode carina di cui sopra, che mi vede e mi fa un cenno di saluto. Allora scendo e le chiedo come tornare in città. Le chiederei anche come si chiama e se è fidanzata e cosa fa stasera, ma sono pur sempre Pablo il Sociopatico, e dopo che mi ha spiegato come scendere al fiume in cinque minuti e prendere il tram non riesco a reggere l’idea di me che la sto fissando con la faccia ebete e mi ricompongo e scappo lontanissimo. Poi dici che non conosci mai nessuno.

(continua)

1 commento

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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