nostos

Ci incontreremo un venerdì sera, io sbucherò da un vicolo e tu sarai lì a un metro, di spalle. Mi riconoscerai dalla voce e ti volterai a salutarmi, ma io avrò avuto tutto il tempo di riconoscerti dai capelli, dal modo in cui tieni le spalle, dal profumo, dal modo in cui mi si annoda lo stomaco quando ti vedo. Nel tempo che impiegherai a voltarti io mi sarò già innamorato di te tre volte.

Riderai dei miei baffi, dirai “Ho visto le foto, per me è un no”, ma i tuoi occhi la penseranno diversamente.
Non mi presenterai l’uomo che fino a un momento prima ti teneva la mano, né io ti farò conoscere la tizia che mi sta accanto. Più tardi ci giustificheremo con loro sentendoci un po’ ladri, e non sapremo perché.

Mi scriverai il giorno dopo, dirai sai quel film di cui abbiamo parlato ieri. Non avremo parlato di nessun film, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, e cominceremo così, con una scusa patetica. Ti farò ridere, ti darò una scusa per scrivermi ancora, e quando non lo farai sarò io a inventarmi un pretesto. Ci scriveremo tutti i giorni all’ora di pranzo perché ti distrae dal lavoro, spesso la sera perché non c’è niente in televisione, ogni tanto il sabato sera perché non avevamo voglia di uscire.

Lasceremo passare diverse settimane senza che succeda altro, finché un giorno troverò il coraggio di chiederti se sta succedendo davvero, e tu mi risponderai che stavi per farmi la stessa domanda.
Io dirò che avevo scambiato le tue attenzioni per amicizia, che non pensavo davvero che tu di nuovo, che sapevo che tu di nuovo mai nella vita perché.
Tu dirai che avevi scambiato le mie attenzioni per amicizia, che non pensavi davvero che io di nuovo, che dopo tutto quel che era successo volessi ancora che.

Allora ti inviterò a cena. Siederemo imbarazzati vicino alla finestra, senza il coraggio di guardarci fisseremo il cartello che dice “no bancomat no carte di credito”. Parlerò per primo, è sempre toccato a me cominciare e a te chiudere, ma stavolta non saprò cosa dire. Per la prima volta mi troverò a fissare i tuoi occhi e non troverò le parole.
Tu riderai, dirai qualcosa su giorni da segnare sul calendario, io non sentirò niente, i miei neuroni si staranno facendo le mèches col tuo sorriso, quello che mi regalavi quand’eravamo soli. Ho baciato tante di quelle volte le tue labbra tirate che mi sembrerà di sentire il rumore dei nostri incisivi che si scontrano.

Parlerai tu. Dirai qualcosa sulle emozioni e l’imbarazzo e il tempo e non lo so cosa dirai, non ti starò ascoltando, capirò solo che la tua bocca si sta muovendo e che è proprio lì che vorrei essere, di tutti i posti bellissimi su questo pianeta non me ne verrà in mente nessuno migliore, e allora supererò i tovaglioli e i piatti e le posate e la macchia di sugo e il mezzo panino e le briciole e la carta dei grissini e le acciughe fritte e arriverò lì, e tu mi accoglierai ridendo, e si sentirà il rumore di incisivi che sbattono, e per la prima volta dopo tanti anni mi sentirò di nuovo a casa.

Ci rivedremo il giorno dopo e quello dopo ancora, ci racconteremo dei giorni in cui avrei voluto chiamarti per raccontarti di averti sognata, e di quando avresti voluto chiamarmi perché avevi voglia di portarmi al cinema, e di come nessuno ha chiamato nessuno, perché tutte le storie finiscono annegate nei formalismi, e ci sentiremo due cretini per tutto questo tempo sprecato a cercarci nella faccia di altre persone, a chiederci perché non erano mai abbastanza divertenti, abbastanza affettuose, perché stare con loro senza parlare ci metteva a disagio.

Passeranno settimane e mesi e smetteremo di contarli e di stupirci, ci arrenderemo all’evidenza, cominceremo a guardare avanti, solo che avanti non ci sarà granché da vedere: me ne andrò pochi mesi più tardi, a novantasei anni.

Saremo stati insieme poco più di quell’altra volta, ma sarai stata la cosa più bella che mi sia mai capitata.
Di nuovo.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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