Santo Stefano

Questi campi mi hanno visto bambino. Allora era il nonno a falciarli, le terrazze cadevano a piombo e il sentiero le tagliava in due. Era tutto in ordine, allora.
Anche mio padre ha mantenuto il terreno in ordine, finché ha potuto, poi col passare degli anni ha lasciato che il bosco se lo riprendesse, una terrazza alla volta, fin sopra la cascina. Gli bastava il campo di sotto, dove faceva l’orto.
Negli ultimi anni lo vedevi col falcetto in mano, quando calava il sole, a tenere pulito il sentiero fino al trogolo, ma era più una dichiarazione d’intenti, come a far sapere alla vegetazione che non se n’era ancora andato.
Da ragazzino lì dietro ci andavo a cercare le salamandre. Era stato Ghiozzi a insegnarmi a riconoscerle. Con lui se ne vedevano di animali, eravamo sempre in giro nel bosco o giù al torrente. Lui veniva dalla città, diceva che là bestie così non ne vedevi, e mi portava fino in cima a un monte per mostrarmi il nido di un allocco. Un’altra volta era un martin pescatore, o la tana della volpe.

All’inizio, quando tornavo in paese, passavo a cercarlo. Ci sedevamo al bar e ci raccontavamo. Mi parlava della gente, il tale si era sposato, l’altro aveva trovato lavoro in fabbrica. Adesso faceva il benzinaio, un lavoro come un altro, nessuna occupazione è bella se sei costretto a farla ogni giorno. Neanche lui andava più nel bosco, se non qualche volta, a funghi.

Ascoltava le mie storie di città con la stessa attenzione avida del contadino. Gli parlavo del mio lavoro, del tempo che trascorrevo coi nuovi amici, delle nuove passioni che a lui risultavano aliene. Era diventato un campagnolo, si era lasciato contagiare dal ritmo lento di questi posti, dalla loro semplicità. Ora vedeva grande ciò che per me era normale, come andare a teatro. Era la vita che vedi in televisione, in città che raggiungi con l’aereo. Eppure stavo a mezz’ora da lì, ancora quando vivevo in paese mi spostavo spesso. Ma quelli come Ghiozzi la distanza ce l’hanno dentro, lui abitava qui fin da prima di venirci a stare.
Dopo un po’ ci siamo persi di vista, quando mi è nato il bambino non l’ho neanche invitato al battesimo.

La cascina è piena degli attrezzi di mio padre, nessuno li ha più spostati. C’è ancora il recinto della capra, la gabbia dei conigli. Appeso a un palo il vecchio cappello che indossava per lavorare nell’orto. Avrebbe voluto che lo seguissi in questa passione che aveva ereditato dai suoi, ma sono sempre stato diverso, come mio figlio lo è da me, pur senza assomigliare a nessun altro.
Oggi le spine si affacciano al recinto, nel campo di sotto cresce l’erba grama.
Mia madre non ha mai voluto che qualcuno ci mettesse le mani, sperava di farmi venire la voglia, che fosse una molla per tornare a casa.
Adesso che è malata sono tornato, per starle vicino, ma quando sono con lei la evito, ho paura di ciò che potrebbe dire. Non ha un male dal quale si guarisce, e non sarei capace di mentirle. Per non farmi leggere il volto le sto lontano.
È vile, ha bisogno di aver vicino suo figlio.
Non sopporto di vederla arrendersi, lei che si è sempre bastata da sola. Vederla vedersi sparire un po’ alla volta e non sapere che fare. Poter solo aspettare di andarsene.

La mattina mi alzo a ore inconsuete per raggiungere il sentiero che monta dal trogolo, in mezz’ora sono oltre i castagni, fra le conifere storpiate dal vento, a respirare. Mi piace salire in costa e apprezzare il silenzio del vallone. Qui non c’è malattia, i pensieri li strappa via il soffio costante che batte il dorso del monte, per un’ora sono libero.
A casa mia, in città, il vento non riesce a passare i palazzi, l’odore di benzina ristagna, ti ammanta. Vien voglia di rifugiarsi quassù.
Ma la vita è altrove, quest’ora di tregua non conta. Anche il silenzio, alla lunga, ti angoscia.

Torno sui miei passi, mi lascio raggiungere dal pensiero di mia madre. Quando sarà andata venderò la casa e la terra. Non voglio tornare più, non c’è niente qui che sento appartenermi.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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