Diario portoghese 2 – Due arrivi

Segunda feira de Lisboa

Atterriamo dieci minuti prima delle nove, ora locale, e già ci siamo rifatti gli occhi avvicinandoci alla città da est, lungo la via tortuosa del Tago, u Tejo come lo chiamano qui, fino a quando apre le sue sponde come braccia verso l’oceano. Lisbona è illuminata da migliaia di luci e riempie tutto il promontorio; una linea bianca spezzata si allontana verso l’altra sponda, è il ponte Vasco Da Gama.

Appena ritirata la valigia andiamo a cercare un mezzo di trasporto. Il marciapiede dove arrivano i taxi è affollato come alla biglietteria di un concerto, chiediamo come mai e ci sentiamo rispondere che il mezzo è particolarmente economico. Intanto che siamo lì che decidiamo dove andare arriva l’autobus e saliamo su quello insieme a pochi altri, mentre la maggior parte resta ad aspettare la navetta, che costa il doppio e ci mette lo stesso tempo.

Mi guardo in giro un po’ sperso, al buio le case che sfilano dai finestrini sembrano uguali a quelle di qualunque periferia italiana, con la sola differenza che capisco pochissimo di quel che dicono i miei vicini di posto.

Marzia mi indica un palazzo sulla sinistra e restiamo tutti e due ad ammirarlo, ma non è un raro gioiello di architettura moresca, è un casermone abbandonato che abbiamo visto su internet qualche tempo fa. La sua particolarità è di essere stato ricoperto dal murale più bello che possa ricordare, con un tizio grande come tutta la facciata che infila un braccio in una finestra e agguanta un’altra persona sulla parete di là. Quando torniamo a Lisbona veniamo a fotografarlo secco!

Scendiamo in Praça Dom Luis, a Rossio, e vengo travolto da un deja vu che mi fa tremare le ginocchia. Mi sento come se fossi già stato lì, riconosco ogni angolo, ogni vetrina, i ristoranti, la colonna al centro della piazza, mi oriento come se fossi lì da un mese più che da un minuto. Mi volto verso Marzia che ho le lacrime agli occhi per l’emozione di scoprirmi un veggente, ma lei mi guarda come se fossi sempre lo stesso cretino con cui vive da cinque anni.

“La conosci perché l’hai cercata su google maps, idiota! Dimmi dove dobbiamo andare e falla finita.”

Ah già, la tecnologia infida che mi ha fatto imparare a memoria la strada per l’albergo ma mi ha fatto scordare di mettere l’olio nella macchina.

Arriviamo alla reception del Poet’s Hostel con la sicurezza di un testimone di geova verso la casa dell’operaio che ha appena fatto la notte, scopriamo che si trova proprio dietro il bar di Pessoa, quello con la statua in bronzo seduta al tavolino a farsi fotografare da mezza Italia, tre quarti di Giappone e tutta la Francia, e scopriamo che la nostra camera è in un altro palazzo un po’ più in là, trecento metri sopra la fermata dell’autobus.

Per raggiungerlo attraversiamo quella parte di quartiere che sta fra la Baixa e il Barrio Alto, e ad ogni angolo svoltato faccio un verso stupito per la bellezza di quel che sto vedendo. Lisbona sembra disegnata, coi suoi pavimenti di porfido e i muri a piastrelle, le case basse, le piazzette a sorpresa, ci sono scorci da cartolina ad ogni angolo. Ci sono anche un casino di italiani, e la cosa mi infastidisce un po’, tanto che cerco di spacciarmi per straniero fra gli stranieri parlando genovese.

La camera è al terzo piano di una palazzina che mi ricorda il b&b di Londra dove ho lavorato, scale verticali in legno rivestito di moquette, strettissime e rumorosissime, ogni piano diverso dai precedenti. Siamo praticamente nel sottotetto, e la temperatura è quella di un solaio assolato, ma la stanza è caruccia, un letto sul pavimento, muri arancioni, un abat-jour rosso, quando spegni la luce sembra un boudoir, chissà che sogni che farò.

Scendiamo in piazza e ci vediamo con gli altri due sotto i pilastri del teatro Carlo Felice Lisbonese, gironzoliamo un po’ e andiamo a mangiare noi, bere loro, in fondo alla via del nostro albergo, orata e bacalau alla griglia. Da stramazzo, molto turistico, qualità discreta, un gran casino, il cameriere mi ha detto Cesare Prandelli, non ci torno più.

Andiamo a dormire nel lettino basso con le molle a vista e un caldo allucinante, ma appena mi addormento non ci sto neanche male. Sarà che sono stanco, ma tranne un paio di volte che mi sono sentito cadere sul pavimento sono stato da dio. Alle tre sono rientrati i nostri vicini di piano, e hanno fatto un gran casino, ma non me ne sono accorto.

17/08/2010 A cidade do Porto

“Allora ci alziamo alle sette, andiamo a far colazione e prendiamo la metro fino a Oriente, che è una bella stazione, saliamo sull’intercity delle otto, massimo nove e per le undici siamo a Porto, ochei? Ochei.”

Ci alziamo alle otto e ci vuol tutta, facciamo la cacca e usciamo. Colazione in un baretto in Praça Dietro Quella Do Teatro, dove ci rendiamo conto che non tutti i camerieri parlano la nostra lingua, questo non mi chiama Cesareprandelli, ma fatichiamo un po’ a spiegargli che Marzia non può mangiare niente col burro. Mangio il dolcetto nazionale portoghese, il pastel de nata, un bicchiere di sfoglia pieno di crema, piuttosto buono, ma Lucilla che me l’ha consigliato mi ha detto che il suo aveva la crema calda, così come lo mangio io è un po’ pesante. L’espresso è dignitoso, solo in Francia bevi quelle brode infami.

Per fare prima ci dirigiamo alla stazione di Santa Apolonia, una costruzione piuttosto semplice, pitturata di azzurro, poco affollata, dà un’impressione di spazio. Il bigliettaio ci dice di correre, che l’intercity sta per partire e quello dopo c’è molto più tardi. Lo prendiamo dopo una prova podistica con doppio zaino su pavimento scivoloso e andiamo a cercare il nostro posto. Anche qui un mucchio di italiani, principalmente romani. Li vediamo seduti qua e là per i vagoni, poi di nuovo sciamare verso i loro posti, che quelli dove si erano seduti appartenevano a qualcun altro.

Marzia non dice niente, osserva lo stato del treno col fervore mistico di chi vede la madonna. Quando dietro una porta troviamo la carrozza bar, col bancone e i tavolini, si fa venire le stimmate.

Il viaggio è tranquillo, ad un certo punto sale una grossa signora con un cesto pieno di pasticcini e prova a venderli. Griderebbe anche, ma ha il fiatone, ci vuol tutta che non stramazzi in corridoio.

Arriviamo a Porto e mi ricordo di nuovo tutta la strada fino all’albergo, dove si prende la metropolitana, dove si scende, dove si svolta usciti dalla stazione. L’unica cosa che non potevo sapere è che una volta in cima alle scale ti prende un odore di mare che a Lisbona manca del tutto.

Passiamo davanti al mercato, e vuoi non entrare? Basta un’occhiata per decidere che sarà la meta del nostro pranzo, ma prima l’ostello, che tanto è lì dietro.

Appena superato il portone ci accoglie una parata di locandine di Star Wars, e io decido che voglio venire a vivere lì. E dai, l’ostello di Lisbona era sacrificato, ma non te ne rendevi conto se non avevi niente con cui confrontarlo, appena ci provi diventa un buco merdoso.

Questo, oltre alle stanze a tema cinematografico molto accoglienti coi materassi che non si sentono le molle e col soffitto più alto di un metro e una temperatura che non ti fa sciogliere la maglietta addosso e senza quella cazzo di lampadina rossa e coi pavimenti che non scricchiolano al minimo respiro e i corridoi più larghi di quaranta centimetri ha pure una terrazza dove andare ad abbordare le olandesi completa di piscina, no dico, piscina, ha la playstation, ha una chitarra, ha un casino di libri, ha una spada laser buttata lì a disposizione del primo jedi che passa, e come se non bastasse ti rifanno la camera ogni giorno.

La nostra stanza è ispirata alla Sposa Cadavere di Tim Burton e si affaccia sul teatro Rivoli di marcata ispirazione fascista. Sono curioso di scoprire quale piega assurda prenderanno i miei sogni in un posto così, alla prima cena di bacalhao.

Se non fosse che abbiamo già pagato le restanti notti a Lisbona andrei a cercare un altro posto.

Ci sistemiamo e via secchi a pranzo al mercato do Bolhao.

C’è un tavolino libero dietro i banchi del pesce, gli altri sono tutti occupati da turisti e gente del luogo. Li riconosci, sono quelli che al posto della macchina fotografica hanno in mano una birra Super Bock.

Mentre aspettiamo di ordinare ci mettiamo a chiacchierare con un tizio pelato che sembra essere autoctono. Per farsi capire mescola parole portoghesi ad altre spagnole, Marzia gli risponde in spagnolo con qualche vocabolo portoghese pronunciato comunque in spagnolo, io gli parlo in italiano aggiungendo ‘inho’ in fondo ad ogni suono.

Parliamo a lungo, ma sinceramente non so di cosa: durante la giornata Marzia mi dice cose che ha saputo dal tizio, e la guardo come se mi recitasse a memoria l’opera omnia di Pessoa, comprese le pubblicazioni scritte con lo pseudonimo di Pietro Gambadilegno, che non conosce nessuno.

La cameriera invece è portoghese senza influenze estere, e quando ci presenta la lista dei piatti non capiamo un belino. Alla fine ci porta quello che ha ordinato il nostro vicino, sardine grigliate con un contorno abbondante di patate bollite, lattuga e pomodori.

Al tavolo accanto si siede una comitiva di vecchietti brasiliani, che fanno come il vicino portoghese e attaccano bottone. Nel frattempo il vicino se n’è andato e il suo posto l’hanno preso due ragazze spagnole con le quali attacchiamo bottone noi. Aggiungiamo la coppia francese seduta più in là che ci guarda e ridacchia ed è chiaro come col semplice aiuto di una brocca di vinho verde siamo riusciti a trasformare una trattoria all’aperto in un club internazionale di ittiofili.

I brasiliani continuano a chiamare la cameriera Maria, finché lei non rivela di chiamarsi Filippa. A quel punto siamo noi che la chiamiamo Maria, per pietà.

Terminato il pranzo ci scambiamo l’indirizzo email coi brasiliani e ce ne andiamo.

Il Douro

La visita della città comincia dal basso, per prima cosa andiamo a vedere la Ribeira, il quartiere che sta sul fiume, ma soprattutto la meraviglia del ponte di ferro Dom Luis I, costruito dalla zia di Gustave Eiffel coi pezzi avanzati della torre parigina.

Le strade del centro sono ripidissime, una casa su tre è in rovina, verrebbe da pensare che nelle giornate di pioggia gli abitanti siano soliti uscire dalla porta e scivolare giù fino al Douro.

Ed eccolo il fiume, lo vediamo appena oltre la distesa di ombrelloni di un ristorante. Dietro di lui Vila Nova De Gaia, la città gemella che sorge sull’altra sponda, solo Gaia per quelli di qui, e proprio nel mezzo il ponte, il Ferraccio, come lo chiama un portoghese tipico che mi sono appena inventato, ma che potrebbe benissimo essere un alter ego di Pessoa sconosciuto ai più, Pedro Gambadelenho.

È imponente, il ponte (anche Pedro Gambadelenho, ma non sto parlando di lui ora), due livelli a diverse altezze tenuti insieme da un arco gigantesco, su quello basso passano le macchine e ci si buttano i ragazzini per farsi fotografare dai turisti, quello alto è per i treni e ci si buttano gli adulti, ma a loro le foto non le fanno, tuttalpiù l’autopsia.

Non puoi far finta che non ci sia il ponte quando sei sul lungofiume, attira lo sguardo, è come un vecchio parente che sta lì affacciato a guardare le barche che gli passano sotto.

Non è l’unico ponte, in città ce ne sono altri quattro o cinque, dalla stazione di Campanhà alla foce, comunque ti volti ne vedi uno, ma non sono tutti belli come questo.

E il fiume, il fiume è vivo, non è come l’Arno, o il Tevere, che se ne stanno lì rinchiusi nei loro argini a farsi adocchiare dai passanti, questo è una piazza, c’è gente intorno, c’è gente in mezzo, ci sono i barconi che fanno su e giù a portare turisti a vedere i ponti per 10 euri, c’è il motoscafo che per una cifra più alta ti regala piroette, testacoda, un bagno fuori programma e la possibilità di vomitarti il pranzo sulle scarpe, c’è il solito coglione sulla moto d’acqua che impenna sulle scie dei barconi e va avanti e indietro e bzzzz e bzzzz e bzzzzz e ti verrebbe voglia di affittare il motoscafo e speronarlo una volta per tutte, ci sono i vecchi battelli che portavano le botti, tutti ricostruiti belli uguali ormeggiati davanti a Gaia e a quelli che corrono o vanno in bici o prendono il sole sui prati di fronte alle cantine del porto.

Raggiungiamo il ponte, ma non lo attraversiamo subito, prima ci arrampichiamo su per un vicoletto tutto a scale, ripidissimo, per passare di là dal lato superiore e goderci il panorama. Ci sono dei gatti, Marzia perde ogni dignità inseguendoli tutti nella speranza di poterne toccare almeno uno; fa dei versi che la gente si volta e ci guarda e scuote la testa, micimicimici mimiminininipipipipi, io indosso dei baffi finti, non si sa mai.

Il ponte dall’alto non è affascinante come il suo piano inferiore, e ci tira anche un vento che d’inverno ti ci voglio vedere, ma la vista è magnifica, Porto dall’alto è un capolavoro di tetti e pareti colorate, con questa cornice d’acqua a sottolinearne ogni screpolatura, ogni vicolo.

Scendiamo verso Gaia e incrociamo un tizio con un grosso grifone sulla maglietta, e ti pare che non gli dico niente? Ci scambiamo le solite formalità da turisti all’estero, da quanto tempo siete qui, vi piace la città, abbiamo comprato nessuno nel frattempo, e ci salutiamo.

Il lungofiume di Vila Nova De Gaia è bello soleggiato, c’è meno casino che di fronte, anche perché i ristoranti sono tutti sulla strada alle nostre spalle, qui c’è un prato a separare la passeggiata dalle barche; la vista di Porto è da cartolina, sembra una città olandese del ‘500, faccio un centinaio di foto in venti minuti, ne avrò da scremare parecchie al mio ritorno a casa.

Non ci spingiamo tanto in là, ripercorriamo il ponte passando di sotto e prendiamo la via dell’ostello col passo della salita.

In una stradina appena fuori la Ribeira ci imbattiamo nell’Adega São Nicolau, un ristorante suggerito dalla Guida Giorgia, la sorella di Marzia che va ad abbuffarsi in giro per il mondo e non si trova bene in nessun posto. Se è piaciuto a lei vuol dire che merita, così torniamo in camera a cambiarci, che quando va giù il sole il termometro scende parecchio, e usciamo con lo stomaco a farci da navigatore.

C’è una strana folla sulle scale accanto al ristorante, e non tardiamo a scoprire perché: sono tutti in coda per un tavolo! Abbiamo un mancamento, forse è il caso di scegliere un’altra meta per la cena. Una coppia italiana che sta cenando fuori ci suggerisce di aspettare, che merita, e allora vabbè, aspettiamo.

Una mezz’oretta più tardi ci sediamo, facciamo sparire le polpette di baccalà che arrivano per antipasto e ci buttiamo sulla portata principale come ciclisti sull’ultimo chilometro: cernia grigliata e polpo in una maniera che non ricordo, ma che poi è fritto col riso. Finisco il mio e quello della mia compagna, che ha uno stomaco da principiante, tanto con le salite che ci sono in città puoi ingozzarti quanto vuoi e andare a dormire sempre bello leggero.

E siccome le scale non sono mai abbastanza vuoi mica negarti il piacere di arrampicarti fino sul tetto del palazzo per visitare la fantomatica terrazza, sede di tutte le feste più fighe della città, dove c’è addirittura la piscina e si vedono le torri di Isengard e Mordor, vuoi mica negartelo?

Saliamo ancora i due piani che restano e telalì la terrazza, piena di ragazzotti che confabulano in molteplici lingue, ma che quando limonano ne usano solo due per volta, nella più classica tradizione degli ostelli, compreso quello di Hostel, ma senza che ti ammazzino dopo.

Io per la verità un po’ fifa di essere ammazzato nel cuore della notte ce l’ho, che un posto così bello senza controindicazioni non mi sembra vero. O ci ammazzano tutti e due o ci svegliamo alle quattro in mezzo a un rave in camera e non c’è più verso di chiudere occhio.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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